Edificio in rovina: i contrasti tra gli eredi non giustificano l’inottemperanza dell’ordinanza di demolizione (Cass. pen. n. 7908/2013)

Redazione 18/02/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza 3/7/09 il Tribunale di Arezzo, sezione distaccata di Montevarchi, con motivazione contestuale condannava S.G., S.M. e S.A. (dopo opposizione a decreto penale di condanna) alla pena di Euro 150 di ammenda ciascuno per il reato di cui all’art. 650 c.p. (contestato in (omissis)).

Secondo l’accusa gli S. (padre e due figli), proprietari di un fabbricato di civile abitazione in (omissis) in precarie condizioni statiche, non avevano ottemperato ad una ordinanza del sindaco emessa il 4/6/05 e notificata il 6/6/05 che imponeva loro di provvedere alla immediata demolizione di una precaria tettoia in legno, alla demolizione e consolidamento delle parti pericolanti dell’edificio e alla transennatura dei lati pericolanti dello stesso e di produrre entro 30 giorni l’asseverazione dei completati lavori.

Il giudice non accettava la giustificazione addotta già in sede di opposizione circa l’esistenza di contrasti di carattere ereditario in ordine alla divisione dell’edificio, quanto meno per la mancata eliminazione della parti pericolanti che mettevano a repentaglio la pubblica incolumità.

Ricorreva per cassazione la difesa, deducendo: 1) violazione di legge (art. 650 c.p.; art. 51 c.p., comma 4) in ordine all’omessa valutazione dell’illegittimità del provvedimento dell’autorità sia sotto il profilo amministrativo (l’ordinanza contingibile e urgente emessa dal sindaco era prevista dalla legge per motivi sanitari o di igiene e non di incolumità) sia sotto il profilo penale (la sua ottemperanza avrebbe quanto meno esposto gli S. alla denuncia dei comproprietari del bene per il reato di danneggiamento); 2) vizio di motivazione per il mancato riconoscimento dell’impossibilità per gli imputati di ottemperare all’ordinanza (non vi era solo la pendenza – di cui il giudice dava atto – di un contenzioso civile sul bene per la sua divisione, ma esso era nell’esclusiva disponibilità dei comproprietari, che rifiutavano ogni intervento e intromissione; di ciò l’autorità comunale era stata informata, con l’invito ad intervenire d’ufficio). Chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata.

Con memoria dd. 16/1/13 (dep. il 18/1/13) la difesa dei ricorrenti insisteva sull’impossibilità ad adempiere e l’illegittimità dell’atto amministrativo e deduceva per la prima volta la prescrizione del reato (maturata il 22/4/10).

Alla pubblica udienza fissata per la discussione il PG chiedeva dichiararsi l’inammissibilità del ricorso. Nessuno compariva per i ricorrenti.

Motivi della decisione

Il ricorso, manifestamente infondato, va respinto. L’ordinanza del sindaco è legittima. E’ ben vero che in premessa cita l’art. 50, comma 5, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle Leggi sull’ordinamento degli Enti Locali) in tema di ordinanze contingibili e urgenti che sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, ma lo stesso decreto legislativo, al successivo art. 54, comma 2, prevede anche che “il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano I1 incolumità dei cittadini”. La sostanziale legittimità dell’atto (al di là del richiamo normativo) è confermata dalla previgente disposizione della L. n. 142 del 1990, art. 38, che unitariamente prevedeva (comma 2) che il sindaco, quale ufficiale del governo, adottasse, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, provvedimenti contingibili e urgenti in materia di sanità e igiene, edilizia e polizia locale al fine di prevenire e eliminare gravi pericoli che minacciassero l’incolumità dei cittadini. L’atto mantiene la sua legittimità anche sotto il profilo penale. Gli odierni imputati sono stati destinatari del provvedimento sindacale non meno degli altri coeredi e tutti avevano l’obbligo di ottemperarvi (il procedimento nei confronti dei detti coeredi è stato separato e sospeso dal Gip il 14/5/08 a seguito dell’opposizione degli odierni ricorrenti al decreto penale di condanna emesso nei confronti di tutti): pretestuoso paventare iniziative penali degli uni contro gli altri per condotte a priori giustificate (art. 51 c.p.) dall’adempimento di un dovere, peraltro comune a ciascuno. Per la stessa ragione è manifestamente infondato anche il secondo motivo, relativo alla pretesa impossibilità ad adempiere per l’opposizione dei materiali possessori dell’immobile, di cui erano nella esclusiva disponibilità: qualsivoglia materiale impedimento andava rimosso rivolgendosi al giudice civile (ai sensi dell’art. 1105 c.c., commi 1 e 4, tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune e, se non si prendono i provvedimenti necessari per l’amministrazione della cosa comune, ciascun partecipante può ricorrere all’autorità giudiziaria, che può anche nominare un amministratore).

Quanto infine alla dedotta prescrizione, nei casi (come quello in esame) in cui l’inammissibilità del ricorso sia dovuta a cause originarie, il giudicato deve ritenersi precedente e risalente alla decisione impugnata. In tali casi, infatti, la dichiarazione di inammissibilità del giudice ad quem ha valore meramente ricognitivo della già intervenuta irrevocabilità della precedente decisione.

Conseguentemente (Cass., sez. 3, sent. n. 1073 dell’8/3/00, rv. 215887) il decorso del tempo successivo alla stessa (emessa nella specie il 3/7/09) è del tutto irrilevante agli effetti della prescrizione (che in ipotesi sarebbe maturata il 22/4/10).

Trattandosi di inammissibilità originaria dell’impugnazione, il giudicato si forma alla data della sentenza impugnata (il 3/7/09), il decorso del tempo successivo alla stessa essendo del tutto irrilevante agli effetti della prescrizione (che nel caso sarebbe maturata il 22/4/10).

Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno di un’adeguata sanzione pecuniaria (art. 616 c.p.p.).

P.Q.M.

Dichiara inammissibili il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del processo e ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende.

Redazione