E’ valido il contratto stipulato dagli amministratori della società anche se viola l’obbligo di conservazione del patrimonio dell’azienda (Cass. n. 15449/2012)

Redazione 14/09/12
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Svolgimento del processo

1. Con contratto del 18 luglio 1996 la s.p.a. S. – ******à fiduciaria finanziaria italiana concesse in mutuo alla s.r.l. ************ la somma di lire 100 milioni con piano di ammortamento in rate bimestrali per ventiquattro mesi, garantito dalla dazione in pegno di una quota pari all’84,21% del capitale sociale della C. Plastici s.r.l., per un valore di lire 80 milioni, della quale la mutuataria era titolare. Nell’agosto 1997, non avendo la F. Forlivese – nel frattempo posta in liquidazione – provveduto al pagamento dei primi due ratei di rimborso, la S. s.p.a. la convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano per sentir disporre l’assegnazione ad essa mutuante, in pagamento dell’intero debito restitutorio, della quota sociale data in pegno dalla mutuataria, in attuazione della espressa clausola contrattuale che prevedeva tale diritto.
La società convenuta si costituì deducendo che aveva inutilmente tentato il versamento della somma dovuta, provvedendo anche ad offerta reale; chiese quindi l’accertamento dell’avvenuto adempimento e della liberazione di essa debitrice – oltre allo svincolo della quota sociale data in pegno – con condanna della controparte al risarcimento dei danni. Nel giudizio, riunito ad altro promosso dalla F. Forlivese per la convalida dell’eseguita offerta reale di lire 112 milioni, intervennero volontariamente C.G. – acquirente delle quote corrispondenti all’intero capitale sociale della C. Plastici srl – per aderire alla posizione della F. Forlivese, e la s.r.l. B. Fiduciaria di revisione, cessionaria del credito fatto valere da S. s.p.a.
Il Tribunale, espletata c.t.u. ai fini della determinazione della somma dovuta e del valore della quota sociale data in pegno, ritenne inammissibile la questione di nullità del contratto di mutuo – in quanto sollevata tardivamente dalla F. Forlivese e dal C., peraltro sulla base di documentazione tardivamente depositata -, ma rigettò la domanda della S. s.p.a. (e della cessionaria B. s.r.l.) per avere la stessa abusato del suo diritto, ponendo in essere una condotta volta ad impedire alla debitrice l’adempimento. Rigettò anche la domanda di convalida dell’offerta reale della F. Forlivese perché la somma offerta era, sia pure in misura lieve (poco più di un milione di lire), inferiore al dovuto.
Interposto appello da parte sia della B. s.r.l. sia della F. Forlivese s.r.l., e riuniti gli appelli, la Corte di Milano, con sentenza depositata il 15 febbraio 2006, ha ammesso la questione di nullità del contratto di mutuo pignoratizio in questione ed i documenti prodotti al riguardo, ed ha accertato tale nullità, per illiceità della causa. In tal senso, premesso che il contratto era intercorso in sostanza tra M.M., quale amministratore della società mutuataria, ed il medesimo, quale mandante (e fornitore della provvista) della fiduciaria mutuante S. in base a scrittura privata in atti, ha osservato che tale contratto non era diretto a svolgere l’obiettiva funzione sociale che lo contraddistingue (anche perché non risultava neppure prospettata la ragione del finanziamento, in un contesto nel quale la società era priva di qualsiasi operatività e dei mezzi per restituire la somma mutuata), bensì la diversa funzione, perseguita dal M. , di sottrarre alla proprietaria F. Forlivese la quota sociale data in pegno, finalità vietata dall’ordinamento perché in violazione tanto degli obblighi propri dell’amministratore di società di capitali quanto della funzione propria del pegno, che non è quella di acquisizione diretta della proprietà del bene dato in garanzia. Obiettivo, questo, che risultava perseguito nella specie attraverso una condotta, tenuta da S. s.p.a. (evidentemente conforme alle direttive ricevute dal mandante M.), di astensione dall’intimare alla debitrice il pagamento del debito, negandole poi ogni collaborazione per consentirle di provvedervi.
Avverso tale sentenza, notificata il 27 marzo 2006, hanno proposto distinti (ancorché di identico contenuto) ricorsi a questa Corte la S. s.p.a. e la cessionaria B. s.r.l. Resistono con controricorsi la F. Forlivese s.r.l. e C.G., il quale ha altresì proposto ricorso incidentale.

 

Motivi della decisione

1. Deve, innanzitutto, disporsi la riunione dei ricorsi in esame, in quanto proposti avverso la medesima sentenza.
2. Quanto ai due ricorsi principali, essi si basano su quattro motivi, tutti diretti a censurare le statuizioni della sentenza di appello aventi ad oggetto l’illiceità del contratto di mutuo pignoratizio in questione. Con il primo motivo si denuncia la violazione delle norme di diritto in materia di nullità dei contratti per illiceità della causa, sostenendo che la Corte avrebbe disapplicato il principio secondo cui i motivi o moventi soggettivi (nella specie del M., dominus effettivo dell’operazione), che non siano esteriorizzati in una condizione o patto, sono elementi estranei al contratto e ininfluenti ai fini del giudizio sulla illiceità dello stesso, salva l’ipotesi distinta di illiceità dei motivi. Con il secondo motivo si denuncia l’omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione: la Corte avrebbe tratto il suo convincimento in merito alla illiceità della causa presupponendo, senza considerare alcune circostanze di segno contrario, che la mutuataria non avesse alcuna valida ragione per chiedere un finanziamento. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, per avere la Corte identificato nella violazione dei doveri in capo agli amministratori di società una ragione di nullità del contratto per illiceità della causa: si sostiene che non esiste nell’ordinamento una norma che preveda in via generale l’invalidità del contratto stipulato in frode ai terzi, bensì norme che accordano diversi rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio (azione revocatoria, azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore, azione di annullamento del contratto per conflitto di interessi del rappresentante), salve ipotesi di particolare disvalore, sanzionate anche penalmente (art. 2642 c.c.). Con il quarto motivo, si denuncia l’omissione, insufficienza e/o contraddittorietà della motivazione circa la esistenza di un preordinato inadempimento della F. Forlivese al piano di ammortamento, con conseguente trasferimento della quota della C. alla S. e quindi al M.
3. Con il ricorso incidentale, il C. censura, sotto il profilo dell’insufficienza e contraddittorietà della motivazione, la conferma da parte della Corte della statuizione (negativa per il ricorrente) sulle spese del giudizio di primo grado, nonostante l’accoglimento del gravame da lui proposto e la condanna delle controparti al rimborso in suo favore delle spese del giudizio di secondo grado.
4. Le doglianze espresse con i ricorsi principali, attesa la loro connessione, possono essere esaminate congiuntamente, e meritano accoglimento, nei limiti delle considerazioni che seguono.
4.1. Invero, il tema su cui focalizzare l’attenzione non attiene alla pacifica distinzione tra i motivi soggettivi, o intendimenti particolari che ciascuna parte si propone di realizzare, e la causa quale obiettiva funzione economico – sociale del contratto. Posto che l’indagine su tale elemento essenziale del contratto va svolta non “in astratto” ma “in concreto”, onde verificare -secondo il disposto degli artt. 1343 e 1344 cod. civ. – la conformità a legge dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la riconoscibilità nella specie della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico (cfr. ex multis Sez. 1 n. 1898/2000; Sez. 3 n. 5324/03; Sez. 1 n. 3646/09), una siffatta indagine in ordine alla funzione obiettiva del negozio posto in essere non può prescindere dall’apprezzamento degli interessi che lo stesso è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione) secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del materiale probatorio acquisito. E, ove da tale indagine risulti che le parti abbiano utilizzato un determinato modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva che sia non solo diversa da quella per la quale tale strumento giuridico è previsto dalla legge ma anche in contrasto con norme imperative (ciò che caratterizza l’illiceità della causa), il giudice deve negare al negozio posto in essere dalle parti la tutela apprestata dall’ordinamento.
4.2. Tuttavia in tale prospettiva – nella quale sembra muoversi la Corte milanese- riveste rilevanza decisiva la chiara indicazione delle norme imperative la cui violazione risulti perseguita nel contratto in esame: ed è su questo punto che la motivazione della sentenza impugnata si mostra carente, atteso che in essa è dato solo rinvenire alcuni generici riferimenti del tutto inidonei a sostenere la conclusione cui la Corte è giunta.
Ciò vale, in primo luogo, per il riferimento alla violazione (che sarebbe realizzata dalla appropriazione da parte del M. della partecipazione in C.) degli obblighi, gravanti sugli amministratori delle società di capitali, di conservazione del patrimonio sociale, violazione che è piuttosto fonte di responsabilità a carico degli amministratori, per la quale la legge appresta in favore dei soggetti titolari degli interessi lesi mezzi tipici di reazione. Analogamente, deve ritenersi inidoneo ad individuare una violazione di norma imperativa la elusione della norma che vieta al rappresentante di acquistare beni del rappresentato, atteso che anche per tale condotta in conflitto di interessi l’ordinamento appresta in favore del rappresentato uno specifico rimedio, costituito dall’azione di annullamento del contratto concluso dal rappresentante. Quanto, poi, alla evidenziata deviazione dalla funzione di garanzia propria del pegno, con attribuzione a tale negozio della diversa funzione di strumento di acquisizione diretta da parte del creditore della proprietà del bene dato in garanzia, va osservato che, ove in tal modo si intendesse far riferimento alla violazione del divieto del patto commissorio previsto dall’art. 2744 cod. civ., tale riferimento sarebbe nella specie inappropriato, attesa la specifica clausola del contratto che, contrariamente all’automatismo traslativo che caratterizza il patto commissorio, prevedeva il ricorso al giudice (del quale la S. si è per l’appunto avvalsa) per l’assegnazione al creditore del bene dato in garanzia.
4.3. In definitiva, l’impianto motivazionale sulla illiceità della causa concreta perseguita con il negozio in esame risulta vulnerato dal difetto di una chiara e specifica individuazione ed esplicazione circa l’elemento decisivo costituito dal contrasto tra lo scopo obiettivamente perseguito con il negozio in esame ed il disposto di norme imperative. La cassazione sul punto della sentenza impugnata si impone dunque (restando assorbito il ricorso incidentale), con il rinvio della causa alla Corte territoriale, la quale provvederà anche a regolare le spese di questo giudizio di cassazione.

 

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il ricorso della S. s.p.a. e della B. s.r.l., dichiara assorbito il ricorso incidentale del C. ; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Redazione