Dolo eventuale e colpa cosciente (Cass. pen. n. 39898/2012)

Redazione 09/10/12
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Ritenuto in fatto

1. Poco dopo le ore 20,00 del (omissis), G.F.S., alla guida di un’autovettura Golf, mentre transitava lungo la via (omissis), giunto nei pressi del civico 108 deviava verso il marciapiede e, sormontatolo, investiva An.Fi., S.S., An.Al., L.M.C., M.J. e R.A., provocando la morte delle prime quattro e il ferimento dei secondi.
2. Esercitata l’azione penale per l’imputazione di omicidio volontario, omissione di soccorso, furto aggravato (della Golf), lesioni personali aggravate, guida senza patente, guida in stato di ebbrezza alcoolica, guida dopo aver assunto sostanze stupefacenti e psicotrope, in sede di rito abbreviato il G. veniva condannato dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Marsala alla pena di anni sedici mesi otto di reclusione e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, con rifusione alla stesse delle spese processuali.
2.1. Ad avviso del GUP, il G. si era impossessato di un’autovettura Golf sottraendola al legittimo proprietario che l’aveva lasciata sulla pubblica via, aperta e con le chiavi inserite nel quadro, e alla guida della stessa aveva dapprima urtato una Renault Twingo in sosta sul lungomare della cittadina siciliana, quindi, dopo essersi trattenuto a parlare per qualche momento con alcuni giovani, si era nuovamente messo in marcia a velocità sostenuta, giungendo in via (omissis), dove aveva investito le persone sedute ai margini della strada, provocando il decesso di alcune di esse ed il ferimento di altre, senza fermarsi a prestare soccorso alle sue vittime. L’imputato si era successivamente portato presso la guardia medica di (omissis), dove alle 20,40 aveva richiesto al medico in servizio, il dr. B.M., di prescrivergli un farmaco ansiolitico (il Lorazepam), ricevendo in risposta il rifiuto del sanitario. Poco dopo il G. veniva rintracciato in un bar della città. L’autovettura Golf veniva individuata in una traversa parallela a quella ove è sita l’abitazione dell’imputato.
Il GUP riteneva accertato che l’imputato avesse cagionato dolosamente la morte e il ferimento delle incolpevoli vittime, identificando nell’atteggiamento psicologico del medesimo i connotati del dolo eventuale. Sulla base di una perizia psichiatrica eseguita nel corso del procedimento, il giudice giudicava acclarato che l’imputato al momento della commissione dei fatti fosse del tutto capace di intendere e di volere. Le dichiarazioni rese da talune persone informate dei fatti rendevano acquisito che il G. aveva trascorso quel giorno alla ricerca di confezioni di ********* per sedare l’astinenza da eroina. Ma, come spiegato dal perito dr. V., la condizione di craving, ovvero di “appetizione drogastica”, non aveva influenzato la capacità di intendere e di volere del G. Egli aveva sottratto l’autovettura Golf e se ne era posto alla guida ancorché sprovvisto di patente per condursi ove pensava di reperire il farmaco, senza curarsi dei rischi derivanti dalla sua condotta. Immediatamente dopo la partenza aveva posto in pericolo “T.A.M. e B.A., che erano state costrette ad allontanarsi velocemente dalla sede stradale per evitare di essere investite dall’auto proveniente ad alta velocità”, quindi aveva urtato la Renault in sosta, si era fermato a discutere con alcune persone intervenute, alle quali aveva offerto una plausibile scusa per allontanarsi e consigliando loro di annotare il numero di targa. Ad avviso del GUP tali fatti dimostravano sia che il G. era padrone delle proprie azioni, sia che questi era certamente consapevole del fatto che, a causa delle condizioni psicofisiche in cui versava, egli avrebbe potuto causare, con elevatissima probabilità, un incidente stradale. Ciò nonostante l’imputato aveva proseguito la marcia, accettando il rischio di causare un ulteriore incidente e le relative conseguenze.
2.2. Sul piano della disciplina giuridica, rifacendosi alle statuizioni della giurisprudenza di legittimità, il primo giudice esplicava che tra dolo eventuale e colpa cosciente (chiamata in causa dalla prospettazione difensiva) “il dato differenziale va ritenuto nella previsione dell’evento, che nel dolo eventuale si propone come concretamente possibile e l’agente ne accetta il rischio, così che la volontà investe anche l’evento rappresentato; mentre nella colpa cosciente la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta, che nella coscienza dell’autore non viene concepita come concretamente realizzabile”. In forza di tale ricostruzione il GUP riteneva che tutte le lesioni cagionate, anche quelle mortali, fossero state concretamente rappresentate ed eventualmente volute dal G.
3. Con sentenza emessa il 23 aprile 2011 la Corte di Assise di Appello di Palermo riformava parzialmente la sentenza emessa dalla GUP, riqualificando i fatti con la derubricazione del delitto di omicidio volontario in quello di omicidio colposo, aggravato dalla violazione di norme sulla circolazione stradale e dall’essere l’autore del fatto in una delle condizioni di cui all’art. 589, co. 3 cod. pen., con esclusione della circostanza aggravante prevista dall’art. 61, n. 3 cod. pen., e riducendo la pena complessivamente inflitta ad anni dieci di reclusione ed Euro 140 di multa, confermando nel resto l’impugnata sentenza e condannando l’imputato al pagamento delle spese processuali sostenute dalle parti civili costituite.
3.1. Dopo aver richiamato le acquisizioni giurisprudenziali in ordine agli elementi costitutivi del dolo e più in particolare del dolo eventuale, rimarcando che perché possa configurarsi quest’ultimo non è sufficiente che si preveda la concreta possibilità di verificazione dell’evento lesivo, occorrendo un quid pluris che – richiesto dal ruolo che nel dolo, rispetto alla colpa, assume la componente della volizione – è da identificarsi nell’accettazione dell’evento illecito (e non della situazione di pericolo nella quale si inserisce la condotta del soggetto), sia pure prospettato come eventuale accessorio di una condotta tesa al conseguimento di altro fine, il Collegio ha ritenuto di dover integrare la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice, analizzando con maggior dettaglio la fase culminante dell’evento omicida, identificata tra il momento in cui il G. si immise nella via (omissis) e quello dell’investimento delle vittime. In tal modo evidenziando di non condividere la valutazione operata dal GUP, che aveva ritenuto sussistente la previsione dell’evento omicida già al momento dell’incidente con la Renault, omettendo di interrogare quanto accaduto nella definita fase culminante per ricevere risposta al quesito posto dalle imputazioni principali.
3.2. Posta una simile premessa metodologica il Collegio rilevava:
a) che la via (omissis) aveva al tempo un andamento rettilineo, era a doppio senso di circolazione e aveva un’unica carreggiata di oltre dieci metri di larghezza, essendo delimitata da ambo i lati da un marciapiedi rialzato della larghezza di circa mt. 1,90; b) che il G., dopo aver condotto la Golf per una quarantina di metri sempre mantenendosi nella parte centrale della carreggiata, avendo la strada interamente libera, improvvisamente piegava a sinistra con un angolo di incidenza di circa 11 gradi rispetto all’asse stradale, raggiungeva il marciapiede di sinistra, lo sormontava prima con la ruota anteriore sinistra e, dopo 7,8 metri, anche con la ruota anteriore destra e subito dopo (a quattro metri dal punto in cui anche la ruote anteriore destra aveva sormontato il marciapiede) travolgeva le persone sedute dinanzi al civico 108. c) che, quasi contemporaneamente all’impatto con le persone, l’auto urtava con la parte anteriore sinistra contro il rivestimento esterno del prospetto dell’abitazione posta al civico 108, quindi proseguiva lungo il marciapiede incanalandosi nel corridoio tra l’edificio e le autovetture parcheggiate lungo il marciapiede; percorsi una ventina di metri sul marciapiedi l’autovettura scendeva dallo stesso, si immetteva nuovamente nella carreggiata e proseguiva la sua corsa oltre via (omissis). Quindi la Corte, richiamando la dichiarazione resa da R.A., unico testimone oculare dell’investimento – secondo la quale la Golf si era immessa nella via (omissis) effettuando una curva a sinistra, aveva percorso la via ponendosi al centro della carreggiata procedendo in linea retta, senza sbandare ed accelerare, mantenendo una velocità costante, improvvisamente aveva deviato dalla sua originaria traiettoria dirigendosi verso il marciapiedi -, giungeva alla conclusione che la causa della deviazione del veicolo fosse la momentanea perdita di controllo da parte del G. Perdita di controllo che – ammessa dallo stesso imputato – il Collegio territoriale attribuiva in via ipotetica ed alternativa ad una distrazione, ad un abbassamento della soglia dell’attenzione, ad una sorta di colpo di sonno, comunque riconducibili alle forti dosi di farmaci assunti e dall’alcool ingerito. Sotto tale profilo il giudice di seconde cure si discostava dal giudizio del GUP; pur concordando sulla piena capacità di intendere e di volere del G., riteneva che in forza di quanto riferito dal perito l’imputato si fosse trovato in una situazione di “rallentamento motorio, ottundimento del sensorio, stato oniroide e crepuscolare”, determinata dall’assunzione di una quantità imprecisata di dosi di Lorazepam oltre che di alcol e di droga; condizione che per il perito era già presente al momento dell’urto con la Renault e che il Collegio riteneva confermata anche da alcuni antecedenti, quali l’abbandono del portafogli in una farmacia (nella mattinata); l’abbandono repentino da parte del G. di due telefonini per correre dietro ad una motocicletta con a bordo due persone dalle quali si era poi fatto dare un passaggio (ore 18,30-19,00); le minacce rivolte al medico della Guardia turistica; nonché dalle condizioni di particolare agitazione e sudorazione constatate subito dopo i tragici fatti. Orbene, poiché il dolo eventuale presuppone pur sempre la realizzazione di una condotta intenzionale, e dovendosi escludere, sulla base dei dati processuali, che la manovra verso il marciapiedi fosse stata intenzionale, il Collegio respingeva la prospettazione accusatoria, ritenendo che il G. non avesse mai potuto prevedere, e quindi accettare, lo specifico evento “morte o lesioni di altri soggetti”.
4. Con atto sottoscritto personalmente, ricorrono per cassazione le parti civili costituite A.A., A.F., A.N., A.V., L.M.G. e M.V. Con un unico motivo lamentano la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, co. 1 lett. e) cod. proc. pen. Per i ricorrenti, pur avendo il giudice dell’appello correttamente ricostruito la differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente, ha però errato nel metodo di valutazione e di accertamento della sussistenza nel caso di specie degli elementi alla base del dolo eventuale. Ad avviso degli esponenti, dai convergenti esiti degli accertamenti peritali è emerso che il G. era totalmente capace di intendere e di volere quando si era posto alla guida dell’autovettura e che lo stesso era quindi in condizioni di prevedere l’evento e poi di evitare lo stesso ponendo in essere una manovra o una contromisura ancora al momento in cui era salito sul marciapiede della via (omissis). Con riferimento all’accettazione del rischio, quale elemento distintivo del dolo eventuale rispetto alla colpa cosciente, rilevano i ricorrenti che non è corretto ricercarne la sussistenza nella fase della consumazione del reato, come fatto dal giudice di seconde cure. Nel caso che occupa l’accettazione del rischio deve essere ravvisata e ritenuta presente già in un tempo precedente e segnatamente in concomitanza con il verificarsi del danneggiamene di un’altra autovettura ed il mancato investimento di altri due pedoni, anche in ragione della lucidità mostrata dal G. subito dopo tali accadimenti. Anche a voler ritenere diversamente, aggiungono gli esponenti, non si può che pervenire ancora al giudizio di sussistenza del dolo eventuale di omicidio. Infatti, da un canto vi è il fatto, processualmente accertato, che il G. si trovò in una condizione di craving, ovvero di crisi di astinenza da sostanze stupefacenti, mantenendo la piena capacità di intendere e di volere; dall’altro, e in stretta correlazione, vi è il fatto, accertato dal perito D., che egli operò una manovra sullo sterzo del veicolo dopo che questi aveva sormontato il marciapiede, mostrando così di non aver del tutto perso il controllo dell’autovettura. Sicché appaiono illogiche e contraddittorie con il dato processuale le affermazioni della Corte di Assise di Appello in merito ad una possibile distrazione, ad un abbassamento della soglia dell’attenzione o a una sorta di colpo di sonno, verosimilmente causati dalle cospicue dosi di farmaci assunti e dall’alcool ingerito dall’imputato e quindi in merito ad una perdita della piena coscienza di questi al momento della deviazione verso il marciapiede. Peraltro, continuano i ricorrenti, la Corte territoriale ha erroneamente riferito al momento del sinistro lo stato di alterazione psicofisica del G., quale accertato dal perito V. Infatti, questi ha ritenuto che le condizioni che ebbe a rilevare dopo i fatti erano state determinate dall’assunzione di farmaci e di sostanze alcoliche avvenuta successivamente al sinistro medesimo e che il G. al momento del tragico epilogo fosse in grado di rendersi conto di quel che faceva.
Ad ulteriore dimostrazione di ciò gli esponenti richiamano le osservazioni svolte dal perito ing. D., che in seguito agli accertamenti condotti sullo stato dei luoghi e del veicolo, ha evidenziato come il G., negli istanti che precedettero il contatto del veicolo con il rivestimento del prospetto della costruzione immediatamente prima dell’ingresso del civico 108, sterzò per correggere l’angolo di incidenza, dimostrando così di non aver perso del tutto il controllo dell’autovettura. Tanto dimostrerebbe l’errore in cui è incorsa la Corte di Appello Assise di Appello laddove ipotizza che la deviazione verso il marciapiede sia stata dovuto ad una momentanea perdita di coscienza.
Infine gli esponenti lamentano che la Corte non abbia valorizzato ai fini dell’accertamento del dolo eventuale anche il comportamento serbato dall’imputato subito dopo il sinistro, allorché non arrestò la marcia pur avendo travolto numerose persone.

Considerato in diritto

5. Un primo, preliminare profilo, attiene alla sussistenza dell’interesse della parte civile ad impugnare una decisione in ragione dell’attribuzione a fatti materiali non contestati di una qualificazione giuridica meno grave rispetto a quella ritenuta corretta.
Il dubbio si pone in ragione del fatto che la parte lesa trova titolo al risarcimento del danno nel reato quale “fatto illecito” e non già nel reato quale modello legale.
Di contro, tuttavia, si deve osservare come dalla qualificazione giuridica del fatto illecito possano derivare effetti sulla gravità del danno patrimoniale e morale dei danneggiati, incidenti sull’entità del risarcimento. Nella giurisprudenza di questa Corte permangono due orientamenti divergenti. Secondo una prima, più restrittiva interpretazione, deve essere esclusa l’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile avverso la sentenza di condanna dell’imputato in punto di definizione giuridica del fatto, perché l’art. 576 cod. proc. pen. non la legittima all’impugnazione delle statuizioni penali, giacché ad essa è consentito di proporre impugnazione “contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile”. L’art. 572, co. 1 cod. proc. pen., dal canto suo, confermerebbe la fondatezza dell’assunto, prevedendo che la parte civile può sollecitare l’impugnazione del P.M. (Cass. sez. 4, sent. n. 11222 del 18/02/2010, P.G. e p.c. in proc. Lucidi, rv. 249492; Cass. sez. 4, sent. n. 13220 del 27/10/2000, *******, Rv. 218687; Cass. sez. 3, sent. n. 11429 del 2/10/1997, ********, rv. 209643). Altro indirizzo propende per la tesi più favorevole alla parte civile. Muovendo dalla lettura dell’art. 591 lett. a) cod. proc. pen. si ritiene necessario distinguere il profilo della carenza di legittimazione da quello della carenza d’interesse. La delibazione della prima implica la verifica che il proponente sia titolare del potere di impugnazione (il quale può non coincidere con il titolare del diritto d’impugnazione) e che il tenore decisorio del provvedimento sia conforme ad un modello prestabilito. Essa deve avere riguardo alle norme procedurali che riconoscono alla parte il diritto d’impugnare il provvedimento o taluni suoi capi; nel caso della parte civile, l’art. 576 cod. proc. pen. L’interesse ad impugnare, per contro, si deve desumere da qualsiasi norma, “che significhi lo scopo della decisione richiesta”; la relativa verifica ha ad oggetto l’esistenza di una ragione economica della parte proponente di ottenere una nuova decisione onde rimuovere il pregiudizio che a quella ragione arreca il provvedimento impugnato. Esso interesse, quindi, risulta escluso “solo in quanto, a stregua della stessa richiesta della parte legittimata all’impugnazione, la decisione del giudice di gravame non inciderebbe nella sfera sostanziale della parte proponente” (analogamente Cass., Sez. Unite, sent. n. 40049 del 29/05/2008, P.C. in proc. Guerra, rv. 240815 e Cass. Sez. 1, sent. n. 47675 del 24/11/2011, ********, Rv. 252183: l’impugnazione, per essere ammissibile, deve tendere all’eliminazione della lesione di un diritto, non essendo prevista la possibilità di proporre un’impugnazione che miri unicamente all’esattezza giuridica della decisione, senza che ne consegua un vantaggio pratico per il ricorrente, o addirittura ne consegua un danno). Così ricostruite le categorie giuridiche ritenute rilevanti per la soluzione della questione, si perviene alla conclusione che il giudizio in ordine all’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile, che richieda in appello una diversa definizione giuridica del fatto ai fini della quantificazione dei danni da reato, non pertiene alla legittimazione ma all’interesse. Si osserva inoltre che la facoltà prevista dall’art. 572 cod. proc. pen. alla persona offesa è riconosciuta anche quando non si sia costituita parte civile, e concerne “proprio e solo il potere punitivo dello Stato in ragione del ristoro morale assicuratole dalla sua funzione sostitutiva, ristoro che non ha a nulla a che fare con il risarcimento per la lesione del suo diritto soggettivo, circa il quale soltanto la parte civile costituita, non la mera persona offesa, ha diritto d’impugnazione”. Pertanto, è necessario verificare se la diversa qualificazione del fatto implichi una sua vantazione di maggior gravità, nel qual caso il danno morale subito può ritenersi più grave ed importare un diverso risarcimento. In tal ipotesi esiste un interesse della parte civile ad impugnare ai fini civili la sentenza di condanna in punto di definizione giuridica (Cass. sez. 5, sent. n. 8577 del 26/01/2001, ******* ed altri, rv. 218427; conf. Cass. sez. 5, sent. n. 54303 del 4/12/2002, ********, rv. 223769; Cass. sez. 5, sent. n. 12139 del 14/12/2011, ******** e altro, rv. 252164). Ritiene questo Collegio che la ricostruzione appena ricordata vada condivisa. Può solo aggiungersi che in materia civilistica la Corte di Cassazione, a riguardo del risarcimento del danno per fatto illecito; è dell’avviso che il giudice deve tener conto della gravità del reato e dell’entità del patema d’animo sofferto dalla vittima; il quale ultimo non può non variare a seconda che il fatto illecito venga qualificato come doloso piuttosto che colposo.
6. Venendo ai contenuti del ricorso, va affermato che questo è infondato e pertanto non merita accoglimento.
6.1. Per la più parte l’atto di impugnazione tende a dare dimostrazione della erronea valutazione della prova compiuta dalla Corte di Assise di Appello, attraverso la prospettazione, sia pure sotto l’usbergo della “contraddittorietà” e della “illogicità”, di una ricostruzione alternativa del nucleo essenziale della vicenda, rappresentato dai dati di fatto valorizzati ai fini dell’accertamento dell’atteggiamento psicologico dello G. In sostanza, laddove non avanzano doglianze volte a veder affermato quanto in realtà anche il giudice di seconde cure ha sostenuto (ad esempio a proposito della piena capacità di intendere e di volere del G.), i ricorrenti contrappongono la valutazione probatoria espressa dal GUP, alla quale aderiscono, a quella della Corte di Appello Assise di Appello.
6.2. Al riguardo vale ricordare che compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale o la intrinseca contraddittorietà o illogicità della motivazione della Corte di merito. L’incompiutezza deve derivare dal non aver tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata; la contraddittorietà della motivazione, dal canto suo, costituisce forma della manifesta illogicità, siccome incidente sulla congruità logica delle argomentazioni del Giudice ed idonea ad inficiarne la coerenza intrinseca. Perché possa valere per l’annullamento della decisione, essa deve avere un rilievo decisivo sulle conclusioni cui il medesimo sia pervenuto; non può quindi riscontrasi in corrispondenza ad ogni contraddizione in cui sia incorso il giudice di merito (Cass. sez. 4, sent n. 21602 del 17/04/2007, *******, rv. 237588).
6.3. Ebbene, le deduzioni dei ricorrenti non risultano in sintonia con il senso dell’indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui (Cass. Sez. 6, sent. n. 38698 del 26/09/2006, imp. ********* ed altri, Rv. 234989) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Nel caso di specie, infatti, le argomentazioni poste a base delle censure non attengono effettivamente alla congruenza logica della struttura motivazionale impugnata ed errano laddove segnalano presunte omissioni di valutazione di dati processuali. Come già rilevato, i ricorrenti, pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, in realtà hanno piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.
7. Il profilo di diritto che il ricorso comunque propone come malamente inteso dal giudice di seconde cure viene prospettato come attinente ai criteri di accertamento del dolo ma in realtà involge la struttura stessa del dolo eventuale.
7.1. Il tema del discrimine tra dolo eventuale e colpa cosciente è tra i più problematici che si propongano all’interprete. Senza alcuna pretesa di esaurire il panorama delle opinioni in campo, e limitando le osservazioni a quanto richiesto dal devoluto, si può ricordare che nella giurisprudenza vi è ormai un sufficiente accordo in ordine al criterio dell’accettazione del rischio, per il quale ricorre il dolo eventuale quando ragente/omittente abbia tenuto la condotta tipica nella previsione dell’evento ed accettando la sua verificazione (quale evenienza accessoria al conseguimento dell’obiettivo prefissato), laddove nella colpa cosciente alla previsione dell’evento si accompagna la mancata accettazione dello stesso. In particolare, si è chiarito che sussiste il dolo eventuale quando “chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità – od anche la semplice possibilità – che esso si verifichi e ne accetta il rischio” (Cass., Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428/1992); quando “l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il rischio di cagionarle” (Cass., Sez. Un., 14 febbraio 1996, n. 3571); quando l’agente ha “la consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione nonché dell’accettazione volontaristica del rischio” (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2003, n. 748/1994). Come si può notare già da questi pochi richiami, la declinazione del criterio è invero piuttosto variegata. In alcune decisioni si pone l’accento sull’alternativa astrattezza/concretezza della previsione dell’evento: nel dolo eventuale l’evento viene previsto come concretamente possibile mentre nella colpa cosciente la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta, percepita dal reo come non concretamente realizzabile (Cass. sez. 4, 10.2.2009, n. 13083, P.M. Trib. Salerno in proc. Bodan; cfr. Cass. sez. 5, 17.9.2008, n. 44712; Cass. sez. 1, 14.6.2001, n. 30425, e la giurisprudenza in esse richiamata). Altre volte si fa cenno al minore o maggior grado di verificazione dell’evento (probabilità/possibilità dell’evento), che l’autore del fatto avrebbe ritenuto.
Nelle decisioni più recenti si tende a sottolineare, rispetto al momento della rappresentazione, quello della volizione, richiedendosi il mancato superamento del dubbio circa la verificazione dell’evento quale connotato essenziale del dolo eventuale (Cass. Sez. 4, sent. n. 11222 del 18/02/2010, P.G. e p.c. in proc. Lucidi, rv. 249492; criterio al quale sembra contiguo, se non coincidente, quello della “previsione negativa” circa la possibilità che l’evento si verifichi).
7.2. Sul piano delle enunciazioni non sembra esservi disaccordo tra i giudici di merito ed i ricorrenti in ordine al fatto che il dolo eventuale richiede l’accettazione del rischio; in realtà si apprezza una importante divergenza tra le decisioni. Mentre il Giudice dell’udienza preliminare sembra ritenere sufficiente l’accettazione del rischio “di causare un ulteriore incidente e le relative conseguenze”, la Corte di Assise di Appello aderisce ad un più rigoroso e condivisibile orientamento, per il quale l’accettazione del rischio deve avere ad oggetto non già la situazione di pericolo determinata con il proprio comportamento ma l’evento tipico del reato. Sotto tale profilo, la giurisprudenza di legittimità appare concorde nel ritenere che “l’accettazione non deve riguardare solo la situazione di pericolo posta in essere, ma deve estendersi anche alla possibilità che si realizzi l’evento non direttamente voluto, pur coscientemente prospettatosi… altrimenti si avrebbe la (inaccettabile) trasformazione di un reato di evento in reato di pericolo”. L’esemplificazione portata a sostegno dell’affermazione appare piuttosto calzante: se bastasse l’accettazione di una situazione di pericolo cagionata dalla propria condotta trasgressiva di una regola cautelare, “il conducente di un autoveicolo (che) attraversi col rosso una intersezione regolata da segnalazione semaforica, o non si fermi ad un segnale di stop, in una zona trafficata, risponderebbe, solo per questo, degli eventi lesivi eventualmente cagionati sempre a titolo di dolo eventuale”. Tale posizione risponde appieno al rilievo dottrinario secondo il quale “perché sussista il dolo eventuale, ciò che l’agente deve accettare è proprio l’evento – proprio la morte -; è il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto dall’agente, pur di non rinunciare all’azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo” (Cass. sez. 4, sent. n. 11222 del 18/02/2010, P.G. e p.c. in proc. Lucidi, rv. 249492).
7.3. Quanto al momento al quale occorre riferire l’accettazione dell’evento, torna utile il rilievo operato da autorevole dottrina, secondo il quale il dolo è “decisione per l’illecito” – laddove la colpa è rimproverabilità della violazione di una regola cautelare che può essere anche totalmente ignota all’autore del fatto. Ciò posto, il criterio dell’accettazione del rischio, stabilmente utilizzato dalla giurisprudenza quanto variamente inteso, più che rappresentare un reale elemento della struttura del dolo, mostra di essere un canone in grado di indirizzare verso l’accertamento dell’esistenza di quella “decisione per l’illecito” che davvero caratterizza il comportamento doloso. D’altro canto, è stato osservato che l’accettazione del rischio non è un vero processo mentale; potrebbe allora dirsi che essa è la parafrasi della genesi e della persistenza di una decisione per l’illecito che giunge sino all’esaurimento della condotta con la produzione dell’evento. Ed è proprio questo il profilo posto dal ricorso all’attenzione del sindacato di legittimità. Per un duplice verso: perché si assume che è bastevole valutare se la previsione e l’accettazione dell’evento era identificabile già in un tempo, per quanto piccolo, più lontano dall’investimento delle ignare vittime; perché si sostiene che anche quanto compiuto dal G. una volta sormontato il marciapiede manifesta l’esistenza in lui del dolo eventuale di omicidio e di lesioni personali.
7.4. Ed allora, se a dover meritare la maggiore attenzione in questa sede è quella che si è definita come “persistenza di una decisione per l’illecito che giunge sino all’esaurimento della condotta con la produzione dell’evento” (dovendosi ribadire che deve trattarsi dell’evento tipico), risulta evidente che assecondando la posizione espressa dal GUP diviene sufficiente verificare che il soggetto è stato consapevole di causare con il proprio comportamento una situazione di pericolo per beni di altrui appartenenza, senza che sia necessario distinguere di quali beni (nella rappresentazione dell’autore) si trattasse. Così, la prevedibilità (non importa in quale grado) di danneggiare cose finisce per essere equipollente alla previsione di ledere il bene dell’Integrità fisica; quest’ultima equipollente alla previsione di uccidere. La necessità che l’accettazione del rischio concerna in realtà proprio l’evento tipico riconduce l’accertamento giudiziario al rispetto dei principio di legalità e del principio di colpevolezza. Inoltre, rende meno significativi, e comunque non di per sé decisivi, quegli indici della “decisione per l’illecito” che sono più remoti; nel senso che in ogni caso non si può sfuggire all’impegno di accertare che quella decisione sia persistita sino all’ultimo istante nel quale l’autore del fatto poteva governare gli eventi.
8. Correttamente, quindi, la Corte distrettuale ha richiamato alla necessità di ricercare l’accettazione del rischio “morte o lesioni di altri soggetti” e, all’uopo, di analizzare la fase finale della vicenda, onde accertare se in essa, anche alla luce di quanto accaduto in precedenza e di quanto seguito, potessero cogliersi le tracce di quella intenzione omicida e lesiva della integrità fisica altrui. L’opzione interpretativa è del tutto coerente con i principi giuridici convalidati dalla più recente giurisprudenza di legittimità.
9. Quanto alla valutazione dei dati di fatto compiuta dalla Corte di Assise di Appello, si è già preannunciato che essa sfugge al sindacato di legittimità, non risultando né contraddittoria né manifestamente illogica.
9.1. Secondo quanto riportato dalla sentenza impugnata, il primo giudice ha giudicato provato che il G. si trovava al momento dei fatti in condizioni di “carving” o di “appetizione drogastica”, ed ha così escluso la presenza di uno stato psicofisico alterato da una intossicazione acuta da sostanze stupefacenti o psicotrope, propendendo, secondo l’indicazione offerta dal perito, per la capacità dell’imputato “di prevedere l’evento delitto oggetto del processo”. Affermazione questa che il Giudice dell’udienza preliminare riformulava in termini tecnico-giuridici: l’imputato “era pienamente consapevole del fatto che, nelle condizioni psicofisiche in cui versava, avrebbe potuto causare, con elevatissima probabilità, un ulteriore incidente. Egli aveva certamente accettato il rischio di un tale evento e delle sue possibili conseguenze”. La Corte territoriale ha pur essa escluso che il G. si trovasse in condizioni di ridotta o assente capacità di intendere o di volere, propendendo però per uno stato di confusione e di ottundimento mentale. Si tratta di una valutazione degli elementi di prova (dichiarazioni rese al Giudice dell’udienza preliminare dal dr. V. ) che si sottrae al sindacato di legittimità, siccome diffusamente motivata e non manifestamente illogica (cfr. pg. 30-34), per di più esposta in consapevole dialettica con il diverso giudizio espresso dal primo giudice. Essa, quindi, risponde alla regola per la quale la decisione d’appello difforme da quella di primo grado deve fornire adeguata confutazione delle ragioni poste a base di quest’ultima (Cass. Sez. 4, sent. n. 37094 del 07/07/2008, ******, rv. 241024). Mentre il primo giudice, evidenziata la piena capacità di intendere e di volere del G., ha dato termine alla propria indagine ritenendo accertata tanto la previsione che l’accettazione dell’evento poi prodotto, il Collegio si è domandato se la previsione e l’accettazione del rischio di causare incidenti siano state poi seguite dalla previsione e dall’accettazione del rischio di uccidere o ferire gravemente delle persone, giungendo ad escludere già il momento rappresentativo: “il primo presupposto ineludibile del dolo eventuale è rappresentato dalla previsione dell’evento e non pare proprio che, sulla base degli atti del procedimento, possa sostenersi che il G. (nemmeno dopo aver urtato la Twingo) avesse mai realmente previsto l’evento. Di certo, avrebbe dovuto prevedere la seria possibilità che la sua condotta di guida avrebbe potuto causare incidenti con conseguenze di danni anche alle persone. Tuttavia ciò chiaramente attiene alla “prevedibilità” dell’evento e rappresenta l’essenza di ciò che può essere rimproverato, a titolo di colpa, all’Imputato,”; ma “la generica prevedibilità di un evento dannoso non è, però, sufficiente ad integrare la concreta previsione dell’evento che costituisce il presupposto del dolo eventuale” (46). Infatti, sulla scorta delle risultanze processuali, valutate senza manifeste incongruenze, la Corte palermitana ha attribuito ad un momentaneo oscuramento delle condizioni psichiche del G., determinatosi “proprio nell’immediato approssimarsi al luogo in cui stazionavano le povere vittime” (pg. 35) il dirigersi dell’autoveicolo verso il marciapiede di via (omissis). A tal riguardo, il giudice dell’appello non ha affatto equivocato le affermazioni del dr. V. in ordine al momento al quale egli poteva far risalire lo stato psicofisico del G., avendo all’inverso esplicitamente considerato il dato rimarcato dai ricorrenti (pg. 30), superandolo attraverso l’analitico riferimento ai contenuti delle dichiarazioni del V. (pg 31 ss.). Invero, risponde alle regole della logica ed al senso della realtà degli appartenenti alla collettività desumere dalla pregressa assunzione di alcol e farmaci – in uno all’assenza di qualsivoglia motivo razionale che spiegasse la deviazione dalla traiettoria rettilinea sin lì mantenuta lungo la via (omissis) – l’insorgenza di uno stato transeunte di incoscienza o di momentaneo obnubilamento, e far derivare da questo la deviazione del veicolo verso il marciapiede. Conclusivamente sul punto può osservarsi che, diversamente da quanto asserito dai ricorrenti, quindi, il rilievo attribuito alle fasi immediatamente precedenti al grave sinistro non ha significato per il secondo giudice oscurare il significato probatorio di quanto accaduto in precedenza. Piuttosto la Corte territoriale ha ritenuto che si sia verificata una cesura tra la fase antecedente l’immissione in via (omissis) e quella definita “culminate”.
9.2. Neppure risponde al vero che la Corte territoriale non abbia tenuto conto di quanto compiuto dal G. subito dopo il terribile atto (cfr. pg. 41). Il giudice di appello ha argomentato senza incongruenze logiche il proprio convincimento al riguardo della circostanza, specificamente posta in evidenza dai ricorrenti in chiave critica, per la quale il G. operò una manovra sullo sterzo del veicolo dopo aver sormontato il marciapiede. Per gli esponenti egli dimostrò così di non aver del tutto perso il controllo dell’autovettura; pertanto sarebbero illogiche e contraddittorie le affermazioni della Corte di Assise di Appello in merito al temporaneo obnubilamento e dovrebbe comunque ritenersi che egli abbia “deciso” di aggredire i beni offesi, proseguendo nella marcia lungo lo stretto passaggio tra gli edifici e le autovetture in sosta nonostante ciò significasse travolgere gli astanti.
Senonché il giudice di seconde cure ha già preso in esame il rilievo, ritenendo possibile che, stante la natura meramente transeunte dello stato psicofisico del G., questi “fosse stato improvvisamente risvegliato dall’impatto dell’auto sul marciapiede e che, in quella, avesse solo avuto, istintivamente, il tempo di stringere il volante e mantenere l’auto, per quanto possibile, in linea colla parete degli edifici posti sulla sua sinistra”, agevolato in ciò dalla velocità certamente non particolarmente elevata mantenuta al momento dell’impatto con il marciapiede (valutata, sulla base di approfondite analisi dei dati processuali – cfr. pg. 36-39 – in circa 50 km/h), dal ridotto angolo di incidenza (11%) col quale il veicolo si era portato sul marciapiede nonché dal modesto urto con il rivestimento dell’edificio contrassegnato dal civico 108. Ed ancora sulla base dei dati relativi allo spazio percorso sul marciapiede, alla velocità mantenuta In quel mentre, alla distanza dalle persone travolte (cfr. pg. 41), la Corte territoriale ha motivato senza manifeste incongruenze le ragioni per le quali ha ritenuto che l’assenza di tracce di frenata o di contromanovre volte ad evitare l’investimento o l’aggravamento delle conseguenze di questo non fosse da ascrivere alla decisione di accettare il rischio di produrre altri danni, stabilendo di non frenare e di procedere oltre.
10. In conclusione, la sentenza qui impugnata, nel suo apparato argomentativo e giustificativo, ricca peraltro di manifesti apprezzamenti in fatto, si sottrae alle rappresentate censure di illogicità, che peraltro la norma vuole dover essere manifesta, cioè percepibile immediatamente, ictu oculi.
Di qui il rigetto del gravame.
11. Segue al rigetto del ricorso la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti ai pagamento delle spese processuali.

Redazione