Distanze nelle costruzioni e revisione degli strumenti urbanistici (Cons. Stato n. 844/2013)

Redazione 12/02/13
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FATTO

Con ricorso dinanzi al Tar Toscana il signor **********, proprietario di un immobile posto in Castelfiorentino, confinante con l’ex Palazzo Rossi di proprietà della Edil 005 s.a.s. presso il quale erano in corso di esecuzione lavori edilizi, previa istanza di accesso del 20 agosto 2002, avendo appreso che al sig. D. Italo, in qualità di legale rappresentante della predetta società, era stata rilasciata una concessione edilizia per “lavori di ristrutturazione di fabbricato ad uso residenziale, commerciale, direzionale” da eseguirsi presso l’immobile noto come “Palazzo Rossi” agiva per l’annullamento del titolo.

Il progetto prevedeva la totale demolizione e ricostruzione dell’edificio a parità di volumetrie al fine di realizzare un complesso polifunzionale in grado di rispondere alle moderne esigenze della residenza e del commercio.

Oggetto della concessione edilizia impugnata era un intervento che prevedeva la realizzazione di un unico corpo di fabbrica, in luogo dei fabbricati preesistenti, costituiti da una palazzina a due piani, un palazzo di tre piani, quale nucleo principale del complesso edilizio, e da alcuni volumi secondari.

Il fabbricato previsto era formato da un piano interrato, destinato ad autorimessa, un piano terra, destinato ad attività commerciali, e quattro piani fuori terra, con destinazione residenziale.

Ritenendo che il progetto in questione, più che una semplice ristrutturazione dell’edificio, fosse in realtà una totale ricostruzione dello stesso attraverso interventi di natura strutturale, con la completa modificazione del carattere architettonico del fabbricato, il sig. V. deduceva i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili.

In particolare deduceva violazione delle distanze, trattandosi di intervento in zona B, che deve rispettare il limite di dieci metri dagli immobili confinanti né essendo ammessa deroga, non trattandosi di mero recupero; l’intervento non sarebbe una mera ristrutturazione e ciò sarebbe stato ammesso dagli stessi uffici tecnici comunali.

La controinteressata società Edil 2005 eccepiva dal suo canto la tardività della proposizione del ricorso rispetto al momento della conoscenza dell’inizio dei lavori.

Il giudice di primo grado provvedeva rigettando l’eccezione di tardività, ritenendo che il momento dal quale fare decorrere il termine, collegato alla conoscenza, non deve riguardare soltanto l’inizio dei lavori, con la esposizione in loco del cartello, ma l’effettiva lesività dell’intervento per lo stato dei lavori, che nella specie si è avuta solo dopo la piena conoscenza della documentazione amministrativa, ottenuta esperendo il rimedio dell’accesso alla fine del settembre 2002, quando l’istante ha potuto constatare la inconfigurabilità della mera ristrutturazione e il mancato rispetto delle distanze e non potendosi accogliere la tesi secondo cui, essendo stati i lavori intrapresi nel luglio 2001 e la demolizione dell’immobile esistente completata nel settembre 2001, il mantenimento della parete dell’edificio originario, avrebbe comprovato la distanza pretesa dal ricorrente non sarebbe stata rispettata.

Nel merito, il giudice di primo grado rigettava il ricorso, ritenendo che la nozione di ristrutturazione sia comprensiva anche della demolizione dell’edificio esistente seguita dalla sua fedele ricostruzione, nel senso che questa deve assicurare la piena conformità tra vecchio e nuovo fabbricato in termini di sagoma, volume e superficie, in tal senso sussistendo, ma essendo stato rispettato nella specie, il limite per cui la ristrutturazione non può comportare una alterazione della tipologia edilizia e della volumetria preesistenti.

Secondo il primo giudice, sulla base della legislazione sia nazionale che regionale, mentre la ristrutturazione sussiste se è contenuta nei limiti ristretti dell’intervento su di un edificio del quale rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali e la copertura.

Pertanto, in base alla vigente disciplina regionale, la concessione edilizia impugnata, che consentiva un intervento qualificato di ristrutturazione, ben poteva comprendere la demolizione di volumi secondari e la loro ricostruzione in diversa collocazione sul lotto di pertinenza e anzi, più precisamente, secondo il primo giudice, si aveva una ipotesi di sostituzione edilizia (non ristrutturazione né ricostruzione).

Al posto di due fabbricati principali (un edificio di tre piani fuori terra e una villetta residenziale disposta su due piani) e di vari annessi e superfetazioni sul retro di detti fabbricati, la concessione consentiva la totale demolizione dell’esistente e la realizzazione, a parità di volumetrie, di un unico edificio, diverso per sagoma, caratteristiche formali e costruttive e per destinazioni d’uso.

In realtà, secondo la sentenza appellata, non essendo decisiva la esatta qualificazione dell’intervento, ciò che assumeva aspetto decisivo era soltanto la applicabilità della normativa urbanistica sulle distanze, che portava a concludere per il rispetto delle stesse per l’intervento assentito.

Il ragionamento del primo giudice è stato quindi il seguente: l’intervento edilizio in questione rientrava nella c.d. sostituzione edilizia consistente nella demolizione e successiva ricostruzione di edifici già esistenti, con eventuale creazione di diversa articolazione dei locali; sulla disciplina sulle distanze applicabile, sarebbero individuabili due diverse fattispecie, l’una riferita alle ristrutturazioni in zona A (centro storico antico) che consente di mantenere la distanza preesistente tra edifici anche eventualmente inferiore a dieci metri e l’altra riferita a nuove edificazioni ricadenti in zone diverse dalla zona A, per cui è imposto il rispetto della distanza minima di dieci metri.

Il Tar, ritenendo che nella specie non si rientrava in nessuna delle due ipotesi (non si rientrava nella zona A e la natura dell’intervento non consentiva di considerarla nuova opera) concludeva per l’applicabilità della regolamentazione urbanistica comunale laddove si prevede il rispetto degli allineamenti preesistenti poiché l’edificio insiste su un’area posta all’interno di tipico isolato ottocentesco collocato nelle immediate vicinanze del centro storico cittadino e perché la zona B, in cui è situato il “Palazzo Rossi”, è fra le più vecchie in quanto realizzata per intero dall’inizio del secolo fino alla seconda guerra mondiale (pagine 15 e 16 della sentenza appellata).

Avverso tale sentenza propone appello il medesimo signor V., il quale, dopo una ricostruzione espositiva della sentenza, deduce i seguenti motivi.

In primo luogo, si contesta la sentenza sulla base della errata qualificazione giuridica dell’intervento, trattandosi di totale demolizione e ricostruzione con conseguente modificazione della sagoma del precedente fabbricato, che consiste quindi nella realizzazione di un nuovo edificio, che non può essere considerato né ristrutturazione né c.d. sostituzione edilizia. La distanza inferiore ai dieci metri può ritenersi ammessa soltanto in caso di interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente che non comportino variazione della sagoma planimetrica. Pertanto, l’edificio della Edil 2005 sas di ******** e c. avrebbe dovuto rispettare la distanza minima inderogabile di metri lineari dieci dall’edificio di proprietà V. anziché conservare la distanza preesistente di metri lineari 3,60. Gli uffici comunali hanno in sostanza ammesso che, sia pur mantenendo la stessa volumetria, è stata modificata la sagoma originaria di ingombro dell’edificio, con conseguente variazione delle superfici occupate, con esigenza di dover rispettare la disciplina vigente in materia di densità e distanza tra edifici. L’appello sostiene quindi che in primo luogo avrebbe dovuto qualificarsi come nuova edificazione piuttosto che come ristrutturazione l’intervento assentito, con conseguente applicabilità della disciplina sulle distanze.

Inoltre, in secondo luogo, anche in ipotesi di natura non innovativa dell’intervento, non poteva trovare applicazione la richiamata, dal primo giudice, previsione del regolamento edilizio comunale, secondo cui sono ammesse deroghe alla regola della distanza solo in presenza di interventi su edifici preesistenti che non comportino modifiche alla sagoma, che invece risulta variata (pagine 39 e 40 dell’appello).

Con altro motivo di appello (pagina 41) si deduce l’erroneità della sentenza che ha concluso per la legittimità della concessione edilizia impugnata sulla base della considerazione secondo cui l’edificio ricostruito ricadrebbe in zona B di antica origine equiparabile alla zona A (centro storico) non soggetta al rispetto delle precedenti distanze e sottoposta unicamente al mantenimento dei precedenti allineamenti. L’appellante invece sostiene che si tratta di edificio realizzato solo dopo il 1948, che ha ricevuto l’agibilità a meta degli anni ’50 (come conferma la relazione allegata alla richiesta presentata nell’anno 1998) e la struttura è costituita da muratura a cassetta con materiali di recupero derivanti da crolli bellici della Seconda Guerra Mondiale.

Sotto tale profilo si contesta l’iter argomentativo del primo giudice, che ha provveduto ad una inammissibile integrazione postuma della motivazione dell’atto amministrativo impugnato.

Con ultimo motivo di appello si deduce l’erroneità della sentenza appellata, laddove ha ritenuto non esistente il contrasto tra la norma urbanistica e la normativa nazionale sulle distanze e comunque di non poter disapplicare il regolamento comunale.

La società Edil 2005 di *************** e c. s.a.s. si è costituita con memoria di costituzione e appello incidentale, con cui deduce: 1) l’erroneità della sentenza laddove non ha accolto l’eccezione di tardività del ricorso originario; sostiene anche la sufficienza e idoneità a far comprendere al V. che l’intervento avrebbe mantenuto le distanze precedenti, la circostanza che l’inizio dei lavori aveva comportato la demolizione del fabbricato, ad eccezione della parete fronteggiante l’edificio di sua proprietà e ciò era avvenuto in tempo molto anteriore al settembre 2002; 2) con il secondo motivo di appello incidentale (pagina 18) si lamenta l’erroneità della sentenza, in quanto la disciplina sulle distanze non si applica per il caso di luci ma solo in caso di vedute; 3) si contestano le affermazioni contenute nella sentenza secondo cui non si tratterebbe di ristrutturazione edilizia, essendosi mantenute nel complesso le caratteristiche fondamentali dell’edificio; 4) con altro motivo di appello incidentale (da pagina 35 a 40) si sostiene la tesi che le norme del D.M. 2 aprile 1968 non sono immediatamente precettive ma il Comune è tenuto a darne attuazione; 5) in ogni caso si ribadisce che non si è in presenza di una nuova costruzione; 6) conseguentemente, secondo l’appellante società, erroneamente il Tar, ritenendo la variazione della sagoma, non ha ritenuto applicabile l’altra norma del regolamento edilizio comunale che all’art.5.11 punto 5) lettera b) prevede che “per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente che non comportino variazione della sagoma planimetrica sono ammesse le distanze preesistenti”.

Il Comune di Castelfiorentino si è costituito con memoria di costituzione e appello incidentale deducendo l’erroneità della sentenza sotto i seguenti profili: 1) sulla qualificazione giuridica di ristrutturazione, perché si hanno limitate modifiche di sagoma, tra l’altro oltre dieci metri dalla proprietà V.; 2) erroneità rispetto alla violazione delle distanze, perché l’art. 9 del DM 1404/1968 non è direttamente applicabile ai privati; 3) erroneità della sentenza per le affermazioni relative alla non applicazione dell’art. 5.11 punto 5) lettera b) sopra riportato che “per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente che non comportino variazione della sagoma planimetrica sono ammesse le distanze preesistenti”.

Con ulteriore memoria difensiva l’appellante principale ha ribadito le proprie conclusioni e contestato gli appelli incidentali.

Gli appellanti incidentali, con ulteriori memorie, insistono per il rigetto dell’appello principale e per il loro accoglimento; in via preliminare, aggiungono altresì l’eccezione di inammissibilità dell’appello principale. Infatti la sentenza di primo grado ha ritenuto applicabile la lettera d) su richiamata del regolamento comunale, perché il fabbricato è inserito in zona B di antica origine e perché esso è inserito in una zona di recupero; la inclusione nella zona di recupero, che autonomamente determina le medesime conclusioni, non è stata contestata dall’appello principale

Alla udienza pubblica del 22 gennaio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.In via preliminare va esaminata la eccezione di inammissibilità dell’appello principale, sollevata nelle successive memorie dagli appellanti incidentali, che sostengono che l’appellante principale non avrebbe, come era suo onere, contrastato quella parte di sentenza che ha ritenuto applicabile la lettera d) su richiamata del regolamento comunale, perché il fabbricato è inserito in zona B di antica origine e perché esso è inserito in una zona di recupero; la inclusione nella zona di recupero che costituirebbe autonomo e autosufficiente motivo di soccombenza e, che autonomamente determina le medesime conclusioni, non è stata contestata dall’appello principale.

E’ vero che l’appellante ha l’onere di investire concretamente, specificamente e puntualmente il “decisum” di prime cure precisando i motivi per cui quest’ultimo sarebbe erroneo e da riformare (tra tante, Consiglio Stato sez. IV, 6 aprile 2004,n. 1871).

Nella specie, tuttavia, in disparte la considerazione che tale argomentazione del primo giudice è stata comunque nella sostanza contestata nell’appello principale, il Collegio osserva come la inclusione nella zona di recupero non può considerarsi, quantomeno a priori, come autonoma causa per escludere, sulla base della esatta qualificazione giuridica dell’intervento, il rispetto delle distanze.

In una parola, è a priori importante stabilire la esatta qualificazione giuridica dell’intervento.

Se si trattasse di nuova costruzione, il che ancora deve essere stabilito, piuttosto che di ristrutturazione, non rileverebbe più di tanto l’inclusione in zona B di antica origine e in zona di recupero, in quanto comunque andrebbero rispettate le distanze.

2.In via prioritaria, dal punto di vista logico – perché determinerebbero la conclusione di irricevibilità per tardività del ricorso originario – vanno esaminate le censure con cui gli appelli incidentali, sotto tale profilo aventi carattere di priorità, sostengono che l’impugnativa in primo grado sia avvenuta decorsi i termini di legge.

Nella specie, non può ritenersi che la mera apposizione del cartello abbia comportato, per il vicino confinante, la possibilità di conoscere non già l’intervento, ma tutte le caratteristiche che poi lo avrebbero indotto a ritenerlo lesivo, come la violazione delle distanze.

Il principio generale è quindi che la lesività del titolo ad aedificandum può essere apprezzata dal vicino, che se ne dolga, esclusivamente alla data di ultimazione dei lavori, se solo in tale momento è consentito avere piena cognizione dell’esistenza e dell’entità delle violazioni edilizie, per cui a tale fine è insufficiente fare riferimento all’atto abilitativo o soltanto all’ inizio dei lavori , incombendo, tra l’altro, la prova della eventuale tardività alla parte che la eccepisce (di recente, tra tante, Consiglio di Stato sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1488).

Tale principio non vale, invece, nelle ipotesi in cui, per la natura delle censure dedotte, la percezione della lesività dell’intervento edilizio si abbia già con l’inizio dei lavori, nel qual caso il termine per impugnare decorre a prescindere dalla loro ultimazione. Si è cioè ulteriormente precisato (tra tante, Consiglio Stato, sez. V, 29 gennaio 1999, n. 91) che sebbene in linea di principio il termine per l’impugnazione in sede giurisdizionale di una concessione edilizia decorra dalla piena ed effettiva conoscenza di quest’ultima – che si verifica, in assenza di altri e più rigorosi elementi probatori, non con il mero inizio dei lavori, bensì con l’ultimazione di essi, perché solo in quel momento si possono apprezzare le dimensioni e le caratteristiche dell’opera e, quindi, l’entità delle violazioni urbanistiche derivanti dal provvedimento impugnando -, anche l’ inizio dei lavori stessi, purché ne sia chiara la natura edificatoria, può determinare tale piena conoscenza della lesività, in relazione allo stato di fatto o di diritto dell’area d’intervento o alla natura e qualità di quest’ultimo (nella specie del precedente, la piena conoscenza dell’atto impugnato è stata valutata con riguardo all’apposizione del cartello di cantiere, contenente tutti gli estremi della concessione , nonché al contenuto dei motivi di ricorso, incentrati sull’inedificabilità dell’area, sulla violazione di norme paesaggistiche, sull’assenza del piano particolareggiato, sulla destinazione dell’area stessa a scopi non edificatori, ecc., ossia a dati che consentivano di ritenere sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso senza bisogno d’attendere l’ultimazione dei lavori ).

Nella specie, la piena conoscenza deve essere rapportata alla natura delle censure, consistenti nella asserita violazione delle distanze, piuttosto che nella inammissibilità in sé dell’intervento.

Il V. ha sostenuto in primo grado che solo dopo la conoscenza piena del provvedimento, acquisita alla fine di settembre del 2002 in esito alla richiesta di accesso alla documentazione amministrativa, aveva potuto verificare la reale portata dell’intervento, eccedente a suo dire i limiti della mera ristrutturazione, con conseguente necessità di rispettare la distanza prevista per le nuove costruzioni, non desumibile dal semplice inizio dei lavori.

Non sposta tale conclusione l’osservazione che i lavori sono stati intrapresi nel luglio 2001, la demolizione dell’immobile esistente è stata completata nel settembre 2001 e che nello stesso periodo è stata mantenuta la parete dell’edificio originario; ciò, secondo gli appellanti incidentali, avrebbe dovuto essere sufficiente ad avvisare il vicino che la distanza minima non sarebbe stata rispettata. Tale ultima tesi non convince.

Infatti, come ha bene argomentato il primo giudice, non era sufficiente a percepire la piena lesività di quanto assentito e costruito, il mantenimento allo status quo ante, della parete a distanza non consentita o non mutata; prioritario era invece per il vicino confinante percepire la piena portata dell’intervento – e cioè se si trattava di mera ristrutturazione o piuttosto di nuova costruzione nella sua interezza – proprio al fine di pretendere poi il pieno rispetto delle distanze, imposto dalla realizzazione di una nuova costruzione.

Pertanto, vanno rigettati i motivi dedotti con gli appelli incidentali relativi alla asserita tardività del ricorso originario.

3.Con l’appello principale del signor V., in sintesi, si sostiene che: si tratterebbe di totale demolizione e ricostruzione con conseguente modificazione della sagoma del precedente fabbricato, che consiste quindi nella realizzazione di un nuovo edificio, che non può essere considerato né ristrutturazione né c.d. sostituzione edilizia; la distanza inferiore ai dieci metri può ritenersi ammessa soltanto in caso di interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente che non comportino variazione della sagoma planimetrica; l’edificio della Edil 2005 sas di ******** e c. avrebbe dovuto rispettare la distanza minima inderogabile di metri lineari dieci dall’edificio di proprietà V. anziché conservare la distanza preesistente di metri lineari 3,60; gli uffici comunali hanno in sostanza ammesso che, sia pur mantenendo la stessa volumetria, è stata modificata la sagoma originaria di ingombro dell’edificio, con conseguente variazione delle superfici occupate, con esigenza di dover rispettare la disciplina vigente in materia di densità e distanza tra edifici; anche in caso di natura non innovativa dell’intervento, in ogni caso non poteva trovare applicazione la norma del regolamento comunale che ammette deroghe della distanza in presenza di interventi su edifici preesistenti, perché ciò vale solo in caso di “non modifica” della sagoma; è errata la parte di sentenza che ha concluso per la legittimità della concessione edilizia impugnata sulla base della considerazione secondo cui l’edificio ricostruito ricadrebbe in zona B di antica origine equiparabile alla zona A (centro storico) non soggetta al rispetto delle precedenti distanze e sottoposta unicamente al mantenimento dei precedenti allineamenti, trattandosi invece di edificio realizzato solo dopo il 1948, che ha ricevuto l’agibilità a meta degli anni ’50 (come conferma la relazione allegata alla richiesta presentata nell’anno 1998) e la struttura è costituita da muratura a cassetta con materiali di recupero derivanti da crolli bellici della Seconda Guerra Mondiale.

Oggetto del titolo edilizio in questione è un intervento che prevede la realizzazione di un unico corpo di fabbrica, in luogo dei fabbricati preesistenti, costituiti da una palazzina a due piani, un palazzo di tre piani, quale nucleo principale del complesso edilizio, e da alcuni volumi secondari; il fabbricato nuovo é formato da un piano interrato, destinato ad autorimessa, un piano terra, destinato ad attività commerciali, e quattro piani fuori terra, con destinazione residenziale; è escluso il mantenimento della preesistente tipologia architettonica ed è stata modificata la sagoma dell’originario fabbricato.

Se tali dati di fatto, sopra riportati, sono in sé ******** (i dati urbanistici emergono dalla tavola n.16 della concessione edilizia e quanto a superficie, volumetria, rapporto di copertura, indice di fabbricabilità e altezza massima sono riportati anche dal Comune a pagina 2 della memoria e appello incidentale), le conseguenze che ne traggono le parti avversarie sono diametralmente opposte, sia quanto alla qualificazione giuridica che alla disciplina, anche urbanistica, applicabile.

Il Collegio osserva che la modifica di sagoma è ammessa dagli stessi uffici comunali e in vero riconosciuta anche dal primo giudice; il Comune nell’appello incidentale riporta i dati di misurazione del nuovo intervento, confermando il mutamento della sagoma.

Non possono quindi che applicarsi le conseguenze che derivano dal richiamo di consolidati principi giurisprudenziali, secondo cui (così, Consiglio Stato, sez. IV, 31 ottobre 2006, n. 6464), costituiscono ristrutturazione urbanistica sia la trasformazione degli organismi edilizi con un insieme sistematico di opere che possono portare anche ad un organismo in tutto od in parte diverso dal precedente, sempre che detti interventi riguardino solo alcuni elementi dell’edificio (ripristino o sostituzione di alcuni elementi costituitivi dell’edificio; eliminazione, modifica e inserimento di nuovi elementi o nuovi impianti), sia la demolizione e ricostruzione, sempre che ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma. Laddove invece vi sia un mutamento della sagoma, debbono ravvisarsi gli estremi della nuova costruzione (nel senso che la modifica di altezza e sagoma anche ai fini delle distanze determinano nuova opera e non ristrutturazione, si veda anche Consiglio Stato, sez. V, 21 febbraio 1994,n. 112).

Nell’ambito delle opere edilizie (così, tra tante, Cassazione civile sez. un., 19 ottobre 2011,n. 21578), la semplice ristrutturazione si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all’esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura.

E’ ravvisabile la ricostruzione allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e !’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro.

Considerato che nella specie non si possono ravvisare neanche gli estremi della c.d. ricostruzione (dal primo giudice invece riscontrata e definita nella sottospecie di c.d. sostituzione edilizia) non può che ritenersi che, a causa dell’evidente e ammesso mutamento di natura del numero degli edifici e del mutamento di sagoma, si rientri nella ipotesi della nuova costruzione.

In definitiva, ad opinione del Collegio, evidentemente nella fattispecie si esula dalle ipotesi di ristrutturazione e ricostruzione, dovendosi concludere per la nuova costruzione.

In presenza di tali mutamenti, si verte in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui.

Non è sufficiente controdedurre, come fa il Comune, che le modificazioni della sagoma avvengono ad oltre dieci metri di distanza dalla proprietà V. (pagina 3 della memoria di costituzione e appello incidentale) e che entro i dieci metri la sagoma non subisce variazione, come se la lontananza della modifica di sagoma fosse irrilevante ai fini della configurabilità della nuova costruzione.

Ciò che rileva è se, sulla base della modifica di sagoma del nuovo intervento, valutato nella sua interezza, si tratti di nuova costruzione o meno.

Nel primo caso, come nella specie, si impone necessariamente il limite del rispetto di dieci metri.

Non è neanche necessario, ad opinione di questo giudice, accertare se vi siano o meno contestazioni tra le parti sulla permanenza della sagoma entro o oltre i dieci metri, come invoca l’appello principale a pagina 31, in quanto ciò che rileva è se, sussistendo la modifica di sagoma, si sia in presenza di una nuova costruzione, come deve ritenersi e concludersi. Una volta ritenuta esistente una nuova costruzione, l’effetto che ne consegue è la invocabilità della regola del rispetto delle distanze di dieci metri tra pareti finestrate e edifici antistanti.

Nei fatti, i due principali edifici sono stati uniti in un unico complesso immobiliare; alcuni volumi autonomi sono stati eliminati; la sagoma del nuovo fabbricato è del tutto difforme (e non potrebbe essere altrimenti); sono stati modificati sia i volumi che le altezze.

Non può quindi, sulla base dei richiamati principi, accogliersi la tesi della società (pagina 26 dell’appello incidentale) secondo cui l’intervento avrebbe mantenuto le caratteristiche fondamentali dell’edificio abbattuto (rectius, degli edifici abbattuti).

E’ degno di positiva considerazione anche il motivo di appello con cui l’appellante principale V. sostiene l’erroneità della sentenza nel punto in cui ha ritenuto che l’edificio ricadeva in zona B di antica origine, equiparabile alla zona A (centro storico), non soggetta alle distanze minime e sottoposta unicamente al mantenimento dei precedenti allineamenti.

Il primo giudice (pagina 15) aveva sostenuto che la zona B, in cui si trova il fabbricato in questione, “è fra le più vecchie in quanto è stata edificata per intero dall’inizio del secolo fino alla seconda guerra mondiale”.

Il Collegio osserva che una cosa è la storia della zona, altra cosa, evidentemente, la storia del fabbricato, ai fini del giudizio di edificazione più antica, come invece si è ritenuto.

Infatti, come argomentato nell’appello, si tratta di edificio realizzato solo dopo il 1948, che ha ricevuto l’agibilità a meta’ degli anni ’50 (come conferma la relazione allegata alla richiesta presentata nell’anno 1998) e la struttura è costituita da muratura a cassetta con materiali di recupero derivanti da crolli bellici della Seconda Guerra Mondiale, come si desume dalla relazione tecnica allegata alla istanza di concessione edilizia (documento 3 del fascicolo di primo grado, come menzionato a pagina 43 dell’appello principale, ma ciò viene ammesso anche a pagina 29 della memoria della società, laddove si ricostruisce la storia dell’immobile, costruito tra la fine degli anni 40 ed i primi anni 50).

D’altronde, sotto tale aspetto, della ricostruzione della storia del fabbricato, le argomentazioni dell’appellante principale non vengono sufficientemente controdedotte.

4.Va ora esaminato quanto sostenuto dalla società appellante incidentale, che sottolinea come il V., nell’appello, abbia ammesso che la violazione della distanza si ponga in relazione a parete finestrata, dove tuttavia non gode di veduta ma di luce. Al riguardo invoca il principio secondo cui il rispetto delle distanze può essere invocato per le vedute e non per le luci.

Il Collegio osserva che, in realtà, esiste il principio giurisprudenziale (Cassazione civile sez. II, 30 aprile 2012, n. 6604) secondo cui, posto che nella disciplina legale dei rapporti di vicinato l’obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo relativamente alle vedute e non anche dalle luci, la dizione pareti finestrate contenuta in un regolamento edilizio che, ispirandosi all’art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, prescrive nelle sopraelevazioni il rispetto della distanza di 10 metri dalle pareti finestrate di edifici prospicienti, si riferisce esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come vedute e non ricomprende anche quelle su cui si aprono finestre cosiddette lucifere.

Nella specie, tuttavia, il regolamento edilizio comunale, all’art.5.11, rubricato “Distanze fra edifici”, rinvia sì al D.M. 1968/1444, ma stabilisce che “per i nuovi edifici è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m.10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti anche non finestrate”. Conseguentemente, in assenza di impugnazione o contestazione di tale clausola del regolamento edilizio comunale, la eventuale mancanza di veduta nella parete finestrata di V. non rileva ai fini di annientare la pretesa al rispetto delle distanze, che vanno quindi in ogni caso rispettate.

5.In ordine alla valenza direttamente precettiva tra privati del decreto ministeriale sulle distanze (questione oggetto degli appelli incidentali) questo Consesso (Consiglio di Stato sez. IV, 27 ottobre 2011, n. 5759) e alla eventuale disapplicazione di strumenti urbanistici con esso contrastanti nel senso della minore tutela, ha già avuto modo di osservare che le prescrizioni di cui al d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 integrano con efficacia precettiva il regime delle distanze nelle costruzioni, sicché l’inderogabile distanza di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici.

La prescrizione di cui all’art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 relativa alla distanza minima di 10 m. tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile (per tali principi consolidati, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3094).

Infatti, nella suddetta materia deve ritenersi che in tema di distanze tra costruzioni, applicabile, come detto, anche alle sopraelevazioni, l’adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell’art. 9 DM 2 aprile 1968 n.1444 – che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti – comporterebbe l’obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivate, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale (così Cassazione civile, II, 27 marzo 2001, n.4413 su richiamata; così anche Consiglio di Stato, IV, 12 giugno 2007, n.3094).

La disposizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 2, d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, essendo tassativa ed inderogabile, impone al proprietario dell’area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga, neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell’art. 907 comma 3, c.c.

Conseguentemente, ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, oltre alla considerazione che nella specie la disciplina è stata integrata dal regolamento comunale in senso ancora più rispettoso e rigoroso.

L’art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, che detta disposizioni in tema di distanze tra costruzioni, stante la natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.

D’altra parte, come visto, nella specie non solo la norma comunale ha tenuto conto della disposizione ministeriale esistente, ma l’ha appunto integrata in senso ancora più rigoroso.

Le considerazioni sopra svolte consentono di ritenere infondate tutte le censure svolte dagli appelli incidentali, compresa quella con cui si sostiene l’erroneità della sentenza laddove non ha ritenuto applicabile l’altra norma del regolamento edilizio comunale che all’art.5.11 punto 5) lettera b) prevede che “per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente che non comportino variazione della sagoma planimetrica sono ammesse le distanze preesistenti”.

E’ evidente che quanto ritenuto sulla variazione della sagoma non consente di invocare la su indicata regola di favore sulle distanze preesistenti.

6.In definitiva, le considerazioni sopra svolte portano a concludere per l’accoglimento dell’appello principale e per il rigetto degli appello incidentali; conseguentemente, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso originario ai sensi e limiti di cui in motivazione.

La condanna alle spese del presente grado di giudizio segue il principio della soccombenza; le spese sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello principale e rigetta gli appelli incidentali; conseguentemente, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso originario ai sensi e limiti di cui in motivazione.

Condanna gli appellanti incidentali al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidandole in complessivi euro seimila a favore dell’appellante V., di cui tremila a carico del Comune e tremila a carico della società Edil 2005 s.a.s. di *******..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 gennaio 2013

Redazione