Disapplicabile d’ufficio la normativa sul condono contraria alle disposizioni europee (Cass. n. 8110/2012)

Redazione 23/05/12
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Massima
Va disapplicato, per contrasto con il diritto comunitario cogente, sebbene con riferimento alla sola IVA, l’art. 9-bis l. n. 289 del 2002, che, consentendo di definire una controversia evitando il pagamento di sanzioni connesse al ritardato od omesso versamento del tributo, comporta una rinuncia definitiva alle sanzioni che, per il loro carattere dissuasivo, oltre che repressivo, incidono sul corretto adempimento dell’obbligo di pagamento del tributo principale. (a cura del **************)

 

 

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 218/63/09, depositata il 5.8.09, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Brescia (omissis) avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, con la quale era stato accolto il ricorso proposto da M.M. avverso il diniego di condono, per ritardati ed omessi versamenti dell’IVA, per l’anno di imposta 2003. 2. La CTR, riteneva, invero, che il ritardato pagamento dell’ultima rata del condono – avvenuto il 31.12.04, anzichè alla scadenza in data 27.12.04 – non comportasse inefficacia dell’istanza di definizione.

3. Per la cassazione della sentenza della n. 218/63/09 ha proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate, articolando quattro motivi.

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 9 bis, nonchè della L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Con il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, l’amministrazione deduce, del pari, sotto profili diversi, la violazione della norma di cui all’art. 9 bis, nonchè l’omessa motivazione in ordine ad un fatto decisivo della controversia.

1.1. La CTR avrebbe, invero, errato nel ritenere che il tempestivo pagamento della prima rata del condono, richiesto dal contribuente ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 9 bis, fosse sufficiente ad evitare la decadenza dal beneficio medesimo.

Il mancato pagamento di tutte le rate nei termini di legge (in caso di opzione del contribuente per il versamento rateizzato), costituendo la condicio sine qua non per l’accesso al beneficio condonale, stante la natura demenziale del medesimo, non potrebbe, infatti, non determinare – a parere dell’Agenzia delle Entrate – la decadenza del contribuente dal beneficio medesimo, con conseguente applicazione in misura integrale delle sanzioni dovute, ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13. 2. Il primo motivo di ricorso si palesa manifestamente fondato, assorbiti gli altri, sia pure per ragioni pregiudiziali assorbenti l’esame del merito.

2.1. Va osservato, infatti, che – in tema di condono fiscale – le misure demenziali che comportano una rinuncia definitiva dell’amministrazione alla riscossione di un credito già accertato contrastano con la 6^ direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, in data 17.5.77, così come interpretata dalla sentenza della Corte di Giustizia CE 17.7.08, in causa C – 132/06. Secondo tale decisione, invero, la Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi di cui agli artt. 2 e 22 della predetta sesta direttiva del Consiglio, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in materia di IVA, per avere previsto, con la L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9, una rinuncia generale ed indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, cosi pregiudicando seriamente il corretto funzionamento del sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto.

2.2. Ebbene – come questa Corte ha già avuto modo di precisare – deve ritenersi che detta pronuncia abbia una portata generale, estesa a qualsiasi misura nazionale (a carattere sia legislativo che amministrativo), con la quale lo Stato membro rinunci in via generale, o in modo indiscriminato, all’accertamento e/o alla riscossione di tutto o parte dell’imposta dovuta, oltre che delle sanzioni per la relativa violazione, trattandosi di misure di carattere dissuasivo e repressivo, la cui funzione è quella di determinare il corretto adempimento di un obbligo nascente dal diritto comunitario (cfr. Cass. 20068/09, Cass. S.U. 3674/10). Ne discende che va disapplicato, per contrasto con il menzionato diritto comunitario cogente, sebbene con riferimento alla sola IVA, la L. n. 289 del 2002, art. 9 bis, che, consentendo di definire una controversia evitando il pagamento di sanzioni connesse al ritardato od omesso versamento del tributo, comporta una rinuncia definitiva alle sanzioni che, per il loro carattere dissuasivo, oltre che repressivo, incidono sul corretto adempimento dell’obbligo di pagamento del tributo principale (cfr. Cass. 19546/11).

Nè può dubitarsi del fatto che la disapplicazione del diritto nazionale confliggente con le norme del diritto comunitario cogente debba essere operata, pure d’ufficio, anche nel presente giudizio di legittimità, onde assicurare la piena applicazione delle norme comunitarie aventi un rango preminente rispetto a quelle del singoli Stati membri. A tanto induce, invero, il principio di effettività, enunciato nell’art. 10 del Trattato CE, che comporta l’obbligo per il giudice nazionale di applicare il diritto comunitario in qualsiasi stato e grado del processo, senza che possano ostarvi preclusioni procedimentali o processuali, o – nella specie – il carattere chiuso del giudizio di cassazione (Cass. S.U. 26948/06, Cass. 19546/11).

2.3. Per tutte le ragioni suesposte, pertanto, vertendosi, nel caso concreto, in ipotesi di omesso pagamento dell’IVA per l’anno 2003, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate non può che essere accolto, in relazione al primo motivo, dovendo essere disapplicata la disposizione della L. n. 289 del 2002, art. 9 bis, sulla quale il contribuente ha fondato il proprio diritto all’estinzione della pretesa fiscale azionata nei suoi confronti.

3. L’accoglimento della suindicata censura comporta la cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384 c.p.c., comma 2, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente.

4. Le spese del presente grado del giudizio vanno poste a carico dell’intimato soccombente, nella misura di cui in dispositivo.

Concorrono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese dei gradi di merito.

 

P.Q.M.

 

La Corte Suprema di Cassazione;

accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo proposto dal contribuente; condanna l’intimato al rimborso delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 2.000,00, oltre alle spese prenotate a debito; dichiara compensate tra le parti le spese dei giudizi di merito.

Redazione