Dimettersi dalla qualità di socio della cooperativa edilizia comporta anche la rinuncia alle quote prenotate di un appartamento (Cass. n. 4264/2013)

Redazione 20/02/13
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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 30 novembre 1992 la Cooperativa La Freccia Bianca a r.l. in liquidazione evocava, dinanzi ai Tribunale di Roma, M.G. esponendo che il giorno 25.4.1964 G.A. aveva effettuato la prenotazione dell’appartamento posto al piano attico dello stabile sito in (omissis), costruito dalla medesima cooperativa e che successivamente aveva occupato abusivamente il piano superattico destinato a locale comune lavatoio e locale da sgombero, trasformandolo in appartamento; aggiungeva che il 20.5.1988 la G. aveva dato le proprie dimissioni in relazione alla quota dell’appartamento posto ai piani attico e superattico, recedendo da ogni rapporto con la cooperativa e che deceduta la ex socia l’8.2.1992 nei rapporti gli era subentrato per successione il figlio, M.G., al quale, con lettera del 10.1.1992, era stato comunicato l’invito a restituire l’immobile, mai assegnato ad alcuno, ma questi non vi aveva provveduto; tanto premesso, chiedeva la condanna del convenuto all’immediato rilascio dell’immobile ed al pagamento dell’indennità di occupazione da determinarsi in corso di causa.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del M., il quale eccepiva l’intervenuta usucapione ventennale dell’appartamento per avere la madre posseduto l’appartamento interno 14 ininterrottamente dal 25.4.1964 alla data del decesso, avvenuto l’8.2.1989, e per avere egli, quale unico erede, continuato nel possesso, per cui spiegava riconvenzionale in tal senso, il giudice adito, espletata istruttoria, accoglieva la domanda attorea – e per l’effetto respingeva quella riconvenzionale – condannando il convenuto all’immediato rilascio dell’immobile. In virtù di rituale appello interposto dal M., con il quale lamentava l’erroneità della decisione del giudice di primo grado per non avere ritenuto provata l’interversione del possesso, riconducendo la fattispecie nell’ambito dell’art. 1141 c.c., comma 2, anzichè nel comma 1, la Corte di appello di Roma, nella resistenza della cooperativa appellata, respingeva il gravame. A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale evidenziava la correttezza della valutazione dei fatti e della normativa applicata dal giudice di prime cure, stante la prova offerta a fondamento delle ragioni attoree dalla copia del libro soci della cooperativa ove risultavano la prenotazione alla data del 25.4.1964 “di appartamento attico e superattivo” e dalla data del 20.5.1986 le dimissioni della G. quale socia.

Aggiungeva che seppure il M. aveva precisato che la G. non avrebbe potuto prenotare i locali adibiti a servizi, non spiegava però la prenotazione del superattico a quale consistenza immobiliare potesse riferirsi, atteso che il piano attico si identificava negli interni 12 e 13, il superattico costituiva l’interno 14; del resto la lettura delle ripartizioni delle spese condominiali inerenti all’anno 1986 confermavano l’identificazione del piano superattico con l’appartamento interno 14, immobile che nella scheda della visura catastale del 30.6.1987 risultava, nella attuale consistenza, essere intestato alla cooperativa. Da quanto sopra la corte di merito traeva il convincimento che la G. nel dimettersi dalla qualità di socia prenotata ria di appartamento posto al piano attico e superattico rinunciava alle quote prenotate, in ordine alle quale si era instaurato un rapporto di mera detenzione e non di possesso, per cui il M. per dare prova dell’intervenuta usucapione dell’appartamento avrebbe dovuto dimostrare l’interversio possessionis, non deponendo in tal senso la concessione in locazione del bene a terzi, temporalmente inidonea perchè manifestazione recettizia solo nel 1986, nè la presentazione di istanza di sanatoria ai fini edilizi che poteva essere prodotta da chiunque.

Concludeva affermando che l’atto di recesso della G. alle quote dell’attico e del superattico costituivano prova dell’inequivoca volontà della stessa di rinunciare tacitamente all’usucapione, per cui solo successivamente avrebbe potuto essere computato un nuovo periodo ai fini della maturazione del tempo occorrente per l’acquisizione del bene a titolo originario. Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il M., articolato su un unico motivo, al quale ha resistito la cooperativa con controricorso.

Motivi della decisione

Va preliminarmente esaminata l’eccezione di tardività dei ricorso dedotta da parte controricorrente.

Essa destituito di fondamento posto che la richiesta di notifica a mezzo posta del ricorso venne depositata presso l’Ufficio Unico U.G. della Corte di Roma e da questo inviato ex art. 149 c.p.c. il 20.11.2006 e quindi certamente in tempo utile rispetto al decorso dei sessanta giorni dalla notifica della sentenza di appello del 21.9.2006 (ex multis, Cass. n. 21409 del 2004 e n. 13216 del 2009);

che, poi, la consegna al destinatario sia stata eseguita solo il giorno successivo è dato imputabile alla organizzazione dell’Ufficio postale, organizzazione che è del tutto indifferente ai fini della tempestività della consegna per la notifica.

Si può quindi venire all’esame dell’unico motivo del ricorso, con il quale il ricorrente denuncia la violazione o errata interpretazione degli artt. 1140, 1141 e 1158 c.c., oltre a insufficiente o contraddittoria motivazione, per avere la corte di merito ritenuto risolutiva ai fini della decisione l’annotazione sul libro soci della cooperativa della prenotazione in cui veniva indicato “di appartamento attico e superattivo”, affermazione in contraddizione con la lettura delle ripartizioni delle spese condominiali inerenti l’anno 1986, dove risultano per l’int. 14 sia il nome della G. sia quello del conduttore, in virtù delle quali la stessa non poteva considerarsi mera detentrice dell’int. 14 al superattico, appartamento abusivamente occupato, per cui nessuna conseguenza doveva farsi discendere dalle dimissioni della socia relativamente all’int. 14. Il motivo culmina nel seguente quesito: “Dica la Suprema corte se l’occupazione abusiva di locali servizi comuni da parte del socio di una cooperativa edilizia costituisca possesso o mera detenzione, in conseguenza delle dimissioni relativamente ad appartamenti prenotati”. Il ricorso, poichè attiene a sentenza depositata il 17 maggio 2006, deve essere strutturato in conformità all’art. 366 bis c.p.c., secondo periodo (introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 27, comma 2; in tal senso, Cass. 22 giugno 2007 n. 14682; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27130; Cass. 28 febbraio 2007 n. 4640; Cass. 1 ottobre 2007 n. 20603). Ciò posto, con l’unico motivo il M. denuncia, nel medesimo contesto, la violazione di legge ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Al riguardo si ricorda che le Sezioni unite civili di questa Corte hanno affermato (sentenza 1 ottobre 2007 n. 20603) che il quesito dell’impugnazione di legittimità, conclusivo di qualsiasi motivo addotto nel ricorso per cassazione, è da concepire quale istituto di genere, di cui si danno le due specie del quesito di diritto, previsto dall’art. 366 bis c.p.c., primo periodo, e del quesito motivazionale, previsto dall’art. 366 bis c.p.c., comma 1, secondo periodo. La formulazione del primo è richiesta espressamente dal legislatore, mentre l’altrettanto necessaria formulazione del secondo è desunta implicitamente dal fondamento dell’istituto del quesito dell’impugnazione di legittimità. Tale fondamento risiede nel bilanciamento o coniugazione dell’interesse personale e specifico del ricorrente ad una decisione della lite diversa (e più favorevole)” con “quello generale all’esatta osservanza ed all’uniforme interpretazione della legge”, onde alle parti è “imposto l’onere della sintetica ed esplicita enunciazione del nodo essenziale della questione giuridica di cui egli auspica una soluzione più favorevole da quella adotta dalla sentenza impugnata”. Detta interpretazione esige che il ricorrente formuli i motivi di ricorso secondo il metodo della spiegazione dei fatti attraverso l’analisi dei loro elementi.

Ciò significa, alla stregua della giurisprudenza di questa corte che si è venuta formando nelle prime applicazioni del nuovo regime processuale, che non possono più proporsi, come accadeva nel regime precedente, motivi cumulativi per violazione di legge e per vizi di motivazione e che devono essere tenuti distinti i motivi per le diverse illegittimità previste nell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1- 4; in particolare, il motivo per violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve evidenziare l’elemento strutturale della norma che si assume violato e deve essere tenuto distinto rispetto al proposto differente vizio di motivazione della sentenza impugnata (così, Cass. 19 ottobre 2006 n. 22499; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27130; Cass. 5 gennaio 2007 n. 36; Cass. 21 febbraio 2007 n. 4071; Cass. 28 febbraio 2007 n. 4640; Cass. 16 marzo 2007 n. 6278; Cass. 26 marzo 2007 n. 7258; Cass. 7 giugno 2007 n. 13229; Cass. 21 giugno 2007 n. 14385; Cass. 22 giugno 2007 n. 14682; Cass. 11 luglio 2007 n. 15584; Cass. 17 luglio 2007 n. 15949; Cass. 18 luglio 2007 n. 16002; Cass. 27 luglio 2007 n. 16615; Cass. 3 agosto 2007 n. 17108; Cass. 25 settembre 2007 n. 19892; Cass. 1 ottobre 2007 n. 20603; Cass. 22 ottobre 2007 n. 22059; Cass. 29 gennaio 2008 n. 1906).

Nel caso di specie si deve osservare, anzitutto, che la censura è plurima, perchè con essa si denunciano indistintamente la violazione di legge ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata, quest’ultima critica, peraltro, sotto il duplice profilo della insufficienza e della contraddittorietà. Ora, mentre, in base al precetto dell’art. 366 bis c.p.c., comma 1, n. 2, ci si dovrebbero attendere tanti diversi corpi argomentativi quante sono le doglianze denunciate nell’epigrafe del motivo di impugnazione, le argomentazioni del ricorrente, di cui si è qui tentata una sintesi, si sviluppano unitariamente e si succedono indistintamente.

Questa sola constatazione potrebbe considerarsi sufficiente per comportare l’inammissibilità del motivo di impugnazione. Tuttavia, volendo effettuare una minuziosa verifica del discostamento del ricorrente dal principio che ispira l’art. 366 bis, comma 1, n. 2, si osserva che dall’argomentare del ricorrente si desume, anzitutto, che il quesito non è pertinente o comunque esaustivo nell’argomentare l’usucapione della madre.

Inoltre, nessuna specifica doglianza è rivolta a censurare la motivazione della sentenza impugnata sotto il profilo relativo alla rinuncia della sua dante causa all’usucapione dell’immobile di cui era socia prenotataria. Al riguardo, infatti, si sarebbero dovute illustrare “le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione” (art. 366 bis c.p.c., comma 1, n. 2).

In mancanza di tali specificazioni, si deve ritenere che la denuncia sia inammissibile per genericità.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio di cassazione regolate sulla soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 6.300,00, di cui Euro. 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Redazione