Dia (o scia): nuovo ultimo comma dell’art. 19 l. 241/90 non si applica ai giudizi in corso (TAR Lombardia, Milano, n. 1622/2013)

Redazione 24/06/13
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FATTO

Il ricorrente è proprietario dell’immobile sito nel Comune di Milano, Via Desiderio da Settignano n. 24, catastalmente individuato al foglio n. 303, mappali n. 150 sub. l, 141 e 142, articolato in un edificio residenziale e in un fabbricato pertinenziale destinato ad autorimessa.
L’area in questione ricade in zona omogenea Bl con destinazione residenziale “R” e confina con l’area di proprietà della società controinteressata, ove sono in corso lavori per la realizzazione di un nuovo edificio residenziale, assentito tramite dia presentata in data 16 aprile 2010.
Con specifico riguardo a quest’ultimo intervento, si tratta della costruzione di un edificio di 5 piani fuori terra, attuata previa demolizione dell’edificio preesistente, ubicato sul confine di proprietà, in aderenza all’autorimessa di proprietà del ricorrente.
L’erigendo edificio risulta, invece, stando alla prospettazione del ricorrente, posizionato a distanza inferiore a 3 metri dal confine di proprietà del ricorrente medesimo, e in posizione frontistante l’autorimessa di proprietà di quest’ultimo (realizzata anch’essa sul confine di proprietà).
In particolare, nella parte che fronteggia l’autorimessa del ricorrente l’erigendo edificio sarebbe caratterizzato da una parete finestrata, munita oltre che di aperture anche di balconi aggettanti, posti questi ultimi a distanza inferiore ai 3 metri dal confine dì proprietà e, in particolare, a distanza di metri 1,80 circa rispetto al confine e all’autorimessa del ricorrente, in palese violazione dell’art. 9 del D.M. n 1444/1968, dell’art. 873 cod. civ., nonché dell’art. 27 del Regolamento Edilizio comunale.
Con istanza del 27 giugno 2011, il ricorrente ha chiesto l’esame degli elaborati progettuali annessi alla citata dia, al fine di verificare le distanze tra il realizzando edificio e quello di sua proprietà.
Il presente ricorso è stato, quindi, proposto in via cautelativa, non essendo stato possibile un preventivo esame della documentazione progettuale ed essendo i lavori di costruzione giunti ad uno stato di avanzamento tale da rendere comunque evidente la violazione della disciplina delle
distanze.
Il ricorrente ha, quindi, chiarito, sempre in sede di gravame introduttivo, di avere seguito l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011, individuando nel provvedimento per silentium, di diniego dell’esercizio del potere inibitorio, l’oggetto in via principale dell’impugnazione.
I motivi dedotti fanno leva sulla violazione della distanza di dieci metri, di cui all’art. 9 d.M. 1444/1968 (I° motivo); sulla violazione della distanza dei tre metri, di cui all’art. 873 c.c., 27 regolamento edilizio comunale – R.E. (II° motivo); sulla violazione degli artt. 22 d.P.R. n. 380/2001 e 41 legge reg. n. 12/2005, per mancanza dei presupposti di perfezionamento della dia (III° motivo).
Si sono costituiti il Comune di Milano e la controinteressata CUGA srl, controdeducendo alle censure avversarie e sollevando eccezioni preliminari.
In data 22.9.2011 il sig. D. N. ha potuto accedere al fascicolo della pratica edilizia in esame e ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse in merito all’istanza ex art. 116, co. 2 c.p.a., formulata incidentalmente al ricorso principale.
Con sentenza non definitiva depositata il 22/11/2011 è stata dichiarata la sopravvenuta carenza di interesse sulla domanda di accesso agli atti.
Dall’esame dei documenti progettuali inerenti la pratica edilizia avviata con la dia presentata il 16 aprile 2010 è risultata confermata, ad avviso del patrocinio istante, la già dedotta violazione delle disposizioni dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, dell’art. 873 c.c. e dell’art. 27 del Regolamento Edilizio del Comune di Milano (R.E.).
Il 17/09/2011 è entrato in vigore il D.L. 13.8.2011, n. 138 (convertito dalla l. 14.9.2011, n. 148), che ha previsto che: ”la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi l , 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. l04″.
Preso atto di ciò, l’esponente – pur confidando nell’applicazione dell’art. 32 c.p.a. in relazione all’azione introdotta col ricorso introduttivo – in via precauzionale ha interposto motivi aggiunti, per introdurre l’azione avverso il silenzio, di cui al citato art. 31.
Siffatti motivi aggiunti vertono, quindi, sull’accertamento dell’illegittimità dell’inerzia serbata dal Comune di Milano, rispetto all’obbligo sullo stesso incombente di esperire le verifiche sull’insussistenza dei presupposti per il consolidamento della dia del 16 aprile 2010 (presentata dalla *********************, dante causa della soc. Cuga S.r.l.), nonché delle successive integrazioni di cui ai progetti presentati in data 16.9.2010, 24.1.2011 e 5.8.2011.
Con essi si ripropongono, quindi, sostanzialmente, le stesse censure già avanzate con il ricorso introduttivo.
Con un secondo atto di motivi aggiunti il ricorrente, prendendo atto della sentenza della Corte Costituzionale depositata il 23.11.2011 n. 309 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, co. 1, lett. d. della legge regionale n. 12/2005, nella parte in cui ha ricondotto alla ristrutturazione edilizia anche gli interventi di demolizione e ricostruzione con modifica della sagoma), ha articolato un ulteriore motivo di ricorso, censurando la violazione dell’art. 3 d.P.R. n. 380/2001 ad opera dell’amministrazione in causa, che non avrebbe impedito l’attività edilizia della controinteressata né in sede di poteri inibitori né in sede di autotutela.
Indi, in occasione di un nuovo accesso al fascicolo edilizio dell’intervento de quo, l’istante ha appreso che, con avviso datato 3 gennaio 2012, il Comune ha comunicato a CUGA S.r.l. l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 21- nonies della legge n. 241/1990 in quanto, a seguito della sentenza n. 309/11 della Corte Costituzionale, era venuto meno il presupposto normativo dell’intervento di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione fuori sagoma.
Nel frattempo, in data 16 gennaio 2012 CUGA S.r.l. ha presentato una DIA in variante avente ad oggetto: “variante essenziale: modifica della qualifica giuridica da intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 27 lett. d) della l. r. n.12/2005 a intervento di demolizione e ricostruzione ai sensi dell’art. 5, comma 9 del DL 70/201l, convertito in legge n. 106 del 12/07/201l”.
Alla luce di tali risultanze, in data 17 settembre 2012, il ricorrente – ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, l. 24190 e dell’art. 31 d.lgs. 10410 – ha formalmente diffidato l’Amministrazione comunale ad esercitare i propri poteri di vigilanza, inibitori e repressivi, concludendo il procedimento avviato in data 3 gennaio 2012.
L’Amministrazione ha riscontrato tale diffida in data 19 ottobre 2012, assumendo che – al momento della declaratoria di incostituzionalità – le opere erano già al rustico e quindi il loro completamento era ininfluente rispetto agli effetti caducatori della pronuncia della Corte costituzionale.
Contro tale atto è stato proposto un terzo atto di motivi aggiunti, deducendo la violazione degli artt. 136 Cost., 30, co. 3 legge n. 87/1953, 3 d.P.R. n. 380/2001, 19, co. 3, 6-ter e 21-nonies della legge n. 241/1990, 42 legge regionale n. 12/2005, nonché l’eccesso di potere sotto plurimi profili.
In prossimità dell’udienza di merito le parti hanno depositato memorie e repliche.
All’udienza pubblica del 7 marzo 2013 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.

DIRITTO

A) Preliminarmente, il Collegio deve prendere in esame le eccezioni preliminari sollevate da parte controinteressata.
1) Sulla eccezione di inammissibilità del ricorso, attesa la non impugnabilità immediata della dia e/o del silenzio serbato in ordine all’esercizio dei poteri inibitori.
L’eccezione è infondata.
Al momento della notifica (5/08/2011) e del deposito del ricorso introduttivo (02/09/2011), l’orientamento prevalente in ordine ai rimedi processuali esperibili da parte del terzo, asseritamente danneggiato da un’attività edilizia assentita tramite lo strumento della dichiarazione di inizio attività (dia), era quello cristallizzato nella sentenza del Consiglio di Stato, Ad. Plen., 29-07-2011, n. 15.
La modifica normativa che ha reso non più praticabile la tecnica di tutela elaborata dall’adunanza plenaria (art. 19, u. co., legge n. 241/1990) è stata, infatti, introdotta dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 6, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, come modificato dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, entrata in vigore dal 17 settembre 2011, allorquando l’odierno ricorso risultava già pendente.
Secondo la ricostruzione dell’adunanza plenaria, invece, il silenzio serbato dall’amministrazione nel termine dei trenta giorni successivi alla presentazione della dia, “producendo l’esito negativo della procedura finalizzata all’adozione del provvedimento restrittivo, integra l’esercizio del potere amministrativo attraverso l’adozione di un provvedimento tacito negativo equiparato dalla legge ad un, sia pure non necessario, atto espresso di diniego dell’adozione del provvedimento inibitorio”.
Sul piano delle situazioni soggettive, detto atto tacito, secondo l’impostazione dell’adunanza plenaria, mentre consolida l’affidamento del denunciante circa la legittimazione allo svolgimento dell’attività, lasciando detto soggetto esposto al rischio del più limitato potere di autotutela, “frustra l’interesse pretensivo del terzo, portatore di una posizione differenziata e qualificata, ad ottenere l’adozione del provvedimento interdittivo nel rispetto del principio di imparzialità dell’azione amministrativa”.
Consegue da ciò che, in ordine alle tecniche di tutela praticabili dal terzo controinteressato all’esercizio dell’attività denunciata, venendo in rilievo un provvedimento per silentium, la tutela del terzo sarà affidata primariamente all’esperimento di un’azione impugnatoria, ex art. 29 del codice del processo amministrativo, da proporre nell’ordinario termine decadenziale.
Ne deriva, con particolare riguardo all’odierno ricorso, l’ammissibilità dell’azione così come proposta dall’istante, avverso il silenzio-diniego dell’esercizio del potere inibitorio sulla d.i.a. presentata dalla dante causa della contro interessata (cfr. in tal senso, da ultimo, T.A.R. Lombardia, Milano, II, 28/05/2013 n. 1382, secondo cui, la previsione introdotta dal citato art. 6, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, disciplinando una condizione dell’azione, non presenta natura processuale e, per tale ragione, non è immediatamente applicabile ai giudizi in corso).
Solo per completezza giova osservare come, in applicazione della regola oggi sancita dall’art. 32, comma 2, del codice del processo amministrativo, ricognitiva di un principio già elaborato dalla giurisprudenza, anche qualora la domanda fosse stata atecnicamente rivolta all’impugnazione della d.i.a., la stessa sarebbe stata riqualificabile, contenendone tutti gli elementi formali e sostanziali, come domanda che, sulla scorta dell’accertamento dell’illegittimità dell’attività denunciata, mira a contestare la decisione della pubblica amministrazione di non vietare l’attività oggetto della dichiarazione (cfr. in tal senso sempre Cons. di Stato, Ad. Plen n. 15/2011 cit.).
In ogni caso, anche a prescindere da questa considerazione, deve ritenersi, conformemente ad un indirizzo seguito dalla Sezione, che la norma sopravvenuta non possa comunque applicarsi ai giudizi in corso per ragioni di carattere pratico, dovute all’incertezza normativa e giurisprudenziale imperante prima del suo intervento ed alla considerazione che tale incertezza non possa andare a discapito della parte che chiede tutela giurisdizionale (cfr. ex multis TAR Lombardia Milano, sez. II, 4 novembre 2011 n. 2640).
Vanno dunque applicati alla fattispecie in esame i principi elaborati dalla giurisprudenza nel vigore del precedente regime normativo e, in particolare, i principi sanciti dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza 29 luglio 2011 n. 15.
2) Sull’eccezione di tardività del ricorso.
Quanto al dies a quo del ricorso per annullamento, ai sensi di legge il termine decadenziale di sessanta giorni per proporre l’azione inizia a decorrere solo dal momento della piena conoscenza dell’atto lesivo (cfr. art. 41, comma 2, del codice).
A tale proposito, trovano applicazione i principi interpretativi consolidati, elaborati in materia di impugnazione di provvedimenti in materia edilizia e urbanistica.
Alla stregua del condivisibile orientamento interpretativo della giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, ad. Plen. 15/2011 cit., nonché, Cons. Stato, sez. IV, 26/07/2012 n. 4255; id. 2 aprile 2012 nn. 1957 e 1958; id., Sez. VI, n. 717/2009), la decorrenza del termine decadenziale in materia edilizia non può essere di norma fatta coincidere con la data in cui i lavori hanno avuto inizio, in quanto, come la giurisprudenza ha già specificato, per l’impugnazione dei titoli abilitativi edilizi il termine inizia a decorrere da quando la costruzione realizzata riveli in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica. Ne deriva che, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine per l’impugnazione decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento (così Cons. Stato, Sez. IV, 5 gennaio 2011, n. 18, secondo cui il termine per ricorrere in sede giurisdizionale da parte dei terzi avverso atti abilitativi dell’edificazione decorre da quando sia percepibile la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica; Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8705, ad avviso della quale il completamento dei lavori è considerato indizio idoneo a far presumere la data della piena conoscenza del titolo edilizio, salvo che venga fornita la prova di una conoscenza anticipata).
Si ricava da ciò che, la situazione idonea ad integrare il concetto di “piena conoscenza” – al cui verificarsi si determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale – va ravvisata nella percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso (quanto sin qui esposto costituisce un dato acquisito della giurisprudenza del Consiglio di Stato, per la quale cfr. ancora sez. III, 19 settembre 2011 n. 5268; sez. VI, 28 aprile 2010 n. 2439; sez. IV, 19 luglio 2007 n. 4072 e 29 luglio 2008 n. 3750).
Occorre aggiungere che, la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, al fine di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur se sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. Essa deve risultare quindi, incontrovertibilmente, da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica di ufficio della eventuale irricevibilità del ricorso, ovvero rigorosamente indicati dalla parte che eccepisca l’irricevibilità del ricorso introduttivo del giudizio.
In applicazione delle suesposte premesse, deve escludersi che nel caso di specie sia stata fornita da parte controinteressata una siffatta prova della conoscenza, da parte del ricorrente, della situazione lesiva scaturente dall’intervento edilizio di cui trattasi, allo stato in via di completamento.
Ne consegue la piena ricevibilità del ricorso.
3) Sull’interesse al ricorso.
Il ricorrente è proprietario di un terreno con sovrastanti fabbricati, confinante con quello in cui è in corso di realizzazione l’intervento qui contestato e lamenta che, a seguito di detto intervento, egli subirebbe sia la violazione della distanza di dieci metri tra pareti finestrate (di cui una inerente un edificio di sua proprietà), sia la violazione della distanza dal suo confine.
In siffatte evenienze, deve ritenersi che la “vicinitas”, ovvero il collegamento stabile fra l’immobile di proprietà del ricorrente e quello di proprietà della contro interessata, soddisfi in pieno quanto richiesto ai fini tanto della legittimazione quanto dell’interesse al ricorso (cfr. ex multis Cons. Stato Sez. VI, Sent., 18-04-2013, n. 2153, secondo cui la suesposta considerazione vale tanto più nel caso in cui legittimazione e interesse sono riferiti alla asserita violazione delle distanze).
Anche l’eccezione da ultimo elencata deve essere, pertanto, disattesa.
B) Passando ad esaminare il merito del gravame e iniziando dal primo motivo, osserva il Collegio come con esso si deduca la violazione dell’art. 9 del d.M. n.1444/1968, dell’art. 22 d.P.R. n. 380/2001 e degli artt. 41 e ss. della legge regionale n. 12/2005 (oltre all’eccesso di potere per difetto di istruttoria e carenza dei presupposti).
1) Ciò, poiché il progetto del nuovo edificio contemplerebbe una distanza, della parete finestrata del medesimo dal confine su cui insiste anche l’autorimessa del ricorrente, inferiore a tre metri.
Il motivo è fondato.
L’art. 9 cit. disciplina il rispetto della distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, ricadenti al di fuori delle zone A.
Tale disposizione è finalizzata alla tutela di interessi di ordine pubblico, in quanto mira a impedire la formazione tra gli edifici di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario (cfr. fra le
tante, Cass. sez. II, 3 marzo 2008 n. 5741; TAR Liguria,Genova, 19 dicembre 2006 n. 1711; Cons. Stato, sez. V, 26 ottobre 2006 n. 6399).
Trattandosi di norma di ordine pubblico, la medesima disposizione è inderogabile e caratterizzata da efficacia precettiva anche nei confronti di eventuali norme regolamentari contrastanti. L’orientamento assunto dalla giurisprudenza sul tema ha chiarito che, traendo le norme del d.M. 1444/1968 la propria efficacia dall’art 41-quinquies, comma 8 della legge n. 1150/1942, le relative previsioni debbono considerarsi dotate di un’efficacia immediatamente precettiva e tale da potersi sostituire con le eventuali norme di piano regolatore ad essi non conformi (cfr., in questo senso, TAR Abruzzo, Pescara, 6 luglio 2009 n. 481; Cons. Stato, Sez. IV, 18 giugno 2009 n. 4015; TAR Puglia, Bari, 4 giugno 2008 n. 1387; Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005 n. 6909; TAR Puglia, Bari, 21 maggio 2008 n.1209).
Nella fattispecie di cui si discute, come emerge dalla documentazione fotografica in atti e dai progetti allegati alla dia, la distanza tra la parete dell’autorimessa di proprietà del ricorrente e quella dell’erigendo edificio assentito sulla base del titolo abilitativo qui contestato è inferiore a quella minima prevista dall’art. 9 del d.M. cit.
L’amministrazione resistente e la controinteressata escludono che la parete dell’autorimessa possa considerarsi rilevante ai fini dell’applicazione della citata disposizione, adducendo che la stessa non potrebbe ricondursi nel concetto di “edificio”, attese le sue ridotte dimensioni.
L’impostazione da ultimo esposta, però, non convince, atteso che la tassatività della citata disposizione non ammette deroghe in funzione della particolare destinazione di una delle due pareti, tant’è che, l’applicazione della disposizione in esame anche al caso in cui una sola delle due pareti sia finestrata, è stata già positivamente affermata dalla giurisprudenza (cfr. Cassazione civile, sez. II, 26 ottobre 2007, n. 22495; id. numero 23495 del 2006).
Analogamente la giurisprudenza si è espressa, a proposito della necessità di rispettare la distanza ex art. 9 citato indipendentemente dal fatto che, nel momento in cui viene realizzata, la costruzione fronteggi alcuna parete (cfr. in particolare, TAR Puglia, Bari, 4 giugno 2008 n. 1387, per cui la distanza tra fabbricati deve essere rispettata sia qualora una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, sia qualora nel momento in cui viene realizzata la parete non fronteggi alcun altra parete, in quanto si tratta di disposizioni tese a garantire l’igiene e la salubrità dei fabbricati che si fronteggiano. Unica eccezione a tale principio è rappresentata dall’ipotesi in cui il proprietario del fondo confinante che non abbia ancora sopraelevato rinunzi a costruire la sopraelevazione con atto costituito nelle forme previste per la costituzione della servitù “altius non tollendi”; cfr. sul tema anche Cass. Civ., Sez. II, 27 marzo 2001 n. 4413; Cons. Stato, Sez. IV, Sent., 08-05-2013, n. 2483).
Anche il tentativo delle parti resistente e controinteressata di sostenere la tesi della non computabilità dei balconi nel calcolo delle distanze non convince, atteso che, come già affermato dalla giurisprudenza, il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, sì che un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell’estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l’estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla legge (cfr. Cass. Civ., II, 27 luglio 2006, n.17089).
Deve essere pertanto ribadita la fondatezza del primo motivo.
2) Passando ad esaminare il secondo motivo di ricorso, con esso si deduce la violazione dell’art. 873 c.c., dell’art. 27 del R.E. e dell’art. 22 d.P.R. n. 380/2001 (oltreché l’eccesso di potere come nel primo motivo), poiché non risulta rispettata la distanza dei tre metri dal confine.
Anche il suesposto motivo è fondato.
Le resistenti tentano di sminuire la portata della violazione in esame adducendo, anche qui, la non computabilità dei balconi nel calcolo della succitata distanza.
Sennonché, anche qui va ribadito che, i balconi, di regola, non possono essere ricondotti fra gli elementi meramente ornamentali, avendo una propria funzionalità che indubbiamente accresce la consistenza del fabbricato cui appartengono. In tal senso, è utile riportare le osservazioni contenute nella recente sentenza del Consiglio di Stato (cfr. la decisione della sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2847), per cui, “in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell’edificio quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato”(cfr., in terminis, Cass. civ., sez. II, 25 marzo 2004 n. 5963).
Sulla scorta di tale impostazione, si deve quindi escludere che la realizzazione di balconi di profondità pari a mt. l ,20, con soletta in cemento armato, quali quelli implicati nell’intervento per cui è causa, possa rivestire una funzione meramente ornamentale, sì da escluderne il computo nel calcolo della distanza di cui all’art. 873 c.c.
Alla medesima conclusione deve giungersi anche sulla scorta del disposto dell’art. 27 del R.E., che non può che essere interpretato in conformità della chiara lettera dell’art. 873 cit.
Va, pertanto, ribadita la fondatezza anche del secondo motivo.
3) Dalle conclusioni sin qui raggiunte si trae ragione della fondatezza anche del terzo motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione degli artt. 22 d.P.R. cit. e 41 e ss. legge reg. cit., per mancata attivazione dei poteri inibitori da parte dell’amministrazione, a fronte di un intervento edilizio non rispettoso delle distanze, secondo quanto poc’anzi esaminato.
Più in generale, deve essere affermato che, ove l’amministrazione avrebbe dovuto avvedersi, dalla documentazione presentata in occasione della d.i.a. o successivamente, facendo uso dei propri poteri di verifica e di vigilanza sull’uso del territorio, che l’intervento proposto non rispetta le distanze imposte dal legislatore, dal confine o dalle antistanti pareti, secondo quanto più sopra specificato, l’inerzia al riguardo serbata si presenta illegittima e deve essere eliminata, mediante la condanna dell’amministrazione ad adottare il provvedimento, inibitorio o di autotutela, previsto in siffatte evenienze.
Deve, pertanto, essere accolto il ricorso in epigrafe specificato, con conseguente annullamento del provvedimento per silentium impugnato col ricorso introduttivo.
In conseguenza di tale esito del ricorso, i motivi aggiunti risultano improcedibili.
Deve, allo stato, essere respinta anche la domanda risarcitoria formulata con i motivi aggiunti, in attesa dell’esercizio dei poteri spettanti all’amministrazione in conseguenza dell’accoglimento del ricorso in epigrafe.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)
definitivamente pronunciando sul ricorso e i motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, così statuisce:
– accoglie il ricorso introduttivo e per l’effetto annulla il provvedimento per silentium con esso impugnato;
– dichiara improcedibili i motivi aggiunti e respinge la domanda risarcitoria con essi formulata.
Condanna il Comune di Milano e la controinteressata al pagamento, in solido tra loro, delle spese di giudizio, che liquida in euro 4.000,00 (quattromila/00) a favore del ricorrente, oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 7 marzo 2013

Redazione