Determinazione del credito nell’atto di precetto (Cass. n. 8839/2013)

Redazione 12/04/13
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Svolgimento del processo

1. Per gravissime carenze formali e sostanziali nell’espletamento del servizio – dal 1977 al 1993 – di tesoreria della IPAB “Casa di riposo AITA” di (omissis) la C. spa, oggi (omissis) Banca spa, fu convenuta in giudizio di conto davanti alla Corte dei conti – sezione giurisdizionale veneta, la quale, con sentenza n. 490/EL/99 del 17.9.99, non ammise a discarico la somma di L. 2.246.260.382, così condannandola al pagamento di una pari somma – oltre rivalutazione e interessi – e dichiarando “conseguentemente” insussistente il saldo a debito da essa preteso dalla Casa di riposo (per L. 1.348.368.110).
Sulla base di tale sentenza l’IPAB intimò precetto in data 25.5.01 e pignorò poi titoli di Stato, per un valore nominale complessivo di L. 4.123.255.100, in danno di C. spa; ma questa si oppose, dinanzi al tribunale di Treviso con ricorso dep. il 30.8.01, invocando la compensazione con la somma resa oggetto di saldo a debito originario, contestando la spettanza del cumulo tra rivalutazione ed interessi e lamentando il mancato computo di un pagamento di L. 486.472.737 del 2.5.01.
Il tribunale di Treviso sospese l’esecuzione con decreto e, costituitasi l’opposta con richiesta di reiezione dell’opposizione, prodotta dall’opponente sentenza (n. 1258/01) resa dalla medesima sezione giurisdizionale veneta della Corte dei conti in sede di interpretazione (ai sensi dell’art. 78 r.d. 1714 del 1934), la accolse parzialmente, determinando in L. 2.261.221.654 (pari ad Euro 1.167.823,53) l’importo dovuto da C. spa alla Casa di Riposo AITA (già imputato in precetto il pagamento dedotto da controparte), ma rigettò la domanda di risarcimento.
La (omissis) Banca spa, subentrata a C. spa, propose appello e, chiesta in via di appello incidentale dalla controparte la declaratoria di difetto di competenza o giurisdizione del g.o. sull’interpretazione della sentenza del giudice contabile, la corte lagunare rigettò l’appello, ritenendo preclusa al giudice ordinario, ma comunque inammissibile perché involgente motivi di impugnazione, la serie di doglianze sulla ricostruzione del debito complessivo dell’opponente, correttamente operato il computo del pagamento intercorso e quello degli accessori in conformità della sopravvenuta sentenza interpretativa contabile, nonché correttamente pronunciati non già la nullità dell’intero precetto, ma la sola limitazione della somma dovuta ed il rigetto della domanda risarcitoria.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre, affidandosi a quattro motivi, la (omissis) Banca spa; resiste, con controricorso, la Casa di Riposo AITA; e, per la pubblica udienza del 7.3.13, la ricorrente deposita altresì memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

 

Motivi della decisione

2. La ricorrente sviluppa quattro motivi ed in particolare si duole:
2.1. con un primo (di contestuale violazione di norme di diritto e vizio motivazionale), della concreta interpretazione data dal giudice di appello al titolo esecutivo azionato; ed invoca ancora una volta riconoscersi che l’importo effettivo della condanna andava calcolato mediante scomputo del saldo debitore esposto da essa tesoriera nei confronti della IPAB e dei pagamenti intercorsi; e conclude con il solo seguente quesito di diritto: dica la Corte di Cassazione se ai fini dell’interpretazione di una sentenza del giudice contabile quale titolo esecutivo il giudice dell’opposizione all’esecuzione debba in ogni caso prendere in considerazione dispositivo e motivazione o possa omettere di prendere in considerazione la motivazione quando ritenga inequivoco il dispositivo;
2.2. con un secondo, di “violazione dell’art. 78 del RB n. 1214/1934, dell’art. 25 del RD n. 1038/1933 e degli artt. 1 e 615 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 1) e 3) c.p.c.”: sul punto censura la qualificazione di esclusività – operata dalla corte territoriale – del giudizio di interpretazione previsto dalla normativa processuale contabile, data dalla corte territoriale; e conclude col seguente quesito di diritto: gli articoli 18 RD n. 1214/1934 e 25 n. 1038/1933 riservino o meno alla Corte dei Conti competenza esclusiva a interpretare le proprie sentenze, col risultato di togliere, o meno, al Giudice ordinario, funzionalmente competente a decidere l’opposizione all’esecuzione, la possibilità di interpretare titoli esecutivi rappresentati dalle sentenze della Corte dei Conti;
2.3. con un terzo, di “violazione e falsa applicazione dell’articolo 474, comma 1, c.p.c.”, sul punto formulando il seguente quesito: dica la Corte di Cassazione se, in base ai requisiti di validità dell’esecuzione forzata stabiliti dall’art. 474, comma 1, c.p.c., debba essere dichiarata la nullità di un precetto che risulti essere difforme in misura abnorme dal reale contenuto del titolo esecutivo (nella specie: di almeno lire 1.545.473.345 su lire 3.811.125. 689);
2.4. con un quarto, di vizio motivazionale sul rigetto della domanda risarcitoria, denunziando la sommarietà della esclusione di una colpa della procedente e l’incongruità dell’argomento dell’avvenuta indicazione, da parte della stessa esecutata, dei beni da sottoporre a pignoramento.
3. Dal canto suo, la controricorrente: illustra le gravi irregolarità poste a base del giudizio contabile e le vicende di quest’ultimo, ricordandone la minuziosa istruttoria; deduce, quindi, quanto al primo motivo, l’intervenuto giudicato sulla pronuncia azionata come titolo esecutivo e comunque rimarca l’inammissibilità delle letture di questa, come offerte dalla controparte, siccome involgenti veri e propri motivi di censura – in ogni caso infondate, per l’ampiamente motivata esclusione di qualunque saldo a favore della tesoriera, analiticamente ripercorsa – e con derivante preclusione di ogni doglianza inerente a questioni che andavano fatte valere in sede di cognizione; quanto al secondo motivo, insiste per il carattere esclusivo della cognizione del giudice contabile in punto di effettiva interpretazione delle proprie pronunce, prospettando come conseguenza la rimessione a quello, con sospensione del giudizio di opposizione all’esecuzione davanti al giudice ordinario, in caso di contestazione dell’interpretazione di un titolo esecutivo costituito da sentenza contabile; sul terzo motivo, ritiene corretta l’applicazione, data dalla corte territoriale, della consolidata giurisprudenza sulle conseguenze dell’eccessività delle somme precettate; sul quarto motivo, infine, condivide l’esclusione dei presupposti per la condanna invocata da controparte.
4. Va a questo punto premesso che alla fattispecie si applica l’art. 366-bis cod. proc. civ.:
4.1. tale norma è stata introdotta dall’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e resta applicabile – in virtù del comma secondo dell’art. 27 del medesimo decreto – ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dal 2 marzo 2006, senza che possa rilevare la sua abrogazione – a far tempo dal 4 luglio 2009 – ad opera dell’art. 47, comma 1 lett. d), della legge 18 giugno 2009, n. 69, in virtù della disciplina transitoria del suo art. 58, comma quinto (con ultra-attività ritenuta conforme a Costituzione, tra le altre, da Cass., ord. 14 novembre 2011, n. 23800);
4.2. i criteri elaborati per la valutazione della rilevanza dei quesiti vanno applicati anche dopo la formale abrogazione, nonostante i motivi che l’avrebbero determinata, attesa l’univoca volontà del legislatore di assicurare ultraattività alla norma (per tutte, v. espressamente Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194; Cass. 24 luglio 2012, n. 12887; Cass. 8 febbraio 2013, n. 3079);
4.3. quanto ai quesiti previsti dal primo comma di tale norma, in linea generale (tra le molte e per limitarsi alle più recenti, v.: Cass. Sez. Un., ord. 5 febbraio 2008, n. 2658; Cass., ord. 17 luglio 2008, n. 19769, Cass. 25 marzo 2009, n. 7197; Cass., ord. 8 novembre 2010, n. 22704), essi devono compendiare (e tanto che la carenza di uno solo di tali elementi comporta l’inammissibilità del ricorso: Cass. 30 settembre 2008, n. 24339): a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; e) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie; inoltre, i quesiti debbono porre questioni pertinenti alla ratio decidendi, perché, in contrario, essi difetterebbero di decisività (sulla indispensabilità della pertinenza del quesito, per tutte, v.: Cass. Sez. Un., 18 novembre 2008, n. 27347; Cass., ord. 19 febbraio 2009, n. 4044; Cass. 28 settembre 2011, n. 19792; Cass. 21 dicembre 2011, n. 27901);
4.4. quanto poi al capoverso dell’art. 366-bis cod. proc. civ., va rilevato che per le doglianze di vizio di motivazione, occorre la formulazione – con articolazione conclusiva e riassuntiva di uno specifico passaggio espositivo del ricorso – di un momento di sintesi o di riepilogo (come puntualizza già Cass. 18 luglio 2007, ord. n. 16002, con indirizzo ormai consolidato, a partire da Cass. Sez. Un., 1 ottobre 2007, n. 20603: tra le altre, v. Cass. 30 dicembre 2009, ord. n. 27680) il quale indichi in modo sintetico, evidente ed autonomo rispetto al tenore testuale del motivo, chiaramente il fatto controverso in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, come pure – se non soprattutto – le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione; tale requisito non può ritenersi rispettato quando solo la completa lettura dell’illustrazione del motivo – all’esito di un’interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle censure;
4.5. non è consentita la congiunta proposizione di doglianze ai sensi del n. 3 e del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. se non accompagnate tanto dal quesito di diritto previsto per il primo vizio che dal momento di sintesi o riepilogo imposto per il secondo (per tutte, a contrario: Cass. Sez. Un., 31 marzo 2009, n. 7770).
5. Ciò posto, il primo motivo è inammissibile.
Quanto al profilo della violazione di legge, il quesito di diritto a suo corredo risulta privo dei requisiti di cui al precedente punto 4.3, in quanto apodittico e generico, non facendosi carico della peculiarità della fattispecie, consistente negli specifici passaggi di calcolo contenuti nell’ampia motivazione ricostruttiva di una complessa vicenda di tesoreria, che si vorrebbero interagire sul dispositivo, al di là del suo tenore letterale; e senza considerare che quest’ultimo non dichiara affatto l’insussistenza di un debito della IPAB verso la sua tesoriera, ma – significativamente – del saldo debitore apparente nei confronti di quest’ultima, sicché è congruente di per sé nella statuizione della somma di 2.246.260.382 come risultante finale, a credito della IPAB, proprio di ogni altra pregressa operazione di calcolo.
Quanto al profilo del vizio motivazionale, manca del tutto il momento di sintesi o di riepilogo dai rigorosi requisiti di cui al precedente punto 4.4.
6. Il secondo motivo è anch’esso inammissibile.
6.1. Infatti, non risulta idoneamente censurata, nel ricorso complessivamente inteso – e non potendo valere a colmare tale originaria lacuna alcuna argomentazione successiva, tanto meno la memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. – ed all’esito della vista inammissibilità del primo motivo di doglianza, l’espressa ratio decidendi della corte territoriale, secondo cui, anche a prescindere dalla riserva in via esclusiva o meno di ogni questione di interpretazione di sentenze contabili alla corte dei conti, la tesi dell’odierna ricorrente “propone criteri di lettura della sentenza azionata dall’esecutante estranei alle statuizioni di questa e integranti veri e propri motivi di censura della stessa sentenza non valorizzabili, al di fuori degli strumenti di impugnazione della sentenza contabile, nel giudizio di opposizione alla esecuzione” (righe quarta e seguenti della pag. 8 della gravata sentenza): ratio decidendi con la quale si prospetta la non configurabilità di una questione di mera interpretazione di un titolo esecutivo e si ritiene che le critiche trasmodino in censure ai passaggi motivazionali e quindi in motivi di impugnazione, ormai irrimediabilmente preclusi.
6.2. Eppure, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata:
– da un lato, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (principio affermato ai sensi dell’art. 360-bis cod. proc. civ. da Cass., ord. 3 novembre 2011, n. 22753; tra le innumerevoli altre e per limitarsi alle più recenti, v.: Cass. 28 gennaio 2013, n. 1891; Cass. 23 gennaio 2013, n. 1610; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3386; Cass. 20 novembre 2009, n. 24540; Cass. 18 settembre 2006, n. 20118);
– dall’altro lato, la ritenuta infondatezza o inammissibilità delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, poiché queste ultime non potrebbero comunque condurre, per l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (per tutte, v. Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108).
6.3. Pertanto, la censura mossa con l’appello è stata qualificata – senza che sul punto, in ricorso, vi sia stata valida contestazione – come ragione di impugnativa e non di semplice interpretazione: e questa potrebbe configurarsi, alla stregua della consolidata giurisprudenza contabile sul punto, soltanto quando si escluda un controllo critico e si tenda ad eliminare una situazione di obiettiva incertezza, nella ricerca del significato concreto di una statuizione effettiva già compiutamente presa dal giudice che ha emesso la sentenza da interpretare (tra le ultime, v.: Corte conti – s.g. Emilia-Romagna 5 luglio 2012, n. 150; Corte conti – s.g. Puglia 20 gennaio 2012, n. 172, con richiami a: Corte conti, SS.RR. 15 luglio 1995, n. 19/A; Corte conti, sez. I, 17 settembre 1964, n. 30675; Corte conti, sez. III p.g., 13 luglio 1964, n. 53131 e 17 gennaio 1972, n. 60308; Corte conti, sez. I, 15 luglio 1965, n. 60865; Corte conti, sez. I, 20 luglio 1995, n. 84). Ma tale chiara qualificazione da parte della corte territoriale avrebbe fondato l’onere, per la ricorrente, di farla oggetto di una specifica censura nel ricorso, con chiari ed univoci argomenti ad hoc.
6.4. Tanto esime dal rilevare che, ad ogni buon conto, l’esecuzione è riservata al g.e. anche quando si tratti di titoli esecutivi costituiti da sentenze della Corte dei Conti: infatti (Cass. Sez. Un., 31 marzo 2006, n. 7578), il presupposto del processo di esecuzione civile è l’esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in considerazione profili cognitori per l’accertamento dell’esistenza di un’obbligazione, con la conseguenza che in punto di giurisdizione non si può profilare altro giudice competente sulla materia e che quando sia posta in esecuzione una sentenza di condanna della P.A., ancorché pronunciata da un giudice speciale, viene introdotta una controversia avente per oggetto un diritto soggettivo, rimessa alla competenza, del giudice ordinario; ancora, prevale tra gli interpreti la tesi della necessità del ricorso alle procedure; esecutive ordinarie per il recupero dei crediti recati dalle sentenze del giudice contabili. Resta impregiudicata la questione dell’esclusività o meno della potestà di interpretazione delle sentenze rese dalla Corte dei conti anche ove esse siano azionate quali titoli esecutivi.
7. Il terzo motivo, a prescindere dalla verifica della conformità del quesito formulato a suo corredo ai rigorosi requisiti indicati al precedente punto 4.3, è manifestamente infondato: per antico insegnamento, del tutto conforme ai principi generali in tema di esecuzione forzata e di conservazione degli atti, l’eccesso della somma per la quale viene intimato il precetto, rispetto a quella per cui il creditore ha diritto di procedere, non importa la nullità del precetto stesso, ma da soltanto luogo alla riduzione della somma domandata nei limiti di quella dovuta (Cass. 15 giugno 1964, n. 1512; Cass. 11 marzo 1992, n. 2938; Cass. 29 febbraio 2008, n. 5515, che precisa come alla nullità od inefficacia soltanto parziale per la somma eccedente il dovuto consegua pure la persistenza della validità del precetto stesso per la somma effettivamente dovuta, alla cui determinazione provvede il giudice, investito di poteri di cognizione ordinaria a seguito dell’opposizione circa la quantità del credito).
8. Infine, il quarto motivo è anch’esso inammissibile, perché non corredato da alcun momento di sintesi o di riepilogo dai rigorosi requisiti di cui al precedente punto 4.4; e tanto senza considerare che l’azionamento di un titolo giudiziale esecutivo non può integrare una colpa idonea a fondare una responsabilità processuale, neppure ove quello sia sub iudice e sia prossima la decisione sulle consentite azioni di impugnazione o, come nel caso eccezionale del processo contabile, di interpretazione, se le relative questioni possano apparire – come reso evidente dalla necessità stessa di una pronuncia di interpretazione – opinabili e non univoche.
9. L’infondatezza o l’inammissibilità di tutti i motivi comporta il rigetto del ricorso e la condanna della soccombente ricorrente al pagamento, in favore della controparte, delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la (omissis) Banca spa, in pers. del leg. rappr.nte p.t., al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della IPAB Casa di ***********, in pers. del leg. rappr.nte p.t., liquidate in Euro 22.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Redazione