Deposito delle memorie e termini perentori (Cons. Stato n. 916/2013)

Redazione 15/02/13
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FATTO

Con ricorso proposto dinanzi al Tar Puglia sezione di Lecce l’attuale appellante *******, usufruttuaria di abitazioni adiacenti la zona interessata dagli abusi, agiva per l’annullamento delle concessioni edilizie nn. 1 e 2 dell’8 febbraio 1997 rilasciate dal Comune di Castro in favore di C. Consiglio, deducendo, in assenza di documentazione completa, i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili.

Tali concessioni erano state rilasciate in sanatoria relativamente ad alcuni interventi edilizi abusivamente realizzati in località “Grotta del Conte”.

Successivamente, acquisiti gli atti, la sig.ra R. proponeva motivi aggiunti per impugnare: con riferimento alla concessione edilizia n°1/97, il provvedimento n°27 del 18/7/2000 adottato dal Responsabile dell’U.T.C., nonché il provvedimento della Sovrintendenza per i beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici di Bari n° 25274 del 31/10/2000 ed ove occorresse il provvedimento n° 16165/97 della stessa Sovrintendenza;con riferimento alla concessione edilizia n°2/97, il provvedimento n°16700 del 7/7/97 adottato sempre dalla Sovrintendenza, deducendo sempre i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili.

Con nota del 09/05/2002, poi, il Comune di Castro comunicava alla sig.ra R., ai sensi della L. n° 241/90, l’avvenuto rilascio in favore del sig. C. della concessione edilizia n° 10 del 06/05/02, richiesta dall’interessato per l’esecuzione di lavori di modifica interna e manutenzione straordinaria delle strutture già oggetto di sanatoria edilizia.

Quindi la signora R. agiva con proposizione di motivi aggiunti (08/07/2002) e, nel riformulare le censure già in precedenza avanzate (motivi aggiunti del 22/03/2002), denunciava a carico del nuovo provvedimento concessorio n° 10/02 ulteriori illegittimità.

Il giudice di primo grado, in accoglimento della eccezione dedotta dal Comune, dichiarava l’inammissibilità dei motivi aggiunti tardivamente depositati in data 22/03/2002 (oltre trenta giorni, dalla notificazionee avvenuta in data 19 febbraio 2002), ritenendo tuttavia che tale atto dovesse essere scrutinato nella misura in cui poteva essere ritenuto chiarimento e precisazione delle precedenti censure.

Il primo giudice rigettava il ricorso proposto avverso le concessioni del 1997, ritenendo sussistente la ipotesi derogatoria di cui all’art. 51 della L.R. n° 56/80, invocata, che, nel vietare qualsiasi opera di edificazione entro la fascia di 300 metri dal confine del demanio marittimo, precisa che “ è consentita l’edificazione (solo) nelle zone omogenee A, B e C dei centri abitati e negli insediamenti turistici”; nella specie pur essendo avvenuta la costruzione nella fascia costiera dei 300 metri, assumeva decisivo rilievo la circostanza che la zona interessata dal contestato intervento edilizio era stata tipizzata dal P. di F. del Comune di Castro, prima ancora dell’entrata in vigore della L. R. n° 56/80, come “zona edificata B0” di rispetto ambientale, suscettibile soltanto di interventi ex legge n° 457/78, punti a), b), e c) dell’art.31 (edificazione consentita in zona B).

Con riguardo alla impugnativa con ulteriori motivi aggiunti della concessione edilizia n° 10 del 06/05/02, la sentenza appellata concludeva per l’inammissibilità del ricorso, difettando un concreto pregiudizio per la ricorrente in relazione al rispetto della forma e del volume e dell’altezza del manufatto esistente, essendosi soltanto in presenza della sostituzione della copertura a falde inclinate costituita da tralicci profilati metallici e pannelli coibentanti, con un solaio laterocementizio pavimentato con lastre di pietra; con riguardo a pericolo di interventi futuri, il primo giudice concludeva per la mancanza di attuale interesse.

Avverso tale sentenza propone appello la medesima signora R., deducendo i seguenti motivi di appello.

Dopo avere ricostruito la vicenda procedimentale in fatto, deduce la tesi secondo cui sarebbe errata la declaratoria di inammissibilità per deposito tardivo dei motivi aggiunti (depositati oltre trenta giorni), rappresentando che in ogni caso essi contenevano le medesime censure di violazione dell’art. 51 l.r.56/1980 e dell’art. 33 L.47 del 1985, contenute nel ricorso originario, soltanto specificando le argomentazioni svolte in precedenza. La tesi di cui al ricorso originario, soltanto specificata con i motivi aggiunti, proposti una volta ottenuta la documentazione, è della esclusione della condonabilità di interventi edilizi in area ricadente nella fascia di 300 metri dal mare e quindi sottoposta a vincolo assoluto. Viene pertanto riproposta la censura di violazione dell’art. 51 l.r. 56 del 1980, essendo non consentita la costruzione di edifici ex novo né di ristrutturazione in zona sottoposta a vincolo assoluto; fa presente che su tale censura il primo giudice non si sarebbe pronunciato; considerato che il corpo edilizio realizzato è diventato un corpo unico ed integrato di oltre 1200 mc, si lamenta anche la violazione dell’art. 39 l.724 del 1994, secondo cui non sono condonabili le opere abusive che abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero indipendentemente dalla volumetria iniziale o assentita un ampliamento superiore a 750 metri cubi; il primo giudice non si sarebbe reso conto che con due concessioni di numero di protocollo consecutivo (4496/97 e 4497/97) si è eluso il limite normativo alla volumetria condonabile, dando vita ad un unico corpo omogeneo di immediati impatto urbanistico ed edilizio (pagine 15, 16 e 17 dell’appello).

L’appellante deduce con altro motivo di appello (pagina 17) che la condonabilità in zona E/6 non poteva comunque essere concessa.

Con altro motivo di appello si deduce la illegittimità in quanto i pareri della Soprintendenza avrebbero dovuto precedere e non già seguire la emissione di titoli abilitativi edilizi.

Con altro motivo di appello (da pagina 18 in poi) l’appellante lamenta la erroneità della sentenza, laddove ha ritenuto inammissibile l’impugnativa avverso la concessione edilizia n.10 del 6 maggio 2002, ritenendo fondata la eccezione di inammissibilità per mancanza di interesse; infatti, l’appellante è usufruttuaria di villa prestigiosa; in aderenza il ristorante “Grotta del Conte” da piccolo ristorante marinaro tipico, si è trasformato in importante ristorante di due piani, del tutto privo di parcheggio, con giardini adibiti a clienti con ombrelloni, tavoli e sedie, nel quale si susseguono “matrimoni per non meno di cinquecento persone ad un ritmo di quasi due al giorno”. Deduce che per effetto della concessione n.10 del 1997 (pagina 19 dell’appello) il ristorante viene ulteriormente potenziato; sostiene quindi di essere munita di interesse, per l’impatto visivo orribile, avendo a due metri di distanza una abitazione con pareti finestrate e solaio con tetto spiovente, con soluzione architettonica diversa da quelle circostanti; contesta la sentenza che ha ritenuto non degno di positiva valutazione l’interesse rispetto a futuri possibili interventi ulteriori e a tal riguardo fa presente (pagina 22 dell’appello) che il signor C. ha presentato altre tre nuove istanze in data 10 dicembre 2004 in relazione al ristorante Grotta del Conte.

Contesta la sentenza nella parte in cui scende in valutazioni di merito sulla valutazione estetica dell’intervento, al fine di concludere per la insussistenza dell’interesse a ricorrere avverso la concessione edilizia n.10 del 6 maggio 2002, illegittima perché il regolamento edilizio per le zone E/6 non consente alcun intervento edilizio. Deduce violazione della regola secondo cui la distanza tra edifici non può essere inferiore a metri trenta, rappresentando che nella zona B0 sono consentiti soltanto interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria e di restauro e risanamento conservativo, laddove invece viene costruito un edificio del tutto nuovo; viene consentito un fabbricato stabile laddove invece esisteva soltanto una struttura precaria; l’amministrazione non ha valutato il rispetto degli standards, incidendo sulla vivibilità dei residenti; fa presente che nella zona non esistono tetti spioventi; deduce il difetto di motivazione del nulla-osta paesaggistico; infine reitera la censura di violazione di legge per mancata comunicazione ad essa dell’avvio del procedimento, in quanto aveva chiesto (istanza del 5 febbraio 2002) se esistevano ulteriori documenti o atti autorizzatori e il Comune aveva chiesto di chiarire il senso della richiesta (nota del 12 febbraio 2002), per poi apprendere soltanto dalla nota finale (n.2168 del 9 maggio 2002) che era stata rilasciata concessione edilizia n.10 del 6 maggio 2002 in favore del signor C.. Tale comunicazione postuma non può in alcun modo soddisfare le garanzie partecipative.

Si è costituito con memoria il signor C. Consiglio, il quale chiede il rigetto dell’appello perché infondato.

Con memoria depositata per l’udienza pubblica l’appellante contesta la produzione documentale allegata dall’appellato alla memoria del 2 gennaio 2013, perché tardiva rispetto al termine di legge di quaranta giorni di cui all’art. 73 c.p.a..

Alla udienza pubblica del 5 febbraio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.

 

DIRITTO

1. In primo luogo, occorre pronunciarsi sul rilievo di tardività del deposito dei documenti da parte dell’appellato C., documenti depositati unitamente alla ultima memoria depositata datata 2 gennaio 2013 e successivamente depositata in vista della udienza pubblica del 5 febbraio 2013.

Con tale documento il Comune di Castro in data 28 dicembre 2012 attesta che l’immobile censito in catasto al fog.11 partic.337-359 è posto nell’ambito dei territori costruiti, per come perimetrati ai sensi del PUTT con delibera di C.C. n.03/2003.

Il deposito è tardivo.

Infatti, l’art. 73 del c.p.a. prevede che i documenti possono essere prodotti fino a quaranta giorni liberi prima dell’udienza e tale termine è stato ampiamente superato dalla parre appellata.

I termini previsti dall’art. 73 comma 1, c.p.a. sono perentori e, in quanto tali, non possono essere superati neanche ove sussistesse accordo delle parti, essendo il deposito tardivo di memorie e documenti ammesso in via del tutto eccezionale nei soli casi di dimostrazione della estrema difficoltà di produrre l’atto nei termini di legge, siccome previsto dall’art. 54 comma 1, dello stesso c.p.a. neanche invocato nella specie dalla parte interessata (così Consiglio di Stato sez. V, 31 marzo 2011, n. 1970).

Pertanto, di tali documenti non può tenersi conto ai fini della decisione.

2.Con riguardo al primo motivo di appello, con esso si contesta la conclusione del primo giudice secondo cui il deposito tardivo del ricorso per motivi aggiunti dopo il termine di trenta giorni lo renderebbe inammissibile per tardività; secondo l’appello tale termine non sarebbe qualificato come perentorio da alcuna norma di legge; inoltre, il ricorso per motivi aggiunti del 14 febbraio 2002 non sarebbe che, nella specie, null’altro che un atto di specificazione e argomentazioni ulteriori poste a chiarimento e precisazione di censure originariamente già formulate; si sostiene che già nel ricorso originario si sarebbe svolta la censura di mancanza del parere della Soprintendenza e tale censura sarebbe stata appunto reiterata con il ricorso qualificato come motivi aggiunti.

Al fine di sostenere la mancanza di perentorietà del termine di deposito la parte appellante invoca giurisprudenza in tal senso.

Il Collegio osserva che effettivamente esistono precedenti (Consiglio Stato sez. IV, 11 aprile 2002, n. 1985 Consiglio Stato sez. VI, 5 dicembre 2007, n. 6183) secondo cui l’atto con cui il quale il ricorrente propone motivi aggiunti nel ricorso giurisdizionale non dà vita ad un nuovo rapporto processuale, ma si inserisce – ampliando le ragioni dedotte – nel rapporto processuale già sorto con la presentazione dell’atto introduttivo del giudizio, per cui una volta che il ricorrente abbia notificato alla controparte l’atto che contiene detti motivi , deve ritenersi assolto l’onere del contraddittorio, senza che le ulteriori vicende processuali debbano, a tal fine, seguire le regole proprie del ricorso principale, in articolare quelle previste dagli art. 22 e 23 l. Tar che impongono il deposito del ricorso entro il termine perentorio di trenta giorni dalla notificazione processuale già sorto con la presentazione dell’atto introduttivo del giudizio; i motivi aggiunti non devono essere depositati nel termine previsto per il deposito del ricorso introduttivo, essendo il rapporto processuale già sorto ed essendo l’onere del contraddittorio assolto con la sola notificazione dei motivi aggiunti .

E’ vero però che tale giurisprudenza deve ritenersi relativa alla tipologia di motivi aggiunti quali vizi ulteriori rispetto all’atto già originariamente impugnato e non già con riguardo alla impugnativa di ulteriori atti connessi, come nella specie.

Dalla l.205 del 2000 in poi, che ha esteso l’istituto come applicabile a tutti i provvedimenti adottati in pendenza di ricorso tra le stesse parti connessi all’oggetto del ricorso stesso, tra i problemi aperti sussiste proprio quello della esigenza di rispettare il termine di deposito similmente al ricorso originario.

Deve ritenersi al proposito che non può che sostenersi la necessità di depositare i motivi aggiunti nei termini previsti per il deposito del ricorso, essendo i motivi aggiunti – con i quali si impugnano nuovi atti – null’altro che un mezzo di instaurazione di un giudizio connesso.

Nella specie, mentre il ricorso originario aveva impugnato le concessioni edilizie n. 1 e n. 2, entrambe datate 20 febbraio 1997, rilasciate in sanatoria dal Comune, con l’atto di primi motivi aggiunti erano impugnati ben distinti provvedimenti: il provvedimento del 18 luglio 2000 n.27 del Comune di Castro; i decreti del 31 ottobre 2000 n.25274 e nn. 16165 e 16700 del 7 luglio 1997 della competente Soprintendenza.

3.Non regge neanche la argomentazione secondo cui si tratterebbe di mera specificazione di precedenti argomentazioni, sostenendo che già nell’originario ricorso si lamentava la assenza dei pareri della competente Soprintendenza.

E’ evidente, infatti, che una cosa è la doglianza di violazione di legge per assenza assoluta del parere (censura contenuta nel ricorso originario); altra cosa, del tutto diversa, è la contestazione di illegittimità nei confronti dell’esistente parere per vizi dei suoi contenuti (censura svolta con i motivi aggiunti).

Anche con riguardo alla impugnativa di atti dell’amministrazione comunale, si tratta di censure differenti tra di loro, anche se entrambe poggiano sulla invocazione della violazione dell’art. 51 della l.r. n.56 del 1980.

Infatti, mentre nel ricorso originario si lamentava la violazione dell’art. 51 comma 1 lettera f primo periodo della l.r. 56 del 1980 che escluderebbe la possibilità di condono delle opere realizzate entro la fascia di m.300 dal confine del demanio marittimo o dal ciglio più elevato sul mare e che si tratterebbe di strutture precarie poi trasformate in costruzioni stabili, nel ricorso per motivi aggiunti si lamenta da un lato la violazione dell’art. 39 L.724 del 1994, laddove pone il limite di volumetria di metri cubi 750 e dall’altro lato si sostiene che con due interventi complessivamente sarebbe stato sforato tale limite assoluto con due diversi interventi.

Considerato quindi che i motivi aggiunti non sono altro che la forma processuale che riveste, in pendenza di giudizio già instaurato, l’impugnazione di atti connessi, ad essi non può che applicarsi al proposito la medesima disciplina del ricorso originario (Cons. Stato, VI, 1 ottobre 2003, n.5707)

E’ evidente che, avendo la parte appellante contrastato in modo tardivo e quindi inammissibile l’aspetto paesaggistico – sotto il profilo del divieto di edificare entro la fascia di metri 300 dal confine del demanio marittimo o dal ciglio più elevato sul mare – non è ammissibile la censura avverso i titoli edilizi rilasciati dal Comune, contestati perché sarebbe illegittimo il parere paesaggistico sul quale si poggiano.

4.E’ quindi da rigettare il riproposto motivo di appello con il quale si sostiene che, a mezzo di due diversi interventi succedutisi a stretta distanza di tempo (invero contemporanei) si sarebbe violato il limite complessivo di metri cubi ammesso dalla legge sul condono del 1994. Infatti, tale censura è stata proposta per la prima volta con il ricorso per motivi aggiunti, del quale è stata acclarata la tardività.

5.Il Collegio fa presente che con il ricorso originario (pagine 2 e 3) il ricorrente aveva dedotto la insanabilità delle opere abusive perché sottoposte a vincolo paesaggistico e poi perché ai sensi dell’art. 51 su citato si trattava di opere costruite nella fascia costiera a meno di trecento metri dal mare.

A ritenere la insussistenza di vincoli assoluti, i soli che possono ritenersi preclusivi in assoluto della condonabilità, è sufficiente riportare quanto statuito dal primo giudice, secondo cui se è indubbio che l’opera contestata è stata realizzata nella fascia costiera dei 300 metri, tuttavia la zona interessata è stata tipizzata dal Piano di fabbricazione del Comune di Castro, prima della entrata in vigore della l.r. 56 del 1980 come “zona edificata B0” di rispetto ambientale suscettibile soltanto di interventi ex legge n.457 del 1978 punti a), b) e c) dell’art. 31.

Fermo restando che tutte le altre censure riproposte con l’appello non possono e non debbono essere esaminate in quanto riproposizione dei motivi aggiunti tardivi, con riguardo alla violazione lamentata con il ricorso originario e riproposta in appello, deve concludersi per la sua infondatezza, a causa della ipotesi di deroga prevista dalla stessa disposizione invocata (edificazione consentita in zona B).

Vale inoltre la considerazione che con il tardivo ricorso per (primi) motivi aggiunti è stato impugnato il provvedimento sindacale 18.07.2000 con cui si annullava la precedente concessione edilizia n.1 del 1997, la declaratoria di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti preclude l’esame dei motivi riproposti rispetto ad esso.

La sostituzione, rectius, l’annullamento del precedente provvedimento concessorio (quantomeno espressamente della n.1 del 1997, per mancanza del previo parere paesaggistico e al fine di sopperire alla lamentata mancanza al riguardo di idonea motivazione), preclude, per improcedibilità al riguardo che ne deriva, del ricorso originario, l’esame dei motivi riguardanti la prima concessione.

6.Alla luce della lettura del provvedimento n.27 del 18 luglio 2000 su menzionato, che ha determinato l’annullamento della precedente concessione, proprio a causa della assenza del previo parere della Soprintendenza, debbono considerarsi prive di rilievo – a causa della sopravvenienza dell’autorizzazione sindacale su indicata da ritenersi in oppugnata – tutte le censure con cui l’appellante deduce che a rigore i pareri di tipo paesaggistico debbono precedere e non seguire i titoli abilitativi in sanatoria.

Per completezza, il Collegio osserva che, con l’autorizzazione del 18 luglio 2000, il Comune di Castro prendendo atto del parere della Sovrintendenza del 5 luglio 1997 n. 16700 che sul medesimo immobile, in parte ricadente in zona B0 di rispetto ambientale, ha ritenuto: la insussistenza di elementi tali da annullare il provvedimento sindacale; che la costruzione si configura come corpo omogeneo anche se ricadente in parte in zona B0 di rispetto ambientale e in parte in zona E/6 verde agricolo fascia costiera; che dalla istruttoria è emerso che la C.E.C. ha espresso parere favorevole perché si tratta di immobile che non altera i valori paesistici del territorio lasciando pressoché immutata la prospettiva visuale sia da terra che da una visuale da mare. Ciò anche perché la struttura ricettiva, sottoposta al piano stradale, è realizzata con materiali e rivestimenti perfettamente compatibili con il paesaggio ed è ben corredata da adeguato impianto arboreo e floreale, che rende la stessa compatibile con il panorama circostante.

Alla luce di quanto sopra riportato in ordine al contenuto della autorizzazione sindacale del 18 luglio 2000, non impugnata in modo ammissibile, per completezza si osserva come essa sia munita di adeguata motivazione in ordine alla compatibilità con l’ambiente circostante.

Tuttavia, tali motivi, con riguardo alle prime concessioni, non possono essere più esaminati, per improcedibilità del ricorso originario e, quanto alla successiva concessione-autorizzazione, per tardività del ricorso per motivi aggiunti.

Pertanto, a rigore, il Collegio non può ulteriormente esaminare i motivi riproposti avverso l’atto n. 1 del 1997 sostituito (e che in ogni caso si limita alla violazione dell’art. 51 nei limiti suddetti, nella mancanza del parere paesaggistico e nel difetto di istruttoria) mentre è da non esaminare ogni motivo riproposto (dai motivi aggiunti tardivi) avverso la concessione del 18 luglio 2000.

7.Con altro motivo di appello la parte appellante contesta il ragionamento del primo giudice che, in relazione alla impugnativa della concessione n.10 del 2002, ha ritenuto l’inammissibilità per effettiva assenza di lesività, in quanto permaneva il medesimo effetto lesivo (con sostituzione dei tralicci metallici con strutture verticali murarie, con immutabilità di forma, volume ed altezza).

Il Collegio osserva come l’appellante, nel contestare tale capo di sentenza (da pagina 18 in poi dell’appello) tuttavia non riesca a sovvertire le conclusioni alle quali è pervenuto il primo giudice e anzi in un certo modo le conferma, soprattutto laddove, spiegando il suo concreto interesse, non si lamenta per quanto viene realizzato con la nuova concessione n.10 del 2002, limitata al tetto, ma estende la sua doglianza alla intera struttura, realizzata oramai sulla base dei titoli abilitativi precedenti, da intendersi conforme a legge nella sua interezza.

Anche laddove l’appello (pagina 19) contesta la realizzazione di un tetto a spiovente, lamentando un interesse concreto e sussistente diretto a impedire un “impatto visivo orribile”, non viene sufficientemente sovvertita la considerazione del primo giudice della insussistenza della gravissima incidenza visiva sull’immobile di cui è titolare in termini di vedute, distanze, riservatezza. In una parola, non si vede quale sia la differenza, se essa consiste da un lato nella sostituzione del materiale della tettoia e dall’altro lato per il resto (come da relazione tecnica illustrativa comunale allegata alla concessione n.10 del 2002) soltanto in una diversa distribuzione interna, come tale irrilevante per il vicino.

Se ha interesse a ricorrere il vicino che riceve una lesione per diminuzioni di luce, di aria, di visuale o di insolazione è portatore di un interesse giuridicamente tutelato ad insorgere contro il rilascio di una concessione edilizia, nella specie l’appellante non deduce espressamente quale sia la differenza tra il materiale precedente e quello successivamente adottato, che gli procura una lesione ulteriore, limitandosi a rappresentare quella situazione di invadenza che in vero era generata già dalla precedente tettoia già costruita.

8.Diversamente da quanto rappresentato dall’appello, l’oggetto della concessione n.10 del 2002 ha riguardato solo il manufatto posto a quota 1,10 e non anche quello posto a quota 4,65; l’oggetto è consistito: 1) nella sostituzione della copertura originaria (costituita da tralicci, profilati metallici e pannelli coibentati) e delle strutture verticali (tralicci metallici); 2) nella differente distribuzione interna di taluni ambienti (spogliatoi, servizi igienici, etc.).

Pertanto, il manufatto resta in sostanza quello già assentito con le concessioni edilizie nn. 1 e 2 del 1997 e l’intervento non può che qualificarsi come di manutenzione straordinaria, piuttosto che di ristrutturazione rispetto a manufatto già regolarizzato con le precedenti concessioni in sanatoria, essendo in tale seconda vicenda procedimentale rimasti immutati forma, volume ed altezza.

9.E’ altresì da rigettare anche la riproposta censura con la quale si lamenta – in relazione alla impugnata concessione n.10 del 2002 – la violazione delle regole in tema di standards e di parcheggi, sostenuta in quanto mancherebbero parcheggi per il ristorante che offre fino a trecento posti. E’ evidente che, sulla base dei limiti della concessione successiva sopra richiamata, non è ad essa che si può far risalire la scelta insediativa della struttura, essendo l’atto impugnato limitato alla mera manutenzione straordinaria o al più al risanamento conservativo.

10. E’ del tutto infondata anche la doglianza proposta, laddove essa viene basata su possibili futuri ampliamenti degli abusi e anzi ulteriori tre nuove richieste di condono vengono menzionate nell’atto di appello a pagina 22.

Infatti, da un lato tali atti andrebbero fatti oggetto di autonoma e puntuale impugnativa, se ritenuti lesivi; dall’altro lato, al momento della proposizione della impugnativa nessuna considerazione può valere a radicare l’interesse attuale la possibilità di interventi possibili ma futuri.

11.E’ infondato il motivo di appello con il quale ci si duole del difetto di adeguata istruttoria e di motivazione, pure con riferimento alle concessioni nn. 1 e 2 oltre che alla concessione n.10 del 2002, constatando l’esposizione delle ragioni esposte nel provvedimento.

L’Amministrazione comunale aveva già ritenuto in generale che “l’immobile in questione non altera i valori paesistici del territorio, lasciando pressoché immutata la prospettiva sia da una visuale da terra che da una visuale da mare. Ciò anche perché la struttura ricettiva, sottoposta al piano stradale, è..ben corredata da adeguato impianto arboreo e floreale che rende la stessa compatibile con il panorama circostante”.

12.E’ infondato altresì il vizio dedotto in appello con cui si lamenta il difetto di comunicazione dell’avvio del procedimento e quindi la mancanza di partecipazione dell’appellante al procedimento concessorio, al di là dei profili di interesse a ricorrere.

In generale, il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell’art. 7, l. n. 241 del 1990, pur se lo stesso già risulti essersi opposto in precedenti occasioni all’attività edilizia dell’altro soggetto confinante.

Non vi è, infatti, identità tra le posizioni di coloro che siano legittimati ad impugnare il provvedimento finale di concessione e coloro che possono intervenire o hanno titolo a ricevere l’avviso di avvio del procedimento.

Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia o di altro titolo abilitativo, che tra l’altro viene rilasciato con espressa salvezza dei diritti dei terzi, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l’istanza, ma non hanno titolo a ricevere l’avviso di avvio del procedimento (Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2002 n. 1533).

13.Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto.

La condanna alle spese del presente grado di giudizio segue il principio della soccombenza; le spese sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede:

rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidandole in complessivi euro duemila.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 febbraio 201

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