Demansionamento: Poste Italiane condannate a risarcire il dipendente per le mansioni non corrispondenti alla qualifica (Cass. n. 11722/2013)

Redazione 15/05/13
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Svolgimento del processo

La società Poste Italiane proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma che accertò che il Q. – dipendente della società Poste e già adibito a mansioni rientranti nella ex sesta categoria nel profilo professionale di perito, addetto alla manutenzione, riparazione e conduzione degli impianti – era stato successivamente illegittimamente inquadrato nell’area operativa ed utilizzato presso il reparto posta aerea quale addetto alla movimentazione dei carrelli, all’apertura e chiusura dei dispacci, all’incasellamento della corrispondenza, condannando conseguentemente la società ad attribuire al ricorrente mansioni corrispondenti alla qualifica posseduta ed al risarcimento del danno, determinato in via equitativa in misura corrispondente al 50% della retribuzione dovuta.
Si costituiva l’appellato, resistendo al gravame.
Con sentenza depositata il 28 aprile 2009, la Corte d’appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame, ed in parziale riforma della sentenza impugnata, che nel resto confermava, rigettava il capo di domanda relativo ai danni da dequalificazione, per ritenuta mancanza di adeguata allegazione e prova degli stessi.
Per la cassazione propone ricorso il Q., affidato a tre motivi. Resiste la società Poste Italiane con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato ad unico motivo, cui resiste il Q. con controricorso, poi illustrato con memoria.

Motivi della decisione

Deve pregiudizialmente disporsi la riunione dei ricorsi avverso la medesima sentenza, ex art. 335 c.p.c..
1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..
Lamenta che la Corte capitolina riformò la sentenza impugnata in ordine al risarcimento del danno, per ritenuto difetto di allegazione e prova, senza essere stata invescata della questione dalla società Poste che nel ricorso in appello si era limitata a sostenere la legittimità del mutamento di mansioni.
Il motivo è infondato, posto che dalla stessa lettura della sentenza impugnata risulta che l’appellante società Poste, oltre ad aver lamentato la legittimità delle nuove mansioni, aveva altresì censurato il capo di sentenza relativo al risarcimento del danno, lamentando il difetto di prova sul punto e comunque l’incongruità della liquidazione (pag. 2 sentenza impugnata). Tale accertamento non ha formato oggetto di specifica censura da parte del Q. .
2. Con il secondo ed il terzo motivo, il ricorrente denuncia, ex art. 360, n. 5 c.p.c., una omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ed in particolare circa l’allegazione e prova del pregiudizio subito per effetto delle mansioni assegnategli dall’aprile 1999. Denuncia inoltre, ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c. in relazione agli artt. 1218, 1223, 2103 e 2697 c.c..
Lamenta che la Corte di merito ritenne, in contrasto con le norme denunciate, le allegazioni del ricorrente insufficienti a fondare la domanda risarcitoria, in contrasto con i principi espressi nella nota sentenza di questa Corte, resa a sezioni unite, n. 6572/06. Lamenta di avere analiticamente dedotto, sin dal ricorso introduttivo del giudizio, le mansioni di contenuto specialistico svolte sino al marzo 1999, e quelle svolte dopo tale data, evidenziandone l’impoverimento professionale.
Il motivo è fondato.
Rileva infatti la Corte che le circostanze di fatto pacificamente esposte in appello, ed ampiamente richiamate alle pagine 17-19 del presente ricorso (il tecnicismo delle mansioni svolte, per lungo tempo, e dunque verosimilmente soggette ad obsolescenza, il palese demansionamento protrattosi per molti anni) appaiono idonee, in base a quanto statuito da Cass. sez.un. n. 6572/06 e successiva giurisprudenza, a fornire una prova, almeno presuntiva, del danno non patrimoniale subito.
Questa Corte, dopo la citata sentenza a sezioni unite, ha più volte rimarcato che in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’arti. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 26 febbraio 2009 n. 4652; Cass. 26 novembre 2008 n. 28274).
Nella specie la Corte capitolina non risulta avere adeguatamente valutato le articolate allegazioni fornite dal ricorrente al riguardo, sicché risulta viziata.
Ne consegue la cassazione della sentenza, con rinvio ad altro giudice, per l’esame e quantificazione del danno lamentato, oltre che per la liquidazione delle spese, ivi compreso il presente giudizio di legittimità.
4. Con il ricorso incidentale la società Poste denuncia, ex art. 360, n. 5 c.p.c., una omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e cioè la soppressione del posto occupato dal dipendente. Lamenta che la Corte di merito si limitò a confrontare le mansioni in precedenza espletate dal Q. e quelle svolte successivamente.
Il ricorso incidentale risulta in parte inammissibile (per non contenere il quesito di fatto di cui all’art. 366 bis c.p.c., ex plurimis, Cass. 30 dicembre 2009 n. 27680, Cass. 7 aprile 2008 n. 8897, Cass. 18 luglio 2007 n. 16002, Cass. sez. un. 1^ ottobre 2007 n. 20603), e per il resto infondato, richiamando una risalente giurisprudenza in tema di equivalenza professionale all’interno della medesima area prevista dai ceni, superata dai più recenti arresti di questa S.C., secondo cui, anche in tal caso, ed a prescindere dalla prova (che non risulta fornita) circa l’adibzione del Q. a mansioni riconducibili alla medesima area contrattuale, è necessario il rispetto del principio dell’equivalenza professionale di cui all’art. 2103 c.c. (Cass. 23 luglio 2007 n. 16190; Cass. 11 novembre 2009 n. 23877).
5. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la socccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore del difensore dei controricorrenti, dichiaratosi antecipante.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il secondo e terzo motivo del ricorso principale, rigettato il primo; rigetta il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Redazione