Decadenza del permesso di costruire (Cons. Stato n. 2027/2013)

Redazione 15/04/13
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FATTO

Con la sentenza in epigrafe appellata il Tribunale amministrativo regionale della Puglia – Sede di Lecce – ha respinto il ricorso di primo grado proposto dalla società odierna appellante volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento prot. n. 25987 del 26.6.2003 emesso dal Dirigente dell’Ufficio Ambiente e Territorio del Comune di Fasano, con cui erano state annullate in autotutela le concessioni edilizie: n. 248/97 del 7.8.1997 e relativa variante n. 309/01 del 6.8.2001 (**** n. 164/92); n. 77/99 del 5.3.1999 e relativa variante n. 308/01 del 6.8.2001 (**** n. 166/92); n. 321/01 dell’8.8.2001 (**** n. 14/01); per asserito mancato inizio dei lavori entro un anno dal loro rilascio atteso che “dai rilievi fotografici effettuati dai vigili urbani emerge che la concessionaria ha effettuato solo dei lavori di modesta entità, consistenti in movimenti terra e nella gittata di uno strato di battuto di calcestruzzo”.

Parimenti è stata respinta la connessa domanda risarcitoria.

Il primo giudice ha partitamente esaminato tutte le censure proposte e le ha respinte in quanto infondate.

In particolare, ha in primo luogo escluso che alcun vizio di legittimità potesse discendere dalla incontestabile circostanza che il comune appellato aveva qualificato erroneamente il provvedimento come “annullamento in autotutela”: in realtà dal contenuto dell’atto gravato (vi si indicava chiaramente, come presupposto, il mancato inizio dei lavori entro il termine decadenziale di un anno dal rilascio della concessione) si evinceva chiaramente che si tratta di un provvedimento dichiarativo della decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei lavori.

L’erronea indicazione del nomen juris non poteva condurre all’affermazione di illegittimità del medesimo.

Nel merito, ha disatteso la tesi della società odierna appellata secondo cui in realtà i lavori erano iniziati su un lotto (la cui concessione non era stata revocata) e si erano “estesi” agli altri tre (oggetto del provvedimento di autotutela asseritamente illegittimo).

Essa infatti in data 8.7.2002, aveva dichiarato al Comune l’inizio dei lavori, asserendo che essi “sarebbero stati eseguiti dalla ditta Lo Russo Donato con sede in c.da *****************”.

Era stato depositato in giudizio un contratto di subappalto per tutte e quattro le opere oggetto di concessione, datato 19 luglio 2002, il quale prevedeva l’affidamento di tutti i lavori oggetto di concessione ad altro soggetto, sig. **************, diverso da quello che avrebbe dovuto aver iniziato i lavori, secondo la precedente comunicazione al Comune, e con inizio degli stessi il giorno successivo alla stipulazione, 20 luglio 2002. In tale contratto, era previsto l’allestimento del cantiere, il pagamento a stati di avanzamento e l’ultimazione dei lavori entro il successivo 20 luglio 2003, oltre ad una penale notevolmente onerosa (Euro 500) per ogni giorno di ritardo da parte dell’appaltatore nella consegna dell’opera.

Senonchè, i vigili urbani, avevano effettuato due sopralluoghi il 24.3.2003 e l’1.4.2003, notando (e fotografando) la realizzazione di una costruzione allo stato rustico sul lotto oggetto della CE 310/2001 (pertanto non dichiarata decaduta), mentre negli altri tre lotti veniva notata la realizzazione solo di “movimenti terra e gittata di uno strato di battuto di calcestruzzo a circoscrivere le fondamenta della costruzione a farsi”.

Ad avviso del primo giudice, sotto il profilo indiziario, emergeva quindi che la dichiarazione di inizio dei lavori del 8.7.2002 era contraddetta dal contratto di subappalto del 19.7.2002 ( che attestava che i lavori, contrariamente a quanto dichiarato al Comune, non erano ancora iniziati e risultavano inoltre affidati ad un soggetto diverso da quello che avrebbe dovuto averli già iniziati); la circostanza che il contratto prevedesse il completamento dei lavori per il 20.7.2003 e onerose penali per ogni giorno di ritardo, e prevedesse inoltre, espressamente, l’allestimento del cantiere, appariva confliggere con la circostanza che a tre mesi circa dal termine finale pattuito, mentre una delle quattro opere commissionate appariva in avanzato stato di completamento, per i rimanenti tre lotti in questione, non v’era alcuna cantierizzazione in atto ed inoltre i lavori erano limitati a “movimenti terra e gittata di uno strato di battuto di calcestruzzo a circoscrivere le fondamenta della costruzione a farsi”.

La stessa circostanza che in uno solo dei quattro lotti fosse stata portata avanti l’edificazione, rafforzava la dimostrazione che, negli altri tre, fossero state iniziate opere di limitatissima entità, non al fine di completare le costruzioni, bensì di garantire “l’effetto di prenotazione” conseguente alla conservazione della concessione edilizia.

Non si evidenziava, pertanto,ad avviso del Tar un serio intento costruttivo, che giustificava il permanere del titolo: secondo una interpretazione aderente alla ratio dell’articolo 31 della legge 1150 del 1942 (articolo 15 del dpr 380/2001), non poteva ritenersi che i lavori eseguiti dalla odierna appellante avessero potuto impedire la decadenza delle concessioni edilizie, dal che si è fatta discendere la reiezione del mezzo di primo grado e della connessa statuizione risarcitoria.

La società odierna appellante, già ricorrente rimasta soccombente nel giudizio di prime cure ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe chiedendo la riforma dell’appellata decisione.

Ha ripercorso il risalente e prolungato contenzioso intercorso con il comune e l’evoluzione del giudizio di primo grado ed ha in primo luogo reiterato la censura fondata sulla circostanza che non era stata dichiarata la decadenza del titolo concessorio, sostenendo che la stessa, lungi dall’integrare una mera questione nominalistica integrava vizio del provvedimento di autotutela gravato.

Nel merito, ha contestato la parte centrale della motivazione della gravata decisione, laddove aveva ritenuto sussistente un quadro indiziario che deponeva per l’omesso inizio dei lavori ribadendo che le opere avviate e riscontrate dalla Polizia Municipale comunale non erano affatto “molto limitate” ma travalicavano i requisiti minimi che secondo la giurisprudenza consentivano di positivamente riscontrare l’avvenuto avvio dei lavori.

La sentenza gravata si era unicamente fondata sulla cronologia discendente dal contratto di subappalto ed aveva desunto che la eventuale possibilità di rispettare la data finale implicasse la (diversa e rilevante) circostanza dell’omesso avvio dei lavori: detta “equazione” era errata ed illegittima.

Essa ha altresì ribadito il petitum risarcitorio già disatteso in primo grado.

Con memoria di replica è stato ribadito che l’atto avversato era carente sotto il profilo istruttorio e motivazionale ed apoditticamente strutturato, chiedendosene l’annullamento.

L’appellata amministrazione comunale ha depositato una articolata memoria chiedendo la reiezione dell’appello perché infondato.

In particolare ha rammentato che da due sopralluoghi effettuati (24 marzo 2003 e 2 febbraio 2013) emergeva l’assenza di qualsivoglia opera di cantierizzazione sulle aree relative alle tre concessioni edilizie revocate.

Anche le opere cui faceva riferimento la relazione descrittiva di parte appellante a firma dell’arch. ********* non erano idonee a fare ritenere sussistente l’avvenuto avvio dei lavori.

Se anche si fosse voluto ritenere che il rilascio delle concessioni in variante avesse prorogato la durata delle concessioni originarie, ugualmente il mancato inizio dei lavori nel termine annuale aveva comportato la decadenza di queste ultime.

Ha inoltre chiesto la reiezione del petitum risarcitorio perché infondato ed in ogni caso carente di qualsivoglia anche embrionale elemento di prova e di allegazione

Alla odierna pubblica udienza del 26 marzo 2013 la causa è stata posta in decisione dal Collegio

 

DIRITTO

 

1. l’appello è infondato e va pertanto respinto.

1.1.Quanto alla prima censura, rammenta il Collegio che, per pacifica giurisprudenza, “ai fini della qualificazione di un rapporto giuridico non deve aversi riguardo tanto al nomen juris speso dalle parti per designarlo, quanto alle caratteristiche da esso effettivamente rivestite nella sua concreta attuazione” (Cons. Stato Sez. V, 19-11-2012, n. 5848); parimenti, è stato rimarcato, quanto alla qualificazione del provvedimento, che “nell’interpretazione dell’atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall’autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone: ciò, in quanto la sostanza dell’atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare.”(T.A.R. Lazio Latina Sez. I, 22-10-2012, n. 791). È costante, infatti, l’indirizzo giurisprudenziale in base al quale, nell’interpretazione dell’atto amministrativo, ai fini della sua qualificazione, si deve tener conto non del nomen juris assegnatogli dall’autorità emanante, ma del suo effettivo contenuto e di quanto esso effettivamente dispone (cfr T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 14 novembre 2011, n. 8828): ciò, in quanto la sostanza dell’atto prevale sul nomen juris che la P.A. abbia inteso utilizzare (v. C.d.S., Sez. V, 16 settembre 2011, n. 5211 ma si veda anche ex multis, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 3 novembre 2009, n. 10782, T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 21 luglio 2011, n. 614)

1.2. Nel caso di specie sia i presupposti oggettivi posti a sostegno del provvedimento decadenziale che il dato fattuale che ad avviso del comune lo giustificava erano riconducibili alla prescrizione di cui all’articolo 31 della legge 1150 del 1942: l’errato nomen del provvedimento non rileva affatto (e soltanto per completezza, comunque, si fa presente che non è sporadica, in dottrina, la riconducibilità della sanzione della decadenza ad un lato concetto di “autotutela”, intesa qual deliberazione atta a vanificare gli effetti di un precedente provvedimento)

1.3 Nel merito, nel rimarcare che per costante e condivisibile giurisprudenza di questa Sezione l”’amministrazione non è tenuta a fornire specifiche motivazioni sulla adozione dell’atto di decadenza del permesso di costruire di cui all’art. 15, comma 4, d.p.r. n. 380/2001, in quanto qui non si è in presenza di un provvedimento negativo o di autotutela e la pronuncia di decadenza, per il suo carattere dovuto, è sufficientemente motivata con la sola evidenziazione dell’effettiva sussistenza dei presupposti di fatto. Né è richiesta alcuna ulteriore specificazione, stante la immediata e diretta prevalenza dell’interesse pubblico all’attuazione della regolamentazione sopravvenuta che è imposta dalla norma in questione(Cons. Stato Sez. IV, 07-09-2011, n. 5028), ritiene il Collegio di dovere sinteticamente richiamare alcuni precedenti giurisprudenziali di merito, che hanno costantemente affermato il principio (riferibile sia all’art. 31, legge 17 agosto 1942, n. 1150 che all’art. 15 del TU edilizia) per cui ai fini dell’impedimento della decadenza della concessione ai sensi dell’art. 31, legge 17 agosto 1942, n. 1150, l’avvio dei lavori può senz’altro ritenersi sussistente quando le opere intraprese ed oggetto della concessione siano tali da manifestare l’univoca intenzione del concessionario di realizzare il manufatto assentito. La circostanza relativa alla ripulitura del sito e di aver approntato il cantiere ed i materiali necessari per l’esecuzione dei lavori sull’immobile non può certamente considerarsi come volontà diretta ed univoca volta al compimento delle opere assentite.(ex multis T.A.R. Molise Campobasso Sez. I, 19-09-2005, n. 875).

Del pari, è stato in passato rimarcato che al fine di impedire la decadenza comminata dall’art. 31 della L. 17 agosto 1942, n. 1150, come sostituito dall’art. 10 della L. 6 agosto 1967, n. 765 e dall’art. 4 della L. 28 gennaio 1977, n. 10 l’inizio dei lavori può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito e tale non può considerarsi il semplice sbancamento del terreno (cfr. ex multis, Cons. St., Sez. V, 22 novembre 1993, n. 1165, ma anche T.A.R. Marche Ancona Sez. I Sent., 13-03-2008, n. 195 ).

1.4. Nel caso di specie, nei tre lotti attinti dal provvedimento dichiarativo decadenziale veniva notata la realizzazione (soltanto) di “movimenti terra e gittata di uno strato di battuto di calcestruzzo a circoscrivere le fondamenta della costruzione a farsi”.

Appare evidente pertanto che non sussistevano i requisiti minimali per ritenere che i lavori fossero stati iniziati e, stante la circostanza che erano state rilasciate a parte appellante autonome e separate concessioni edilizie non giova alla posizione di quest’ultima il richiamo all’avvenuto inizio dei lavori nell’altro lotto.

1.5.La prescrizione relativa all’inizio “serio e comprovato” delle opere assentite entro l’anno risponde ad un evidente interesse pubblico, incidente sui poteri programmatori dell’amministrazione comunale: si è detto infatti, in passato, che affinchè non operi la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio dei lavori entro l’anno, non possono essere valutate come cause di forza maggiore le libere scelte imprenditoriali, come tali implicanti un’alea, le cui conseguenze negative non possono che essere imputate al concessionario (tra le tante, T.A.R. Sicilia Catania Sez. I, 21-11-2006, n. 2316).

1.6.Esattamente, ad avviso del Collegio il comune ha riscontrato il mancato inizio dei lavori sui lotti per cui è causa.

1.7.Sotto altro profilo, come si è fatto cenno in precedenza, costituisce inammissibile prospettativa quella volta a traslare le conseguenze dell’effettiva avvenuta intrapresa dei lavori su un lotto limitrofo (e correttamente non oggetto della statuizione decadenziale) sui lotti contemplati nella avversata statuizione.

Una simile pretesa è del tutto destituita di fondamento sol che si consideri che nel caso di specie non si era in presenza di un programma costruttivo unitario ed indistinto ma, al contrario, all’appellante furono rilasciate distinte concessioni, aventi autonoma “struttura” ed oggettività giuridica: è perfettamente logico, pertanto, che il comune abbia vagliato la –eventuale – ricorrenza dei presupposti decadenziali partitamente con riferimento ai singoli lotti oggetto delle singole concessioni.

1.8. Rileva il Collegio poi che appare illazione destituita di fondamento quella per cui la avversata statuizione decadenziale si sarebbe fondata esclusivamente sulla disamina dei contratti di subappalto posto che, al contrario di quanto sostenutosi nell’appello, tale elemento appare costituire semmai ulteriore corredo indiziario di un dato probatorio “centrale” rappresentato dalla circostanza che non era riscontrabile alcun serio inizio dei lavori comprovante la volontà di definire l’edificazione dei manufatti.

Posto che le concessioni rilasciate erano datate 6/8 agosto 2001, l’anno entro il quale iniziare i lavori scadeva il 8 agosto 2002(il dato non è contestato); la comunicazione di avvenuto inizio dei lavori risale all’8 luglio 2002, mentre il contratto di subappalto al 19 luglio 2002.

Alla data dell’8 agosto 2002 le opere avviate non rientravano nel paradigma enucleato dalla condivisibile giurisprudenza prima indicata per far ritenere avviati i lavori: tanto basta per ritenere la legittimità ed immunità da vizi dell’avversata decadenza delle concessioni, dovendosi soltanto per completezza rilevare che ci si trovava al cospetto di un atto dovuto di guisa che non ha senso interrogarsi sulla asserita insussistenza di profili di interesse pubblico.

Né la supposta variante/proroga incideva sui riscontrati termini.

2. Conclusivamente l’appello è del tutto privo di fondamento e va pertanto disatteso il che implica, ovviamente, la reiezione del connesso petitum risarcitorio.

3.Le spese processuali seguono la soccombenza e da ciò consegue la condanna l’appellante società al pagamento delle spese processuali del grado nella misura di Euro tremila (€ 3000,00) oltre accessori di legge, se dovuti in favore dell’appellata amministrazione comunale.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto,lo respinge.

Condanna l’appellante società al pagamento delle spese processuali del grado nella misura di Euro tremila (€ 3000,00) oltre accessori di legge, se dovuti in favore dell’appellata amministrazione comunale.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 26 marzo 2013

Redazione