Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 20 gennaio 2012 la Corte d’appello di Roma – a seguito di appello di D.A.A. avverso sentenza del Tribunale di Roma del 10 febbraio 2009 che lo aveva condannato alla pena di due mesi di reclusione ed euro 200 di multa per il reato di cui agli articoli 81 cp.. c.p. e 2 d.lgs. 463/1983 convertito in l. 638/1983, per aver quale legale rappresentante omesso nell’ottobre 2002, nel dicembre 2002, nel gennaio 2003 e nell’ottobre 2003 il versamento all’lnps delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti della San Marco Costruzioni S.r.l. per un importo complessivo di euro 5164,79 -, in riforma della sentenza di primo grado dichiarava prescritti i reati fino al gennaio 2003 e rideterminava la pena in un mese di reclusione ed euro 100 di multa.
2. Ha presentato ricorso l’imputato adducendo due motivi: il primo denuncia violazione di legge (articoli 42, 43 c.p. e 2 d.lgs. 463/1983) nonché vizio motivazionale in quanto la corte territoriale avrebbe in sostanza attribuito all’imputato colpa anziché il necessario elemento soggettivo doloso; il secondo, ancora come violazione di legge e vizio motivazionale, lamenta che la corte non ha ritenuto pertinente, in relazione a una malattia dell’imputato, l’applicabilità dell’articolo 54 c.p. senza motivare al riguardo.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
3.1 Il primo motivo, quale violazione di legge e vizio motivazionale, adduce che la corte territoriale ha motivato nel senso che l’obbligo dell’imputato nasceva dalla sua posizione di legale rappresentante della società che, a prescindere dalle sue condizioni di salute per cui comunque non aveva rinunciato all’incarico, continuava ad operare, rilevando altresì che il versamento delle ritenute è un atto semplice cui l’imputato avrebbe potuto provvedere anche solo mettendo a disposizione la provvista al commercialista della società; in realtà il mancato pagamento sarebbe stato originato dallo stato di dissesto della società, di lì a poco fallita, avendo lo stesso imputato dichiarato “quando potevo, pagavo”. In questo modo la sentenza d’appello avrebbe “confuso l’elemento soggettivo della colpa con quello del dolo”: avendo tratteggiato gli elementi della colpa nei reati omissivi, pur esigendo l a fattispecie di cui all’articolo 2 d.lgs. 463/1983 il dolo generico.
Il motivo è manifestamente infondato. Proprio perché la fattispecie contestata richiede il dolo generico, essendo questo integrato semplicemente dalla “consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti” (da ultimo Cass. sez. III, ord. 19 settembre 2012 n. 40365), vale a dire “esaurendosi con la coscienza e volontà della omissione o della tardività del versamento delle ritenute” (Cass. sez. III, 18 novembre 2009-19 gennaio 2010 n. 2354), quanto si evince dalla motivazione della sentenza impugnata è la rappresentazione, proprio, di una consapevole e volontaria omissione dei versamenti da parte dell’imputato. Non è certo sufficiente ad elidere tale volontarietà per convertire l’elemento soggettivo in colpa, in particolare, la situazione di dissesto della società, poiché la volontarietà della omissione non viene meno perchè il datore di lavoro sta attraversando una fase di criticità economica (Cass. sez. III, 19 gennaio 2011 n. 13100). Sul piano strettamente motivazionale, poi, si ricorda che, una volta accertata la volontarietà della omissione nella quale consiste il dolo generico, non è necessaria neppure una esplicita motivazione sull’esistenza del dolo, desumibile già di per sé dall’omesso versamento (Cass. sez. III 15 novembre 2007 n. 47340).
3.2 Il secondo motivo imputa alla sentenza la violazione dell’articolo 54 c.p. nonché dell’articolo 2 d.lgs. 463/1983, con correlato vizio motivazionale, per avere ritenuto il richiamo dell’appellante all’articolo 54 c.p. non pertinente “in difetto palese degli elementi caratteristici dell’istituto invocato”. Su ciò in effetti la corte non avrebbe motivato. In realtà, proprio quanto rilevato dalla corte in ordine alla sussistenza del dolo generico nel caso in esame ha comportato in concreto anche l’esclusione della fattispecie dello stato di necessità. Questo, infatti come lo stesso motivo evidenzia, attiene al “pericolo attuale di un danno grave alla persona” e, secondo il ricorrente, si sarebbe verificato per la grave situazione patologica da cui egli era affetto. Ma la corte, come sopra si è già riportato, ha constatato sia che l’imputato, nonostante la sua situazione fisica, non aveva neppure rinunciato alla sua posizione di legale rappresentante della società, sia che la società continuava ad essere attiva, sia che l’adempimento dell’obbligo di versamento si sarebbe realizzato semplicemente con la messa a disposizione del commercialista del denaro: tutto questo esclude che l’adempimento dell’obbligo di versamento ponesse l’imputato nel rischio di un danno grave alla sua persona, costituendo una motivazione implicita (cfr. Cass. sez. IV, 13 maggio 2011 n. 26660 e Cass. sez. VI, 4 maggio 2011 n. 20092) ma inequivoca anche sul profilo dell’articolo 54 c.p. addotto dall’appellante.
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile (il che impedisce, non consentendo il formarsi di un valido rapporto processuale di impugnazione, di valutare la presenza di eventuali cause di non punibilltà ex articolo 129 c.p.p.: s.u. 22 novembre 2000 n. 32, *******; in particolare, l’estinzione del reato per prescrizione è rilevabile d’ufficio a condizione che il ricorso sia idoneo a introdurre un nuovo grado di giudizio, cioè non risulti affetto da inammissibilità originaria come invece si è verificato nel caso de qua: ex multis v. pure S.U. 11 novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21, ******; S.U. 3 novembre 1998 n. 11493, *****; s.u. 22 giugno 2005 n. 23428, *******; Cass. sez. III, 10 novembre 2009 n. 42839, ***************), con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.