Danno non patrimoniale: al dirigente «demansionato» va riconosciuto il diritto al risarcimento del danno alla professionalità (Cass. n. 7667/2013)

Redazione 27/03/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza depositata in data 21 gennaio 2009, la Corte d’appello di Napoli ha accolto parzialmente l’appello principale proposto da Telecom Italia s.p.a. e respinto l’appello incidentale del dirigente di tale società B.G. avverso la decisione del giudice di primo grado nella causa promossa da quest’ultimo per ottenere la dichiarazione di nullità per motivo illecito, o, in via subordinata, per la mancanza della contestuale motivazione del licenziamento comunicatogli con lettera del 10 agosto 2001, o, in ulteriore subordine, la dichiarazione di ingiustificatezza dello stesso (con le conseguenze relative ad ognuna di tali ipotesi) nonchè la condanna della società a risarcirgli il danno alla professionalità, biologico e alla salute conseguente all’intervenuto demansionamento dall’1 febbraio 2000 e ad una condotta della società qualificata come mobbing. In particolare e per quanto qui interessa, la Corte territoriale ha escluso che il licenziamento del dirigente B. sia stato determinato da un motivo illecito; ha ritenuto che l’assenza di una motivazione contestuale dell’indicato licenziamento non abbia inciso sulla sua efficacia, ma “al più” sulla sua giustificatezza, interpretando peraltro la norma contrattuale collettiva che disciplina la materia nel senso che la mancanza di motivazione contestuale non determina automaticamente tale ingiustificatezza, ben potendo questa essere valutata, come sussistente o non, in sede di collegio arbitrale ivi previsto, sulla base dei motivi ivi addotti dal datore di lavoro; ha ritenuto ingiustificato il licenziamento, non avendo la società provato i fatti dalla stessa addotti a sostegno dello stesso; ha condannato conseguentemente la società a pagare al dipendente l’indennità supplementare contrattualmente prevista nella ricorrenza di tale ipotesi, determinandola nell’equivalente di 18 + 2 mensilità dell’ultima retribuzione.

Infine, accertata la dequalificazione del dipendente a far data dal 1^ febbraio 2000 e fino alla data del licenziamento (ma non il denunciato comportamento di c.d. mobbing da parte della società in danno del B.), la Corte ha confermato la decisione di primo grado di condanna della società a risarcire al dirigente i danni biologico e alla professionalità in tale sede liquidati, rigettando ogni altra domanda svolta dal B. (che aveva dichiarato di non accettare l’indennità sostitutiva del preavviso invocando la natura “reale” di tale istituto; aveva altresì chiesto che l’efficacia del licenziamento fosse comunque sospesa dal suo stato di malattia e aveva chiesto la determinazione in misura massima dell’indennità supplementare contrattualmente prevista in caso di licenziamento ingiustificato).

Avverso tale sentenza, la s.p.a. Telecom Italia ha notificato in data 20-26 gennaio 2010 ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Resiste alle domande della società B.G. con rituale controricorso, proponendo contestualmente ricorso incidentale, con tre motivi, contrastati da Telecom s.p.a. con controricorso.

Motivi della decisione

1 – I due ricorsi, principale e incidentale vanno preliminarmente riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c., avendo ad oggetto una medesima sentenza.

1.1 – Col primo motivo, la ricorrente principale denuncia l’insufficiente motivazione della sentenza laddove la Corte aveva valutato come non provata la soppressione della posizione lavorativa del B., addotta dalla società a giustificazione del licenziamento.

La Corte d’appello avrebbe infatti ritenuto che, pur in conseguenza della ristrutturazione aziendale che aveva comportato l’abolizione delle filiali della società, tra le quali quella di (OMISSIS) diretta dal B., tale struttura era rimasta operativa continuando a integrare una articolazione che richiedeva comunque la preposizione di un dirigente, scelto dalla società nella persona del Dr. C..

Tale valutazione della Corte era fondata sul richiamo di due testimonianze in realtà tra di loro contraddittorie, senza che i giudici avessero espresso le ragioni per le quali avevano privilegiato su quelle del teste R. quelle del teste D..

Il motivo è infondato.

Esso è infatti anzitutto sostenuto col richiamo solo parziale, sull’argomento, delle dichiarazioni dei due testi, sicchè non appare pienamente possibile in questa sede valutarne la dedotta determinante contraddittorietà.

Inoltre, anche le argomentazioni della Corte territoriale sono richiamate in ricorso in maniera parziale. La Corte napoletana non ha infatti affermato che dopo la ristrutturazione la struttura originaria sia ciononostante rimasta intatta, ma ha fondato le proprie valutazioni anche sull’accertamento del fatto che “dopo la revoca al B. dell’incarico di dirigente della struttura di (OMISSIS), presso quest’ultima venne inviato, in qualità di responsabile, il dirigente già preposto alla filiale di (OMISSIS), il quale, con riferimento al settore commerciale e a quello tecnico…” e quindi con riguardo ad una parte ridotta della struttura ma pur sempre necessitante di un dirigente, “rimasti in piedi anche all’esito della riorganizzazione, svolse le medesime mansioni già svolte dal B.”.

Inoltre e comunque si rileva che la Corte territoriale ha, in qualche modo, espresso la sua valutazione di maggiore attendibilità del teste D., col rilevare, sia pure tra parentesi, l’imprecisione di alcuni riferimenti temporali contenuti nelle parzialmente diverse dichiarazioni del teste R..

1.2 – Col secondo motivo, la difesa della società deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., in punto di accertamento dell’esistenza di un danno professionale arrecato al B. dal demansionamento avvenuto nel febbraio del 2000.

In proposito, infatti, la Corte territoriale avrebbe fatto solo formale ossequio ai principi elaborati dal questa Corte (Cass. n. 6572/2006) in materia di prova del danno professionale, nella specie asseritamente derivato al B. dal demansionamento, valorizzando come presunzioni, che devono essere gravi, precise e concordanti, dati del tutto generici ed estrinseci, non radicati sulla specifica realtà professionale del soggetto preso in considerazione.

Anche il secondo motivo è infondato.

Va premesso che secondo la ormai costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 6572/06 e più recentemente, Cass. nn.29832/08 o 19785/10), il danno professionale conseguente ad un demansionamento (quale possibile componente sia di un danno patrimoniale, anche in termini di perdita di chances, sia di un danno non patrimoniale) deve essere provato da chi lo deduce per chiederne il risarcimento e che tale prova può essere data, ai sensi dell’art. 2729 c.c., anche e soprattutto quando trattasi di danno non patrimoniale attraverso l’allegazione, quali presunzioni aventi i caratteri della gravità, precisione e concordanza, di elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.

Nel caso in esame, la Corte territoriale, valorizzando il tipo di formazione professionale dell’ingegner B. e la brillante carriera svolta presso la società, ha poi ragionevolmente desunto dalla forzata inattività dello stesso per oltre un anno, nello stesso ambiente lavorativo che lo aveva visto protagonista e primo responsabile nel periodo precedente e in un settore, quello delle telecomunicazioni in rapida evoluzione, l’esistenza e l’entità della conseguente motificante perdita di professionalità e di immagine professionale, riguardate come componenti di un grave danno non patrimoniale.

Le diverse valutazioni della ricorrente, in parte fuori centro, in quanto riferite ad un danno patrimoniale e in parte meramente assertive o frutto di una mera diversità di giudizio, appaiono pertanto comunque infondate.

2.1 – Col primo motivo di ricorso incidentale, B.G. censura la sentenza per violazione degli artt. 1362, 1363 e 1367 c.c. nella interpretazione degli artt. 22 e 19 del C.C.N.L. dirigenti industria del 23 giugno 2000, “laddove ha ritenuto che la mancata contestuale motivazione del recesso, pur se prescritta obbligatoria, non produrrebbe alcuna conseguenza”.

Nonostante l’imprecisione della rubrica, col motivo in esame il ricorrente sostiene anzitutto che alla violazione della regola della “contestuale motivazione” del licenziamento, voluta dall’art. 22, comma 2 del C.C.N.L. citato, consegue l’ingiustificatezza di questo, per gli effetti indicati dall’art. 19 del medesimo contratto (condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità supplementare ivi prevista).

Fin qui il motivo appare privo di conseguenze sul piano del dictum contenuto nella sentenza impugnata, la quale ha comunque ritenuto ingiustificato nel caso in esame il licenziamento, condannando la società pagare al B. l’indennità supplementare nella misura corrispondente a 18 + 2 mensilità.

Aggiunge peraltro il ricorrente incidentale che tale indennità, in caso di mancata contestuale motivazione del licenziamento, dovrebbe essere determinata nella misura massima, che nel caso di specie ammonterebbe a 22 + 2 mensilità.

Tale deduzione viene formulata in maniera apodittica, senza alcuna argomentazione di sostegno ed appare pertanto inammissibile.

In ogni caso, se il ricorrente ha voluto sostenere che, in mancanza di contestuale motivazione, le ragioni del licenziamento non possono incidere sulle valutazioni relative alla eventuale graduazione dell’indennità supplementare tra un minimo e un massimo, resterebbe comunque la possibilità di altre valutazioni, quale l’età del dipendente, la sua professionalità, le condizioni economiche della società etc..

E comunque, come correttamente ricordato dalla Corte napoletana, questa Corte (Cass. n. 11691/05) ha già avuto modo di giudicare corretta e aderente ai canoni di cui all’art. 1362 c.c., e segg., l’interpretazione delle norme collettive invocate (art. 22, comma 2 e art. 19, comma 15 del C.C.N.L. applicato) nel senso che la mancanza di contestuale motivazione non impedisce al datore di lavoro di indicare le ragioni del licenziamento in sede di collegio arbitrale o in giudizio.

2.2 – Col secondo subordinato motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1362 e 1367 c.c. nella interpretazione degli artt. 22 e 19 del C.C.N.L. dirigenti industria del 23 giugno 2000, “nella quantificazione della misura dell’indennità supplementare conseguente all’ingiustificato licenziamento”, in quanto l’ingiustificatezza del licenziamento, aggravata dal comportamento persecutorio e dequalificatorio del datore di lavoro, avrebbe dovuto nel caso in esame essere sanzionata, secondo la valorizzazione degli “elementi che caratterizzano il caso” (art. 19, comma 15 del C.C.N.L.) con la misura massima dell’indennità.

2.3 – La difesa del ricorrente deduce infine il vizio di motivazione della sentenza impugnata quanto alla determinazione della indennità in misura inferiore a quella massima.

Ambedue i motivi sono infondati in quanto orientati a sovrapporre alle valutazioni della Corte territoriale in ordine a tutti gli elementi caratterizzanti il caso valutazioni diverse, ritenute preferibili, così chiedendo a questa Corte di legittimità non un controllo di coerenza e sufficienza di giudizi di fatto espressi dai giudici di merito, ma una nuova valutazione di quei medesimi fatti, come non è consentito dal nostro ordinamento processuale.

3 – Concludendo, riuniti i ricorsi, essi vanno respinti in base alle considerazioni svolte, con conseguente integrale compensazione tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, compensando le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2013.

Redazione