Danno da perdita del rapporto parentale (Trib. Brindisi, 26/10/2012) (inviata dal dott. A. I. Natali)

Redazione 26/10/12
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Massima

1) Morte – prossimi congiunti – danno iure proprio danno morale e danno da perdita del rapporto parentale – congiunta attribuzione – non ammissibile

  

E’ condivisibile il principio “contenitivo”, affermato dalle Sezioni Unite dell’11.11.2008, per cui da luogo a una duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione, al familiare della persona defunta (o gravemente lesa al punto da determinarne lo stato vegetativo o il coma), del danno morale e del danno da perdita del rapporto parentale, in quanto la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita dai familiari e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita non sono ontologicamente diverse e sottendono lo stesso disagio psichico e, dunque, la lesione del medesimo bene della vita.

 

  

2) Morte – prossimi congiunti – danno iure proprio danno biologico di tipo psichico e danno da perdita del rapporto parentale – congiunta attribuzione – ammissibile

  

Per contro, il danno morale che degeneri in pregiudizio alla sfera psichica – traducendosi in un danno di tipo biologico – non può essere considerato  un “mero doppione” del danno da “danno da perdita del rapporto parentale”, essendo indubbio come le suddette categorie descrittive di danno, sottendano interessi costituzionalmente garantiti, autonomi e distinti.

  

 

3) Sconvolgimento della vita familiare e delle abitudini di vita – prova – ricorso alla presunzione hominis – ammissibile

  

Ai fini probatori, è indubbio che il profondo sconvolgimento della vita familiare dei componenti del nucleo familiare e delle loro abitudini di vita non debba essere necessariamente oggetto di una prova ad hoc. Infatti,  lo stesso – sulla base dell’id quod plerunque accidit e in assenza di prova contraria – deve ritenersi eziologicamente riconducibile alla scomparsa della congiunta, essendo conforme alla comune esperienza che la morte di un figlio, a seguito di sinistro stradale – essendo tal ultimo legato, in vario modo e misura, ai componenti del nucleo di appartenenza – sia idonea a determinare la frattura traumatica delle relazioni sentimentali e affettive in atto al momento della morte, producendo  un’infinita serie di pregiudizi che si riflettono negativamente sull’esistenza dei prossimi congiunti successivamente alla morte del parente e che fanno si che la loro vita di relazione non sia più la stessa.

 

 

Il Tribunale di Brindisi, in persona del giudice *****  *******************, ha emesso la seguente

                                             S E N T E N Z A 

nella causa civile iscritta al n. 2325/08 del  **************  promossa

                                                        D A

L.M., in proprio e quale erede di M.M. e M.M.A., rappresentata e difesa dagli avv.ti OMISSIS

– RICORRENTI –

                                                      NONCHE’

M.A., in qualità di genitore esercente la potestà sul figlio minore M.F., rappresentato e difeso dagli avv. OMISSIS;

 

INTERVENUTO

CONTRO

F.T.

RESISTENTE

                                                     CONTRO

ALFA ASSICURAZIONI S.P.A., rappresentata e difesa dall’avv. OMISSIS;

                                                                                              – RESISTENTE –

                                                      CONTRO

BETA ASSICURAZIONI S.P.A. (GIÀBETA ASSICURAZIONI S.P.A.), QUALE IMPRESA DESIGNATA DAL FONDO GARANZIA VITTIME DELLA STRADA PER LA REGIONE PUGLIA, rappresentata e difesa dall’avv. OMISSIS;

                                                                                              – RESISTENTE –

                                              FATTO E DIRITTO

La domanda di parte attrice deve essere accolta, in parte qua, per le ragioni che seguono.

Deve premettersi che, in base alle risultanze penali, per le ragioni che si vanno ad esporre, deve affermarsi anche la paritaria responsabilità dell’attrice nella causazione del sinistro.

 

La soppressione della pregiudizialità penale e gli attuali rapporti fra giudizio civile e penale.

 

L’originaria opzione del legislatore per la pregiudizialità penale costituiva espressione dell’humus culturale che permeava la legiferazione del tempo, senza dubbio, ispirata al primato della giurisdizione penale su quella civile, e dunque alla priorità riconosciuta all’accertamento del fatto in ambito penalistico, non fosse altro che in ragione dei più intensi, e potenzialmente illimitati, poteri istruttori del giudice penale rispetto a quelli conferiti al giudice civile, vincolato non solo al principio della domanda, e, quindi, al principio dispositivo, ma anche al rispetto delle richieste istruttorie delle parti.

      Ed invero, principi cardini dell’ordinamento all’epoca vigente erano quelli dell’unitarietà della funzione giurisdizionale e della prevalenza della giurisdizione penale su quella civile; prevalenza che rinveniva la propria ragion d’essere nell’esigenza di evitare, nel superiore interesse alla certezza del diritto, giudicati contraddittori (art. 3 c.p.p. e 295 c.p.c.).

      In ragione di tali principi ispiratori era marcata la tendenza a spostare in sede penale l’accertamento del fatto che fosse anche fonte di responsabilità civile.

      Dalla disciplina del nuovo codice di procedura penale, si può agevolmente evincere che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unitarietà della giurisdizione, come invece avveniva per il c.p.p. del 1930.

Prevale, invece, un’impostazione ispirata al diverso valore  dell’autonomia di ciascun processo e della piena cognizione, da parte di ogni giudice, delle questioni giuridiche e di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione.

Consegue che, fatta eccezione per alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall’art. 75, terzo comma, del nuovo codice di procedura penale (azione promossa in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado), che trovano la propria ragion di essere in una circoscritta esigenza di raccordo delle due giurisdizioni; da un lato, il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e, dall’altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti (ex multis: Cass., 10.08.2004, n. 15477; Cass., 09.04.2003, n. 5530; Cass., sez. Unite., ord., 05.11.2001, n. 13682).

      Attualmente, e volendo distinguere fra ipotesi assolutoria e di condanna, l’efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile di danno è regolata dagli artt. 652 e 654 c.p.p. secondo i quali il giudicato penale di assoluzione (rispettivamente nell’ambito del giudizio civile di danni – nel caso dell’art. 652 c.p.p. – e nell’ambito degli altri giudizi civili nell’ipotesi di cui all’art. 654 c.p.p.) ha effetto preclusivo in sede civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato, e non anche quando l’assoluzione sia determinata dal diverso accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’art. 530 c.p.p., comma 2, (Cass. 20/09/2006, n. 20325;Cass. 1, 30/08/2004, 17401; Cass. 19/05/2003, 7765; Cass. 02/11/2000, 14328).
Ai fini della completezza dell’esposizione, si ricorda come, in applicazione del suddetto principio, l’accertamento, contenuto in una sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata perché il fatto non costituisce reato, non ha efficacia di giudicato, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., nel giudizio civile di danno, nel quale, in tal caso, compete al giudice il potere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio, e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale (Cass. 14/02/2006, n. 3193; Cass. 26/10/2004, n. 20751).

Infatti, la non qualificabilità di un fatto quale reato non ne implica, di per sé, l’inidoneità a produrre effetti risarcitori, perché posto in essere in violazione della regola del neminem laedere o di una pattuizione contrattuale.

Ne consegue che il giudicato penale di assoluzione produce gli effetti preclusivi previsti da tale norma, solo quando contiene un effettivo accertamento dell’insussistenza del fatto o dell’impossibilità di attribuirlo all’imputato e non quando l’assoluzione derivi geneticamente dalla mancanza di sufficienti elementi di prova in ordine al fatto  o all’attribuibilità materiale e/o psicologica di esso all’imputato.

Da ciò la ragion d’essere del principio per cui “il giudice civile deve tenere conto anche della motivazione della sentenza penale, per individuare l’effettiva ragione dell’assoluzione dell’imputato, al fine di stabilire (a prescindere anche dalla formula assolutoria, eventualmente tecnicamente inesatta, indicata nel dispositivo) l’incidenza del giudicato penale nel giudizio civile (Cass. 26 giugno 19 71 n. 2048, cit., 12 novembre 1985 n. 5523, 20 maggio 1987 n. 4622)” (Cass.  4775/04).

Quanto alla sentenza penale di condanna, qual è quella agli atti, è noto come tal ultima, come fatto oggettivo, costituisce l’elemento pregiudiziale per la pronuncia di risarcimento del danno in sede civile.

Invero, il sistema dell’autonomia del processo penale da quello civile introdotto dal nuovo codice di procedura penale, che non ha riprodotto la norma di cui all’art. 3, comma 2 del codice abrogato, non ha inciso su tale norma.

Orbene, quanto all’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile risarcitorio, come espressamente previsto dall’art. 651 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento del danno quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, con esclusione della colpevolezza il cui esame è autonomamente demandato al giudice civile (Cass. 8 gennaio 1999 n. 11283).

 

     Una volta affermata l’autonomia tra il giudizio civile e quello penale, il giudice civile deve accertare la fattispecie costitutiva della responsabilità aquiliana, posta al suo esame, con i mezzi suoi propri e, quindi, con i mezzi di prova offerti al giudice dal rito civile per la sua decisione.

      Tra questi mezzi sono annoverabili, non solo la presunzione, legale o non, ma addirittura anche le c.d. “prove legali”, in cui la legge deroga al principio del libero convincimento del giudice (artt. 239 c.p.c., artt. 2700, 2702, 2705, 2709, 2712, 2713, 2714, 2715, 27120, 2733; 2734, 2735, 2738 c.c.).

      D’altronde, il consolidato orientamento giurisprudenziale – che escludeva la risarcibilità del danno non patrimoniale, allorquando la responsabilità dell’autore materiale del fatto illecito fosse stata affermata non già in base all’accertamento concreto dell’elemento psicologico (cioè almeno la colpa), ma in base a presunzioni normative, quali quelle stabilite dagli artt. 2050 a 2054 c.c. – è stato modificato dalla più recente giurisprudenza di legittimità.

  Pertanto, può considerarsi acquisito il principio per cui non osta alla risarcibilità del danno non patrimoniale il mancato positivo accertamento della colpevolezza dell’autore del danno, se essa debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge (come l’art. 2054 c.c. al quale è riconducibile la fattispecie concreta) e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato (Cass., 12.05.2003, n. 7281).

Peraltro, il principio della risarcibilità del danno non patrimoniale, derivante da reato, anche in assenza di un accertamento, in concreto, della colpa del reo, deve essere esteso anche all’ipotesi in cui la responsabilità sia costruita sul modello dell’imputazione oggettiva dell’evento dannoso come nell’ipotesi di cui all’art. 2050 c.c. o di cui all’art. 2051 c.c..

Orbene, nel caso di specie, deve ritenersi già accertato, in sede penale, il fatto causativo del danno e sulla base degli elementi emersi, nel corso del giudizio penale, deve ritenersi l’addebitabilità dello stesso in pari misura (33,3) al Tagliente, al conducente del veicolo non identificato e alla stessa M..

In particolare, alla sig.ra M. devono essere addebitate le violazioni dell’art. 140, dell’art. 141 commi 1,2 e 3 perché procedeva ad una velocità di 90 Km. orari e dell’art. 172 C.d.S. commi 5,6,e 8 per avere trasportato, i bambini tutti di età inferiore ai tre anni, senza essere trattenuti da appositi sistemi di sicurezza.

Per contro, deve essere affermata la responsabilità del Tagliente che procedeva ad una velocità di 80 Km. orari (invece, di quella di 50 Km. orari) ed, infine, dell’automobilista della autovettura Fiat Punto grigia, non identificata, che non aveva concesso la precedenza alla sig.ra M. nell’effettuare la svolta a sinistra.

Orbene, l’affermazione della responsabilità del ********* e del conducente rimasto ignoto determina la condanna, in solido, delle società convenute al risarcimento dei seguenti danni subiti e richiesti dagli  attori in conseguenza dell’evento:

a)    danno non patrimoniale, sub specie di danno biologico iure proprio

E’ noto come le Sezioni Unite dell’11.11.2008 abbiano degradato il danno biologico a mera componente descrittiva della più ampia categoria del danno non patrimoniale.

Esso va inteso come menomazione dell’integrità psico-fisica in sè considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione.

Tale voce di danno – come precisato dalla Corte Costituzionale, n. 184/’86 – non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza del danneggiato, con il conseguente paradosso, al contempo, dell’irrisarcibilità del danno biologico, subito da chi sia sprovvisto di un’attività lavorativa e della commisurazione del danno all’occupazione del soggetto o, persino – secondo un’inammissibile visione della società, rigidamente ripartita per classi –  del padre.

Come espressamente affermato anche dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, per danno biologico, deve, invece, intendersi “la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.

Ciò premesso, il danno biologico consistente nella violazione dell’integrità psico-fisica della persona va considerato ai fini della determinazione del risarcimento, sia nel suo aspetto statico (diminuzione del bene primario dell’integrità psico-fisica in sè e per sè considerata) sia nel suo aspetto dinamico (manifestazione o espressione quotidiana del bene salute e, a tal riguardo, è evidente la rilevanza del c.d. pregiudizio estetico).

 

Orbene, l’espletata consulenza medico-legale, ha consentito di acclarare la entità delle lesioni riportate dall’attrice e dal figlio di questa.

Il Ctu ha accertato che, in conseguenza dell’illecito de quo, la M. e  M.F. hanno subito lesioni permanenti nella misura, rispettivamente, del 15 % e del 2 %; inoltre, la madre avrebbe riportato un’inabilità temporanea al 100%, per gg. 180; al  50% per gg. 90, il figlio una ITT di due giorni.

Le conclusioni del medico legale sul danno non patrimoniale di tipo biologico sono condivise dal Tribunale, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta, valutata con criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici.

Quanto all’ulteriore figura descrittiva del danno non patrimoniale di tipo morale, tal ultimo consiste, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale (sent. 14 luglio 1986 n. 184), nelle ingiuste perturbazioni dell’animo, o nelle sensazioni dolorose, che derivano al danneggiato a cagione di un illecito.

Tradizionalmente, con l’espressione “danno morale” si indicano le sofferenze, il dolore (fisico o psichico) che può provarsi per una ferita, per una malattia, per la perdita di una persona cara, per un’ingiuria, ecc..

 Peraltro, le Sezioni Unite del 2008, hanno disancorato  tale voce di danno dal dato temporale, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il danno morale deve essere necessariamente transeunte. D’altra parte, la suddetta figura descrittiva, invero non priva di solidi riscontri nella prassi giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, dal momento che, né l’art. 2059 c.c. né l’art. 185 c.p. si esprimono, genericamente, in termini di danno morale, né ne circoscrivono la rilevanza alle ipotesi di transitorietà.

Inoltre, tale ricostruzione del danno morale  era inidonea anche ad assicurare adeguati margini di tutela. Infatti, la sofferenza morale cagionata dal reato – lungi dall’essere necessariamente transeunte – ben può protrarsi anche per lungo tempo.

Sotto il profilo quantificatorio, si tratta, comunque, di un danno che non consente alcuna misurazione precisa e, pertanto, l’entità del risarcimento non può che essere determinata equitativamente dal giudice, tenendo conto della gravità del fatto e della rilevanza delle conseguenza che ne sono derivate.

Come noto, il legislatore esclude che il danno non patrimoniale sia, di regola, risarcibile, e ne ammette la risarcibilità, in via eccezionale, nei  soli casi previsti dalla legge (art. 2059). Tra questi, il più importante è quello prevista dall’art. 185.2 c.p., che stabilisce la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da reato.

Al riguardo, le Sezioni Unite del 2008 hanno avuto modo di precisare come, in virtù  dell’ampia accezione del danno non patrimoniale -ricorrendo una fattispecie di  reato –  é risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale eziologicamente riconducibile alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come accade, nel caso, appunto, di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche qualunque pregiudizio areddituale (e, quindi, anche la sofferenza derivante eziologicamente dal non poter più fare), anche se derivante dalla lesione di un interesse privo di rilievo costituzionale, purché suscettibile di superare il generale vaglio di meritevolezza ex art. 2043 c.c..

Ciò in quanto la tipicità, in questo caso, non dipende soltanto dal rango dell’interesse protetto e dall’esistenza di una disposizione costituzionale posta a suo difesa, ma dalla stessa previsione legislativa de qua, idonea a fondare la risarcibilità di tutti i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Dunque, nell’ipotesi di reato, assume dignità risarcitoria l’impossibilità (totale o parziale) di svolgere una qualunque delle attività realizzatrici della persona, quand’anche non ne sia possibile un ancoramento costituzionale (attività ludiche, sportive, ricreative…..).

Ciò premesso, quanto al rapporto con  la diversa figura descrittiva del danno biologico,  le Sezioni Unite precisano che – per rimanere nei limiti del danno morale – deve, tuttavia, trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, e non configurarsi quale mera componente di un più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorrerebbe la prima fattispecie  laddove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo patito ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale o dal familiare della vittima di lesioni e, per contro, non ricorrano degenerazioni patologiche della sofferenza. Qualora, invece, ricorrano siffatti esiti patologici, si rientrerebbe nell’area del danno biologico, nell’ambito del quale dovrebbe essere ricondotta ogni sofferenza, fisica o psichica.

 

Dunque, darebbe luogo ad un’ingiustificata  duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale – appunto, ricondotto nel danno biologico di matrice psichica di cui costituirebbe mera componente costitutiva.

Ciò non vuol dire che il danno morale, quando sia assorbito da quello biologico, rimanga senza tutela.

 Infatti, secondo le Sezioni Unite, sotto il profilo della liquidazione, il giudice dovrebbe – qualora si avvalga delle note tabelle – procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, provvedendo a valutare, nella loro effettiva consistenza, le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Orbene,  non può accedersi alla tesi – frutto di un’interpretazione riduttiva e “miope” delle Sezioni Unite, secondo cui il danno morale, nell’ipotesi di una sua derivazione “biologica” non sarebbe voce autonomamente risarcibile, rispondendo le due figure descrittive alla tutela di beni giuridici distinti, come, peraltro, evincibile anche dalle scelte della legislazione speciale. Tal ultima, spesso, (si pensi, ad esempio, al Decreto del Presidente della Repubblica 30 ottobre 2009, n. 181 che introduce un Regolamento recante i criteri medico-legali per l’accertamento e la determinazione dell’individualità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell’articolo 6 della legge 3 agosto 2004, n. 206) non solo continua a  distinguere le due categorie di danno ma contiene  una nozione legale di danno morale.

Ciò premesso, nel caso di specie, astrattamente è ravvisabile una fattispecie di reato (quella delle lesioni colpose) idonea come tale a cagionare un danno non patrimoniale di tipo morale.

Si ritiene opportuno applicare, ai fini della liquidazione del solo non patrimoniale danno materno – venendo in rilievo lesioni macropermanenti, superiori complessivamente al 10 per cento – le tabelle di Milano, in quanto strutturate e concepite – diversamente dalle attuali Tabelle di Lecce –  in funzione del nuovo inquadramento concettuale del danno non patrimoniale, quale categoria unitaria, cui sono approdate le Sezioni Unite dell’11.11. 2008.

Né la maggiore o minore diffusione delle stesse presso i tribunali locali – a fronte della prevalenza statistica delle tabelle milanesi sul territorio nazionale – può costituire ragione sufficiente ad impedirne l’applicazione nel caso di specie.

D’altronde, come affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza del 2011, n. 12408, alle tabelle milanesi deve riconoscersi “una sorta di vocazione nazionale”, anche perché, coi valori da esse tabellati, esprimono il valore da ritenersi “equo”, e cioe’ quello in grado di garantire la parita’ di trattamento e da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l’entita’.

Ciò, al punto che l’applicazione delle suddette tabelle sarebbe oggetto di un vero e proprio uso “paranormativo”.

Le nuove Tabelle – approvate il 28 aprile 2009 e aggiornate nel 2011 –  presentano profili di innovatività rispetto alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno permanente da lesione all’integrità psico-fisica. Infatti, esse individuano il nuovo valore del c.d. “punto” muovendo dal valore del “punto” delle Tabelle precedenti (connesso alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d. danno biologico permanente), aumentato in riferimento all’inserimento nel valore di liquidazione “medio” anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla “sofferenza soggettiva”di una percentuale ponderata (dall’1 al 9% di invalidità l’aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34 % di invalidità l’aumento è progressivo per punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l’aumento torna ad essere fisso al 50%), e prevedendo inoltre percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d. personalizzazione.

Applicando le predette tabelle, il danno da invalidità permanente subito dall’attrice deve essere quantificato in euro:

–              € 44.079,00 (che discendono dal valore del “punto”, relativo al danno non patrimoniale (ovvero € 2.233,68), moltiplicato per il numero dei punti di invalidità (15), applicato il demoltiplicatore correlato all’età, al momento dell’evento lesivo, pari a 24 anni).

–              In considerazione dell’afferenza del danno non patrimoniale sia alla sfera psichica sia a quella fisica – e, quindi, della sua plurima idoneità offensiva – si ritiene equo accordare, ai fini di una personalizzazione, della misura risarcitoria. la complessiva somma di euro 47.000.

–              Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilità temporanea, in applicazione dei suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità assoluta è pari ad euro 91,00, si quantifica in:

a)          €  16380,00, l’ITT, giorni 180:

b)          €  8190,00,00 l’I.T.P. al 50% giorni 90, per complessivi euro 24.570,00.

In totale, per i danni su indicati andrebbero liquidati all’attrice complessivi € 71.570,00 che derivano dalla liquidazione complessiva del pregiudizio.

Per contro, il danno da invalidità permanente subito da M.F. – da liquidarsi, “allo stato dell’arte”, secondo i più restrittivi parametri delle tabelle allegate all’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, aggiornate con Decreto Ministeriale del 15.6.2012  – deve essere quantificato in euro € 1723,33 per quanto concerne i rilevati postumi permanenti e in euro 91.40 per quanto riguarda l’inabilità temporanea totale.

In totale, per i danni su indicati andrebbero liquidati al M. complessivi € 1814.73 che derivano dalla liquidazione complessiva del pregiudizio.

 

Danno non patrimoniale, sub specie di danno morale iure proprio e di c.d. danno da perdita del rapporto parentale.

 

Peraltro, sotto altro profilo, le Sezioni dell’11-11.08, nell’ancorare la risarcibilità del danno non patrimoniale all’indefettibile presupposto del rilievo costituzionale del bene leso, hanno ammesso la risarcibilità di tale voce di danno nel caso di uccisione di un congiunto.

Il suddetto fondamento viene rinvenuto negli artt. 2-29-30 Cost. Secondo le Sezioni Unite,  “la perdita di un congiunto provoca uno sconvolgimento della vita familiare (c.d. danno da perdita del rapporto parentale)” e “tale pregiudizio di tipo esistenziale, poiché conseguente alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia, è risarcibile”.

Orbene, secondo le Sezioni Unite, darebbe luogo a una duplicazione del risarcimento – e le ragioni logiche di tale assunto sono immediatamente evincibili – la congiunta attribuzione, al familiare della persona defunta o gravemente lesa al punto da determinarne lo stato vegetativo o il coma, del danno morale, inteso così come già evidenziato, e del danno da perdita del rapporto parentale

Infatti, la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita dai familiari e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita non sono ontologicamente diverse e sottendono lo stesso disagio psichico; disagio, eventualmente, idoneo a dare luogo ad una patologia medica,  e in tal caso – seguendo il ragionamento delle Sezioni Unite – si sarebbe nell’ambito del danno non patrimoniale di tipo biologico. 

Ne discende una forte compressione dell’ambito operativo del danno morale soggettivo in favore, da un lato, del danno biologico e, dall’altro, del danno da perdita del rapporto parentale, a loro volta, mere  figure descrittive dell’unica categoria concettuale del danno non patrimoniale.

Nondimeno, le conclusioni delle Sezioni Unite sono, sul punto, censurabili.

Infatti, il danno morale, “confluito” nel pregiudizio alla sfera psichica e, quindi, tradottosi in un danno di tipo biologico, non può essere considerato  un “mero doppione” del danno da “danno da perdita del rapporto parentale”, essendo indubbio come le suddette categorie descrittive di danno, sottendano interessi costituzionalmente garantiti, autonomi e distinti.

Per contro, si deve condividere la pronuncia quando  afferma che il risarcimento del cd. “danno da perdita del rapporto parentale” debba essere considerato idoneo ad assorbire il c.d pretium doloris che non trasmodi in danno biologico.

Ai fini probatori, è indubbio che il profondo sconvolgimento della vita familiare dei componenti del nucleo familiare e delle loro abitudini di vita non debba essere necessariamente oggetto di una prova ad hoc.

Infatti,  lo stesso – sulla base dell’id quod plerunque accidit e in assenza di prova contraria – deve ritenersi eziologicamente riconducibile alla scomparsa della congiunta.

D’altra parte, è conforme alla comune esperienza che la morte di un figlio, a seguito di sinistro stradale – essendo tal ultimo legato, in vario modo e misura, ai componenti del nucleo di appartenenza – sia idonea a determinare la frattura traumatica delle relazioni sentimentali e affettive in atto al momento della morte, producendo  un’infinita serie di pregiudizi che si riflettono negativamente sull’esistenza dei prossimi congiunti successivamente alla morte del parente e che fanno si che la loro vita di relazione non sia più la stessa (Trib. Napoli, 12 febbraio 2002).

Nel caso di specie, deve, dunque, riconoscersi il diritto dei prossimi congiunti al risarcimento del cd. “danno da perdita del rapporto parentale” che deve considerarsi “assorbente” rispetto al c.d pretium doloris.

A tale titolo – considerato, da un lato, i valori indicati dalle suddette tabelle di Milano, così come che il punto del danno non patrimoniale ricomprende, in sé, la liquidazione del c.d. danno morale c.d. “di base”, normalmente accompagnantisi a ciascuna tipologia di lesione, agli attori devono essere riconosciuti rispettivamente euro:

a)         280.000 (per ciascun figlio prematuramente scomparso), per quanto concerne l’attrice madre, per complessivi euro 540.000. Ciò, anche in considerazione del fatto che l’età di essa al momento del sinistro (24 anni) le ha consentito di percepire in tutta la sua virulenza e drammaticità l’evento traumatico consistito nella morte prematura, per causa non naturale, dei due figli ancora in tenera età. D’altra parte, proprio la sua giovane età, se rapportata a quella dei figli scomparsi, consente di affermare che, nel caso di specie sia stato reciso un legame affettivo, di particolare intensità, qual è quello fra madre e figlio, destinato a protrarsi nel tempo, per un lasso di tempo apprezzabile e che, in applicazione di una regola di esperienza, fondata sulla vita media delle donne, può individuarsi fra i  40 e i 60 anni;

b)         120.000 (per ciascun fratello) per quanto concerne il figlio M.F..  Ciò in considerazione del fatto che. nel caso di specie, data l’età del medesimo al momento del sinistro (anni 4), a venire in rilievo non è tanto la lesione di una relazione affettiva-sentimentale attuale, quanto l’elisione della legittima aspettativa ad intrattenere quel legame che, abitualmente,  intercorre fra due fratelli o sorelle.

Dunque, il danno subito dalla M. deve essere quantificato in complessivi euro 631.570; quello del figlio in euro 241.814.73.   Nondimeno, l’entità economica, da liquidarsi in favore della prima,  deve essere diminuita del 33,3 per cento in considerazione della summenzionata efficienza causale della condotta dell’attrice nella causazione del sinistro, per residui euro 420625,62; dai quali va detratta qualunque altra somma percepita a titolo di provvisionale o di “anticipo” dai convenuti di questo giudizio così come da terzi soggetti.  

Per quanto concerne il M. allo stesso devono essere riconosciuti euro 241.723,33; dai quali va detratta qualunque altra somma percepita a titolo di provvisionale o di “anticipo” dai convenuti di questo giudizio così come da terzi soggetti. 

 

 Essendo stato il danno liquidato alla stregua di criteri e valori aggiornati al 2011 ed essendo le somme in precedenza indicate già espresse in moneta al valore attuale, non va accordata la rivalutazione alla data attuale, che darebbe luogo ad un’indebita duplicazione del risarcimento.

Nondimeno, vanno applicati sulla medesima somma vanno computati gli interessi, che hanno natura compensativa e decorrono dal giorno in cui si è verificato l’evento, ovvero dal 23.6.03  (Cass. 23 febbraio 2005, n. 3747; Cass. 26 febbraio 2004, n. 3871; Cass. 17 settembre 2003, n. 13666).

Ritiene questo giudice che, al di là del profilo relativo alla configurabilità di una responsabilità per mala gestio, nel caso di specie, sia dirimente il principio – di recente ribadito dalla Suprema Corte – per il quale in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli e di natanti, per persona danneggiata, ai sensi della L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 21, deve intendersi non solo la vittima diretta dell’incidente, ma anche i prossimi congiunti, o ogni altro soggetto, avente causa dalla stessa, che dal sinistro stradale occorso a tale vittima primaria, abbia subito un danno.

Ne consegue che i danni de quibus non devono necessariamente essere soddisfatti tutti nell’ambito del massimale previsto per ogni singola persona, ma il limite del risarcimento è, distintamente per ciascun danno, quello previsto per ciascuna persona danneggiata, fermo nel complesso il massimale per singolo sinistro (c.d. massimale catastrofale) (Cassazione Civile, Sezione III, Sentenza 04-09-2012, n. 14818).

I danni, dunque, non devono essere liquidati, tutti, nel limite del massimale previsto per ogni persona, ma devono essere calcolati distintamente per ciascun danneggiato, con l’unico limite costituito dal rispetto del “massimale catastrofale”.

 

Del resto, è la funzione economico-sociale dell’assicurazione obbligatoria (e del fondo di garanzia per le vittime della strada) che impone di prendere in considerazione «non soltanto la vittima primaria, che subisce sulla propria persona la lesione fisica, ma anche gli altri soggetti, che, per il particolare legame a tale vittima primaria, abbiano subito la lesione di un proprio diritto».

Tale principio é stato affermato dal in relazione ai sinistri anteriori al 1993  dalle Sezioni unite n. 15376/2009.

 Invero,  la suddetta questione ha perso parte della sua valenza a seguito delle modifiche normative intervenute con il D.P.R. 19 gennaio 1993, a decorrere dall’1.5.1993 ed attualmente dal D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, (Codice delle assicurazioni private).

Infatti, il D.P.R. del 1993 ha previsto che i minimi di garanzia per l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti fossero stabiliti “per ciascun sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime o dalla natura dei danni”, per le somme indicate nella tabella modificata. Tale previsione era stata dettata dalla legge (di attuazione di direttiva comunitaria) 19.2.1992, n. 141, che all’art. 30, comma 1, espressamente stabiliva che “Per l’adempimento dell’obbligo di assicurazione per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, il contratto deve essere stipulato per somme non inferiori, per ciascun sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime o dalla natura dei danni, a quelle fissate con decreto del Presidente della Repubblica da emanarsi, su proposta del Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, entro un mese dalla data di entrata in vigore della presente legge”.

Il problema, oggetto del presente contrasto, risulta egualmente superato dall’entrata in vigore del D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle Assicurazioni private), inapplicabile ratione temporis ai fatti di causa.

Infatti, sebbene l’art. 283, commi 3 e 4, continui a prevedere un limite di massimale “per persona danneggiata”, tuttavia il testo dell’art. 128, al quale l’art. 283 rinvia per la determinazione del massimale minimo, fissa questa misura “indipendentemente dal numero delle vittime, confermando allora l’irrilevanza del problema con riguardo alla c.d. “vittima primaria” ed alle “vittime secondarie” del sinistro.

Attualmente tale articolo, come sostituito in attuazione della direttiva 2005/14/CE del D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 198, art. 1, comma 4, così recita: “Per l’adempimento dell’obbligo di assicurazione per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, il contratto è stipulato per somme non inferiori ai seguenti importi:

a) nel caso di danni alle persone un importo minimo di copertura pari ad Euro 5.000.000, per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime;

b) nel caso di danni alle cose un importo minimo di copertura pari ad Euro 1.000.000, per sinistro, indipendentemente dal numero delle vittime.

2. I contratti dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti devono essere adeguati agli importi minimi di copertura obbligatoria per i danni alle cose e per i danni alle persone di cui al comma 1 entro l’11 giugno 2012;

5. Alla data dell’11 dicembre 2009 gli importi minimi di copertura devono essere pari ad almeno la metà degli ammontari di cui al comma 1″. 2.3.

Orbene, poiché il massimale ex lege dal 1993 è stato elevato a 774.685,3 – da riferirsi, si ribadisce, a ciascun soggetto danneggiato anche se diverso dal soggetto fisicamente coinvolto nel sinistro e  gli ammontari liquidati sono, senz’altro, inferiori al predetto limite, la questione relativa alla superabilità del suddetto massimale può considerarsi assorbita.

Le spese, comprese quelle di Ctu, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

                                                      P.Q.M.

       Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da L.M. in proprio e M.A., quale esercente la potestà genitoriale sul figlio minore M.F., eredi dei piccoli M.M. e ******* nei confronti di F.T., nonché nei confronti di ALFA Assicurazioni S.P.A.,  BETA Assicurazioni S.P.A. (Già BETA Assicurazioni S.P.A.), quale Impresa designata dal Fondo Garanzia Vittime della strada per la regione Puglia, così provvede:

1) dichiara e accerta che il sinistro si è verificatosi per responsabilità concorsuale di  F.T., del conducente del veicolo non identificato e della M.;

1) condanna i convenuti, in solido, al risarcimento in favore di  L.M. in proprio, dei danni dalla stessa quantificati in Euro € 420.625,62; detratta qualunque altra somma percepita a titolo di provvisionale o di “anticipo” dai convenuti di questo giudizio così come da terzi soggetti, oltre interessi legali dal 19.2.02  sino all’effettivo soddisfo;

2) condanna i convenuti, in solido, al risarcimento dei danni, in favore di M.A., in qualità di genitore esercente la potestà sul figlio minore M.F., quantificati in euro 241.814.73, detratta qualunque altra somma percepita a titolo di provvisionale o di “anticipo” dai convenuti di questo giudizio così come da terzi soggetti, oltre interessi legali dal 19.2.02  sino all’effettivo soddisfo;

6) condanna, in ultimo, i convenuti  al pagamento, in solido, in favore della M. e di M.A., in qualità di genitore esercente la potestà sul figlio minore M.F., delle spese e competenze del presente  giudizio, liquidate in complessivi Euro 10.000,00, oltre *** e Cap come per legge;

7) pone definitivamente le spese di CTU a carico, in solido, dei convenuti.

    

 Brindisi, 26.10.12 

 

Il Giudice

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Redazione