Critica ironica “Qui non lavora nessuno…” espressa da un esponente sindacale contro il comandante: è reato (Cass. pen. n. 35992/2013)

Redazione 03/09/13
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Fatto e diritto

Con sentenza 7.6.2012, il tribunale di Chieti ha confermato la sentenza 17.2.09 del giudice di pace di Chieti con la quale B.L., capitano della polizia municipale e responsabile provinciale del sindacato Os.Pol, è stato condannato, previa concessione della attenuanti generiche, alla pena di euro 300 di multa, al risarcimento dei danni e al rimborso delle spese ,in favore della parte civile, perchè riconosciuto responsabile del reato di ingiuria continuata in danno dì D.G.D., comandante dei corpo di polizia municipale del comune di Chieti, rivolgendole, alla presenza di più componenti del corpo di agenti municipali, le parole “in questo comando non lavora nessuno… lei è una bugiarda! Io non parlo con i bugiardi…”.
Il difensore ha presentato ricorso per violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 594 co. 1 e 3 c.p. l’erroneità della sentenza deriva dalla mancata contestualizzazione dei fatti. Alle ore 8 del 13.12.07, tra l’agente di polizia municipale del comune di Chieti L.M. e la comandante dello stesso corpo di polizia, D.G. si era svolta una conversazione, che, grazie al congegno di viva voce, era stato ascoltato da quattro vigili urbani, presenti nella stanza della querelante. La conversazione si è conclusa in maniera non soddisfacente per la L., sotto il profilo della sua posizione lavorativa e pertanto quest’ultima si era rivolta al proprio rappresentante sindacale B.L.. Entrambi si erano quindi recati , verso le ore 13,50 del 13.12,07, presso l’ufficio della D.G., per trattare alcune rimostranze della L., che riteneva di essere vittima di iniqua distribuzione di carico di lavoro, sotto il profilo quantitativo, e di emarginazione, sotto il profilo qualitativo.
La conversazione si incentrava sul contenuto della telefonata, intercorsa alle 8 di quella stessa giornata; essendo sorto un contrasto tra la L. e la comandante D.G. sulla sua rievocazione, ed essendo stata invocata da quest’ultima, a conferma della propria tesi, la presenza degli altri vigili, il B. pronunciò la frase “in questo comando non lavora nessuno”. Tale espressione eventualmente potrebbe essere ritenuta diretta verso il maresciallo L. e l’appuntato G., presenti nell’ufficio, e comunque non aveva valenza offensiva, essendo espressa in forma dubitativa e ironia e ed essendo priva di minus iniurandi. Quanto alle altre affermazioni (bugiarda, in non parlo con i bugiardi), esse sono state ricordate solo dai predetti L. e G. e sono state negate dalla L., tanto da giustificare l’assoluzione per insufficiente raggiungimento della prova. In ogni caso si tratta di affermazioni espresse nel corso di una discussione di contenuto sindacale, legittimante un maggiore tolleranza, in quanto caratterizzato da forte conflittualità e dalla desensibilizzazione da parte di tutti i partecipanti, rispetto al comune linguaggio ingiurioso.
In ogni caso, secondo la giurisprudenza recente, le ingiurie pronunciate nel mondo del lavoro, tra colleghi esercenti medesima attività professionale, perdono carica offensiva, e vanno collocate sotto la scriminante del diritto di critica.
Infine, secondo il ricorrente, nessun rilievo va riconosciuto alla circostanza che la comandante D.G., subito dopo il colloquio abbia fatto ricorso alle cure del locale nosocomio. Inoltre è erroneo il mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche, tenuto conto del tono della discussione (definita accesa per tutti i partecipanti), dello stato dell’imputato, della mancata presenza della parte civile nel giudizio di appello.
Il ricorso non merita accoglimento.
È del tutto infondata la tesi difensiva, secondo cui le frasi pronunciate dal B., in qualità di esponente sindacale e in difesa della posizione di un’aderente all’associazione Os.Pol. non hanno efficacia lesiva dell’onore della D.G.: l’affermazione circa il mancato svolgimento di attività lavorativa, da parte di addetti alla polizia municipale, si traduce inevitabilmente in un’accusa – mossa alla dirigente – di incapacità organizzativa delle delicate funzioni dei singoli vigili urbani e di carenza di controllo sul diligente ed efficace svolgimento di tali funzioni.
L’accusa, diretta alla D.G., di mentire e di violare la verità , nell’ambito di una pur accesa polemica, ugualmente costituisce un’indubitabile lesione dell’onore e del decoro della donna, sotto il profilo etico e professionale. Nessun rilievo di esimente e di maggiore efficacia attenuante può essere riconosciuto alla funzione sindacale svolta dal B. Va infatti razionalmente respinta la tesi della speciale rimozione o attenuazione dell’antigiuridicità delle espressioni offensive, per il linguaggio dei protagonisti delle massime vicende di una civile comunità democratica. Lo scontro, la polemica, il dissenso, maturati nel confronto di opposti schieramenti o di opposte individualità, devono avvenire, come in tutti i casi riguardanti i comuni cittadini, nell’ambito del rispetto delle regole giuridiche e della civile convivenza. Non è quindi invocabile l’esimente dell’esercizio del diritto di critica sindacale qualora l’espressione consista non già in un dissenso motivato, manifestato in termini misurati e necessari, bensì in un attacco personale, con espressioni direttamente calibrate a ledere la dignità morale, professionale ed intellettuale dell’avversario e del contraddittore.
La richiesta di riconoscimento della prevalenza delle concesse attenuanti generiche e del tutto infondata, al di là della genericità e inconsistenza degli argomenti dello “stato” del Bosco del tono della discussione e dell’assenza della persona offesa nel giudizio di appello, va rilevato che nessuna censura è formulabile, in sede di legittimità, nei confronti della quantificazione della pena, laddove, come nel caso di specie, i giudici di merito abbiano esercitato in maniera assolutamente corretta il potere discrezionale in tema dì trattamento sanzionatorio riconosciuto dal legislatore. Il ricorso va quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagarmento delle spese processuali.

Redazione