Crediti di lavoro: non vale il limite del quinto dello stipendio quando il pignoramento nei confronti del lavoratore avviene direttamente sul conto bancario (Cass. n. 17178/2012)

Redazione 09/10/12
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Cassazione civile, sezione lavoro – 09 Ottobre 2012 – n° 17178

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Pistoia, T.E. proponeva opposizione avverso la procedura esecutiva intrapresa dalla Cassa di Risparmio di (omissis) la quale, dando seguito al decreto di sequestro conservativo di beni mobili ed immobili emesso inaudita altera parte in data 17/4/2003 dal giudice del lavoro di Pistoia (ottenuto dalla Cassa a garanzia di un credito risarcitorio per i danni conseguiti al comportamento del T. che aveva giustificato la risoluzione del rapporto con quest’ultimo per licenziamento), aveva proceduto al sequestro delle somme giacenti sul c/c intestato al T. presso l’agenzia di (omissis) dello stesso Istituto di credito.

Si doleva l’opponente del fatto che tra le somme esistenti sul c/c personale figurassero gli importi ricevuti a titolo di stipendio per i mesi di febbraio e marzo 2003 nonchè il trattamento di fine rapporto e somme già accantonate presso il datore di lavoro per alimentare il fondo integrativo previdenziale.

Deduceva che le somme relative a retribuzioni ed a T.F.R. non potessero essere sottoposte a pignoramento se non nei limiti di 1/5 a mente dell’art. 545 c.p.c. e quelle relative alla posizione assicurativa detenuta nel fondo complementare di previdenza fossero del tutto impignorabili ai sensi dell’art. 2117 c.c.

Il Tribunale di Pistoia riteneva che le somme accreditate sul c/c del T. a titolo di stipendi e trattamento di fine rapporto in virtù di espressa autorizzazione del dipendente fossero, con tale accredito, fuoriuscite dalla disponibilità del datore di lavoro con la conseguenza che sulle stesse non poteva operare il limite di cui all’art. 545 c.p.c.

Quanto alla somma costituita dagli accantonamenti per alimentare il fondo integrativo previdenziale, riteneva che, mancando una scelta formale del dipendente tra le possibili opzioni di utilizzazione degli accantonamenti, consentite dall’art. 23 del “Regolamento di previdenza complementare per i dipendenti della Cassa di Risparmio di Vattelapesca”, la stessa fosse stata indebitamente accreditata sul c/c personale del T.;

in conseguenza riteneva che, dovendo considerarsi detta somma come ancora integrante un credito esistente presso il datore di lavoro, la stessa, ai sensi dell’art. 545 c.p.c., potesse essere sottoposta a sequestro solo nella misura di 1/5.

Accoglieva, così, parzialmente il ricorso e condannava la Cassa di Risparmio di Vattelapesca a restituire al T. Euro 6.550,03, oltre interessi legali dal dì del dovuto al soddisfo.

Per la cassazione di tale sentenza T.E. propone ricorso affidato a sette motivi.

La parte intimata non ha svolto attività difensiva.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Si premette che la sentenza del Tribunale di Pistoia, pubblicata successivamente al 1 marzo 2006 e prima del 4 luglio 2009 è solo ricorribile per cassazione in forza dell’ultimo periodo dell’art. 616 c.p.c., introdotto dalla L. 24 febbraio 2006, n. 52.

2. Con il PRIMO motivo di ricorso censura il T. la sentenza nella parte relativa alle somme sequestrate ed erogate a titolo di retribuzioni e trattamento di fine rapporto per insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., u.c. e comma 1, n. 5), per mancata valutazione di risultanze istruttorie documentali ed erronea valutazione di risultanze istruttorie testimoniali.

Deduce, in particolare, che il primo giudice avrebbe del tutto omesso di considerare il contenuto di documenti prodotti e decisivi, la cui valutazione avrebbe condotto ad una opposta decisione e sostiene che la coincidenza soggettiva tra datore di lavoro, terzo sequestrato e creditore sequestrante e la contemporaneità tra il deposito delle somme ed il sequestro e blocco del conto, oltre a non aver comportato alcuna disponibilità materiale e giuridica delle stesse da parte sua avevano, altresì, impedito che si realizzasse quella “confusione” che aveva indotto il giudicante ad escludere la natura alimentare ed il limiti di sequestrabilità di cui agli artt. 671 e 545 c.p.c.

Evidenzia che gli accrediti degli stipendi sul c/c, lungi dall’essere una manifestazione espressa di volontà del dipendente per ragioni di convenienza, erano frutto di una prassi bancaria imposta dalla cassa a tutti i neoassunti.

3. Con SECONDO motivo di ricorso si duole il T. della violazione e falsa applicazione degli artt. 671 e 545 c.p.c. e dell’art. 36 Cost. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Deduce che la disponibilità della somme che fa venir meno l’inderogabile limitazione alla pignorabilità non può essere considerata in astratto ma in concreto.

Formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se le somme erogate a titolo di retribuzione e T.F.R. possano essere pignorate e quindi sequestrate oltre i limiti di cui agli artt. 671 e 545 cpc nella forma del pignoramento presso terzi sul conto corrente intestato al dipendente, allorchè il datore di lavoro abbia provveduto al pagamento di dette somme mediante accredito su tale conto e sia contestualmente anche il soggetto banca terzo sequestrato e il soggetto creditore sequestrante e il sequestro sia avvenuto contestualmente all’accredito ed al blocco di ogni possibile operazione sul conto o comunque con modalità tali da escludere la disponibilità materiale e giuridica delle stesse da parte del dipendente”.

4. Con TERZO motivo di ricorso si duole il T. della violazione e falsa applicazione degli artt. 671 e 545 cpc e dell’art. 36 Cost. e dell’art. 1418 cc (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Deduce che, ove si attribuisca al consenso prestato dal lavoratore al versamento delle retribuzioni sul conto corrente il ruolo di un atto di disposizione di crediti futuri idoneo a privare detti crediti delle garanzie approntate dagli artt. 671 e 545 c.p.c., tale consenso avrebbe la valenza di una rinuncia del dipendente a godere di 4/5 della retribuzione e del TFR e ciò in contrasto con l’art. 1418 c.c.

Formula, al riguardo, il seguente principio di diritto: “dica la Suprema Corte se l’autorizzazione all’accredito sul proprio conto corrente delle future retribuzioni possa costituire un valido atto di disposizione delle stesse o dei futuri compensi ed emolumenti dovuti in conseguenza del rapporto di lavoro anche a titolo di TFR, idoneo a determinare la confusione con il patrimonio del dipendente e ad escludere l’applicazione degli artt. 671 e 545 c.p.c. ove lo stesso datore di lavoro proceda in via esecutiva sulle somme accreditate sul conto medesimo ovvero se tale autorizzazione, ove riconosciutane detta idoneità, debba considerarsi invece consenso affetto da nullità ex art. 1418 c.c. per contrasto con norme imperative in quanto costituente rinuncia al godimento dei 4/5 di tali emolumenti futuri e quindi ad un diritto ancora inesistente”.

5. Con QUARTO motivo di ricorso, subordinato al terzo, si duole il ricorrente della violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1364, 1365 e 1366 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Deduce che anche una manifestazione di volontà prestata in costanza di rapporto di lavoro autorizzativa del deposito sul proprio conto delle retribuzioni non poteva essere considerata come estesa fino a ricomprendere somme liquidate e maturate a rapporto cessato e ciò in ragione del fatto che l’accordo “non comprende che gli oggetti sui quali le parti si sono proposte di contrattare”.

Formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se, in corretta applicazione dei criteri ermeneutici fissati dal codice civile negli artt. 1362, 1364, 1365, 1366, l’autorizzazione all’accredito sul proprio conto corrente delle future retribuzioni data dal dipendente al datore di lavoro in occasione della assunzione con la contestuale stipula di un contratto di conto corrente presso il datore di lavoro e acquiescenza all’accredito delle retribuzioni, possa ritenersi ricomprendere emolumenti diversi dalle retribuzioni o da liquidarsi a rapporto cessato”.

6. Con QUINTO motivo di ricorso si duole il T. della insufficiente motivazione relativamente ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio e cioè relativamente alla valenza da attribuire alla “espressa manifestazione di volontà” laddove erano state ampiamente svolte dinanzi al giudice di merito e argomentate in comparsa conclusionale le considerazioni articolate sub secondo e terzo motivo circa la portata attribuibile all’aver consentito il deposito delle retribuzioni su un conto acceso in occasione dell’assunzione, secondo una procedura bancaria e circa la validità di tale consenso che, ove ritenuto idoneo a privare le somme di cui trattasi delle garanzie di cui agli artt. 671 e 545 c.p.c., avrebbe concretato una rinuncia al godimento di diritti futuri garantiti da norme inderogabili rilevante ai sensi dell’art. 1418 c.c.

7. Con SESTO motivo di ricorso si duole il T. della contraddittorietà della motivazione (art. 360 c.p.c, u.c. e comma 1, n. 5) circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deduce che il primo giudice, pur avendo affermato che le somme già accantonate e destinate a fondo integrativo non dovevano trovarsi sul c/c personale del ricorrente tuttavia ha disposto la restituzione dei soli 4/5 laddove invece andava applicato l’art. 2117 c.c. che prevede la totale impignorabilità-insequestrabilità.

8. Con SETTIMO motivo di ricorso censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2117 c.c. e art.671 c.p.c.

Deduce che le somme illegittimamente riscattate a titolo di fondo integrativo aveva inevitabilmente conservato la loro natura previdenziale salvaguardata dall’art. 2117 c.c.

Formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se, operato il riscatto di una posizione previdenziale ad opera del datore di lavoro in violazione dello Statuto che disciplina il fondo previdenziale medesimo che attribuiva al solo dipendete il diritto di operare il riscatto, la somma corrispondente, dallo stesso datore accreditata su conto corrente intestato al dipendente, sia dallo stesso datore di lavoro integralmente non sequestrabile in quanto non pignorabile in conformità all’art. 2117 c.c. e art. 671 c.c. ovvero se la stessa sia parzialmente sequestrabile in quanto parzialmente pignorabile ex art. 545 c.p.c.”.

8. I primi cinque motivi, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono infondati.

Dalla stessa prospettazione di cui al ricorso risulta l’esistenza quantomeno di una prassi nel senso che la banca, al momento dell’assunzione di ogni dipendente, sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato, procedeva all’apertura di un conto corrente per consentire il pagamento dello stipendio mediante accredito sullo stesso dello stipendio, conto corrente con condizioni particolari, diverse da quelle applicate alla clientela.

La pur prevista prassi non può, peraltro, sovvertire i normali criteri per l’attribuzione della titolarità di un conto corrente (mai messa in discussione) il che vale a dire che l’apertura del conto non poteva evidentemente prescindere da una espressa formale manifestazione di volontà del dipendente cui sarà stato necessariamente richiesto di sottoscrivere il relativo contratto e rilasciata copia dei documenti relativi alla trasparenza bancaria nonchè di quello di sintesi, contenenti tutte le condizioni (particolari) del contratto.

Risulta, del resto, egualmente dalla prospettazione di cui al ricorso che sul conto corrente personale n. (omissis) era sempre avvenuta, oltre all’accredito delle retribuzioni, anche la domiciliazione delle utenze e che lo stesso era stato utilizzato quale collegamento per le carte di credito riferibili allo stesso T.; ciò vieppiù dimostra che nell’ambito di tale conto corrente, dominato dalle regole del mandato, la banca aveva assunto l’incarico di compiere, nei limiti della sua organizzazione, pagamenti o riscossioni di somme per conto del cliente e secondo le sue istruzioni.

Invero, come chiarito da questa Corte, il contratto di conto corrente bancario previsto dall’art. 1852 c.c. rappresenta un negozio innominato misto, avente natura complessa, alla cui costituzione e disciplina concorrono plurimi e distinti schemi negoziali, i quali si fondono in ragione dell’unitarietà della causa.

Per un verso, assume rilievo preminente nella sua struttura l’impegno della banca, riconducibile al rapporto di mandato, espressamente richiamato dall’art. 1856 c.c. che estende ad essa la responsabilità del mandatario prevista dall’art. 1703 c.c., in forza del quale si accolla l’obbligo di agire con diligenza eseguendo pagamenti ovvero riscuotendo crediti su ordine del cliente, fornendo in sostanza un servizio di cassa di cui è tenuta, nel contempo, a compiere fedele e regolare annotazione sul conto corrente.

Per altro verso, consente il deposito del risparmio del correntista, ed impegna quindi la banca alla restituzione delle somme ivi confluite.

Contiene altresì elementi tipici della delegazione, ovvero degli altri contratti tipici, identificabili con riferimento alle singole operazioni bancarie in esso confluite, le cui norme si applicano all’occorrenza.

In prospettiva correlata alla sua prima e senz’altro preminente funzione, tipica del mandato, la banca assume, pertanto, in qualità di mandataria, un obbligo di facere, consistente nel registrare correttamente sul conto le operazioni eseguite su ordine del correntista, che si concreta, laddove si accerti che talune di esse non siano riferibili a sue precise istruzioni, l’obbligo di eliminarle, ricostituendo la posizione contabile corretta senza considerarle. Se ciò non avviene, la banca contravviene a preciso obbligo contrattuale e deve rispondere del conseguente illecito compiuto (cfr. Cass. n. 5843 del 10 marzo 2010). Il descritto assetto è, allora, evidentemente significativo dell’esistenza di una formale regolamentazione dei rapporti tra le parti.

Una manifestazione di volontà vi era, dunque, stata vuoi al momento della sottoscrizione del contratto di conto corrente vuoi successivamente con la concreta e ripetuta utilizzazione del conto stesso e (anche) del credito riveniente mese per mese dalla disponibilità dello stipendio.

Tanto precisato, va rammentato che regolare tramite conto corrente determinate operazioni significa che il rapporto si sviluppa contabilmente attraverso un sistema scalare che prevede l’annotazione dei singoli atti posti in essere dalle parti in colonne contrapposte, una colonna recante la voce “avere” in cui vengono annotate le operazioni che comportano crediti a favore del cliente ed una colonna recante la voce “dare” in cui vengono annotate le operazioni da cui nascono debiti a carico del cliente.

La particolarità di tale regolamentazione consiste nel fatto che le reciproche annotazioni a debito ed a credito del cliente vengono sommate algebricamente in modo tale che in ogni momento è possibile verificare il risultato della sommatoria attraverso il saldo che viene annotato in una terza colonna che completa il risultato tipico del conto corrente.

A questa regolazione contabile del contratto si accompagna la particolare disciplina del rapporto prevista dagli artt. 1852 e ss. c.c. (si veda, in particolare, l’art. 1852 c.c. il quale stabilisce che il correntista può disporre in ogni momento delle somme a suo credito salvo che si sia stato pattuito un termine di preavviso).

Trattandosi, nella specie, di un conto corrente variamente movimentato e non essendo, dunque, lo stesso qualificabile come di mero appoggio dei soli emolumenti retributivi la conseguenza che ne deriva è che tutto ciò che ivi veniva accreditato nel momento stesso dell’acquisizione della relativa disponibilità da parte del titolare era destinato a confondersi con le altre somme già ivi esistenti, diventando, per effetto dell’accredito sul conto corrente, irrilevante il titolo dell’annotazione.

Va, infatti, ritenuto che qualora le somme dovute per crediti di lavoro siano già affluite sul conto corrente o sul deposito bancario del debitore esecutato non si applicano le limitazioni al pignoramento previste dall’art. 545 c.p.c.

E, d’altra parte, detta ultima norma quando prevede la possibilità di procedere al pignoramento dei crediti soltanto nel limite del “quinto” del loro ammontare si riferisce ai crediti di lavoro.

Orbene, per individuare la natura di un credito (ivi compreso quello avente ad oggetto somme di denaro) occorre accertare il titolo per il quale certe somme sono dovute ed i soggetti coinvolti nel rapporto obbligatorio.

Ond’è che, laddove il creditore procedente notifichi un pignoramento presso il datore di lavoro del suo debitore, non v’è dubbio che le “somme” da questi dovute a titolo di retribuzione rappresentino un credito di lavoro.

Viceversa, quando il creditore pignorante sottoponga a pignoramento (id est a sequestro) somme esistenti presso un istituto bancario ove il debitore intrattiene un rapporto di conto corrente e sul quale affluiscono anche le mensilità di stipendio, il credito del debitore che viene pignorato è il credito alla restituzione delle somme depositate che trova titolo nel rapporto di conto corrente. Sono, quindi, del tutto irrilevanti le ragioni per le quali quelle “somme” sono state versate su quel conto: il denaro è bene fungibile per eccellenza.

Ciò, del resto, trova conferma nei precedenti di questa Corte, secondo cui, una volta soddisfatta, spontaneamente o per via coattiva, l’obbligazione derivante per legge a carico della p.a. in conseguenza dell’opera di lavoro prestata dal dipendente, nessuna preclusione o limitazione sussiste, in ordine alla sequestrabilità e pignorabilità di tali somme, ormai definitivamente acquisite dal dipendente e confluite nel suo patrimonio, sia che esse si trovino nel suo diretto possesso, sia che esse risultino depositate a suo nome presso banche ed assoggettate, quindi, alla disciplina dell’art. 1834 c.c. (cfr. Cass. n. 3518 del 12 giugno 1985).

Nè può ritenersi la suddetta disponibilità esclusa dal fatto che sul conto fosse stato operato il blocco di alcuni pagamenti (utenze, carte di credito) ovvero dalla circostanza della pressochè contemporanea aggressione delle somme oggetto di sequestro rispetto all’accredito.

Quanto al primo aspetto, infatti, trattasi di un provvedimento cautelativo afferente specifiche operazioni che non incide sulla utilizzabilità del conto a mezzo di operazioni di tipo diverso rispetto a quelle bloccate; quanto al secondo aspetto va evidenziato che l’accredito non può che logicamente precedere il sequestro e tale logica anteriorità è sufficiente ad integrare il passaggio di disponibilità delle somme dal datore di lavoro al dipendente-titolare del conto.

Neppure può ritenersi che l’autorizzazione all’accredito degli stipendi non comportasse automaticamente anche quella all’accredito del T.F.R.. Va, infatti, ricordato il carattere retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituendo istituto di retribuzione differita consente di ricondurre le relative somme sempre nell’ambito degli emolumenti stipendiali.

Da ultimo va escluso che l’autorizzazione all’accredito integrasse un atto di disposizione di crediti futuri idoneo a privare detti crediti delle garanzie approntate dagli artt. 545 e 671 c.p.c. e come tale integrasse un regolamento negoziale nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Nessun effetto ulteriore può, infatti, essere riconosciuto ad una diposizione di accredito rispetto a quello di ottenere la disponibilità delle somme oggetto della stessa in modo diverso dal pagamento diretto per cassa.

9. Il sesto e settimo motivo di ricorso, da trattarsi congiuntamente in ragione della intrinseca connessione, sono invece fondati.

E’ da ritenersi coperta da giudicato la decisione del Tribunale di Pistoia nella parte in cui è stato considerato, quanto alla somma costituita dagli accantonamenti per alimentare il fondo integrativo previdenziale, che, mancando una scelta formale del dipendente tra le possibili opzioni di utilizzazione degli accantonamenti, consentite dall’art. 23 del “Regolamento di previdenza complementare per i dipendenti della Cassa di Risparmio di Vattelapesca” in favore degli iscritti che abbiano cessato il rapporto, senza maturazione del diritto a pensione (trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo chiuso, trasferimento a fondo aperto e riscatto), la stessa fosse stata indebitamente accreditata sul c/c personale del T. e dovesse, di conseguenza, considerarsi come ancora costituente il fondo istituito presso il datore di lavoro.

La conseguenza che il primo giudice ne fa derivare (e cioè la sottoponibilità della stessa a pignoramento nella misura di 1/5) è tuttavia in contrasto con la previsione di cui all’art. 2117 c.c. il quale dispone che: “I fondi speciali per la previdenza e l’assistenza che l’imprenditore abbia costituiti, anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro, non possono essere distratti dal fine al quale sono destinati e non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell’imprenditore o del prestatore di lavoro”.

Analogamente il D.Lgs. n. 525 del 2005, art. 4 al suo comma 2 dispone: “I fondi pensione istituiti ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. g), h) e i), possono essere costituiti altresì nell’ambito della singola società o del singolo ente attraverso la formazione, con apposita deliberazione, di un patrimonio di destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito della medesima società od ente, con gli effetti di cui all’art. 2117 c.c.”.

Elemento caratterizzante l’indicata disciplina è che qualora vengano creati fondi speciali essi rimangono strettamente vincolati agli scopi per i quali sono stati istituiti.

Il legislatore ha infatti stabilito che tali fondi non possono essere distratti dal fine cui risultano destinati, fine al quale viene quindi definitivamente subordinata la loro disponibilità.

Tale carattere istituzionale dei fondi destinati ad iniziative assistenziali e previdenziali è confermato dal fatto che essi non possono formare oggetto di esecuzione da parte di creditori del datore di lavoro o del lavoratore: si tratta, infatti, di somme che non fanno più parte del patrimonio di coloro che le hanno versate e che, quindi, non possono essere considerate a garanzia delle obbligazioni da essi eventualmente assunte.

In definitiva, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e, non essendo necessari ulteriori, accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con condanna della Cassa di Risparmio di Vattelapesca, in persona del legale rappresentante p.t., alla restituzione a T.E. della ulteriore somma di Euro 1.637,5 (già ritenuta sottoponibile a sequestro ed invece non distraibile dalla destinazione alla stessa attribuita dal lavoratore) oltre interessi legali dal dì del dovuto al soddisfo.

10. Il parziale accoglimento del ricorso nei limiti sopra specificati giustifica la compensazione delle spese dell’intero procedimento.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto e settimo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, condanna la Cassa di Risparmio di Vattelapesca, in persona del legale rappresentante p.t., alla restituzione a T.E. della ulteriore somma di Euro 1.637,5 oltre interessi legali dal dì del dovuto al soddisfo; compensa tra le parti le spese dell’intero processo.

Redazione