Costruzione abusiva: diritto alla reintegrazione in forma specifica (Cass. pen. n. 37224/2013)

Redazione 11/09/13
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 13 febbraio 2012 la Corte d’appello di Firenze, a seguito di appello proposto contro sentenza del 15 gennaio 2010 del Tribunale di Pistoia dai difensori degli imputati condannati e della parte civile, dichiarava non doversi procedere nei confronti di C.J. , C.G. , C.S. , G.G. , A.G. e V.R. per essersi estinto per prescrizione il reato loro ascritto di cui agli articoli 110 c.p. e 20, lettera b), l. 47/1985 per avere costruito in assenza di concessione un fabbricato lungo la via (omissis), revocando l’ordine di demolizione e condannando G.G. , C.J. e C.G. al risarcimento dei danni alla parte civile T.F. da liquidarsi in separato giudizio.
2. Ha presentato ricorso il difensore della parte civile, lamentando la negazione del risarcimento in forma specifica (ripristino o demolizione) per preteso difetto di “elementi certi per valutare”, e rilevando che l’azione civile inserita nel processo penale è rivolta a far valere tutti i diritti risarcitori, e non solo il risarcimento per equivalente, non potendo d’altronde impedire il risarcimento l’eventualità di nuovi atti amministrativi. Illogica inoltre sarebbe l’affermazione dell’insussistenza di elementi certi sull’eventualità di persistenza di violazioni civilistiche a seguito “dell’eventuale modifica dei luoghi”.
In data 21 maggio 2013 sono state depositate memorie difensive rispettivamente dal difensore di C.G. e di C.J. , che chiedono la dichiarazione di inammissibilità o in subordine il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è fondato.
In sede di appello la parte civile, come rileva la corte territoriale, si era lamentata del non avere il primo giudice riconosciuto anche il danno materiale subito, consistente nella diminuzione del valore commerciale dell’immobile confinante, adducendo che prima ancora i della condanna di risarcimento per equivalente avrebbe dovuto essere stata pronunciata condanna degli imputati alla restituzione in pristino dello stato dei luoghi ex articolo 872 c.c. mediante l’ordine di demolizione della costruzione abusiva, ordine avente natura diversa e diverse possibili conseguenze rispetto a quello di demolizione in base alla normativa edilizia che costituisce sanzione amministrativa.
Premesso che l’imputazione riguardava “la violazione della normativa comunale sull’allineamento degli edifici e di quella sulle distanze legali che, nel caso in esame, sarebbero state violate rispetto all’immobile di proprietà della parte civile” (motivazione, pagina 3), la corte territoriale ne ha in sostanza accertato la fondatezza, concludendo l’esame degli appelli degli imputati nel senso che “non appare assolutamente necessario disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale attraverso una perizia sulle questioni concernenti l’allineamento ed il rispetto o meno delle distanze legali: l’argomento è stato esaustivamente trattato anche nel presente procedimento e…le conclusioni sono nel senso che sono state violate le norme edilizie” (motivazione, pagina 6). Rilevata quindi la maturazione della prescrizione, con conseguente estinzione del reato, la corte ha esaminato l’appello della parte civile, osservando che il primo giudice aveva liquidato unicamente i danni morali conseguenti alla perdita della riservatezza per la notevole vicinanza tra gli edifici, non ritenendo acquisita la prova di un danno patrimoniale perché i proprietari dell’edificio frontista a quello in costruzione non avrebbero neppure dedotto che la loro proprietà avesse subito una diminuzione di valore in conseguenza della nuova costruzione. Il giudice di secondo grado invece ha ritenuto che “proprio per l’estrema vicinanza tra gli edifici” la parte civile avrebbe subito “un danno potenziale in termini di riduzione del valore” della proprietà, essendo state violate “norme edilizie sia in ordine alla non conformità dell’allineamento del nuovo edificio ai criteri delle norme tecniche di attuazione al piano regolatore del Comune di Pistoia, sia in ordine alla distanza tra gli edifici dato che, secondo le stesse norme, avrebbe dovuto essere costruito a 10 metri di distanza”, in tal modo violandosi proprio le norme che riguardano le distanze tra costruzioni, cioè norme civilistiche poste a tutela dei privati confinanti e non soltanto norme urbanistiche di tutela da un danno per la collettività (motivazione, pagina 6). Nonostante questi rilievi, la corte territoriale perviene a ritenere inaccoglibile la domanda proposta dalla parte civile di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la riduzione in pristino, per avere la difesa degli imputati C.G. e C.J. allegato all’atto d’appello un permesso di costruire datato 22 marzo 2010 per la Cecchini Costruzioni S.r.l. ove “si fa riferimento all’istanza presentata dalla società per ottenere un titolo abilitativo che, in alternativa alla completa demolizione delle opere realizzate, consentisse la realizzazione di un fabbricato che utilizzasse in parte quanto già realizzato previo adeguamento alle disposizioni regolamentari in tema di distanze”: la pendenza di tale procedura amministrativa secondo la corte non renderebbe possibile “allo stato” la condanna al risarcimento del danno in forma specifica per la mancanza “di elementi certi per valutare se ed in che misura eventualmente persistano, a seguito della domanda presentata dagli imputati al Comune di Pistoia, che, sembra di comprendere dalla lettura del documento, deve essere oggetto di verifica da parte dell’Autorità, ed a seguito dell’eventuale intervenuta modifica dello stato dei luoghi, violazioni delle norme di natura civilistica” (motivazione, pagina 7).
Il ragionamento della corte territoriale è evidentemente contraddittorio, oltre che non aderente alla realtà normativa. L’esistenza della violazione “delle norme di natura civilistica” era stata appena accertata dalla corte territoriale stessa nei passaggi più sopra riportati della sua sentenza, là dove la corte aveva appunto specificato che erano state violate “le norme che riguardano le distanze tra costruzioni” cioè “norme di natura civilistica poste a tutela dei privati confinanti”. L’accertamento della violazione, oltre che di norme penali, anche di norme civili mediante l’attività criminosa che in tal caso integra congiuntamente illecito penale e illecito civile – violazione da cui discende il danno che viene fatto valere a scopo restitutorio e risarcitorio tramite l’azione civile inserita nel processo penale qualora il danneggiato opti per la costituzione come parte civile in esso – costituisce l’oggetto della giurisdizione del giudice penale qualora, appunto, entro il veicolo che tutela i beni collettivi maggiormente significativi per l’ordinamento, cioè il processo penale, confluisce anche l’interesse del privato per i propri beni, il quale di per sé può intersecarsi con il pubblico interesse senza peraltro perdere appunto la propria natura privatistica. Accanto alle violazioni di natura urbanistica, nella fattispecie in esame, si è collocata la violazione delle distanze nel senso di lesione dell’interesse del proprietario confinante in ordine al valore del suo bene realizzata attraverso la violazione del diritto soggettivo, appunto, di proprietà. Investito del relativo obbligo accertatorio, il giudice di merito, come si è visto, vi ha adempiuto. Il suo accertamento – allo stesso modo e nella stessa misura in cui sarebbe intangibile da provvedimenti amministrativi l’accertamento effettuato dal giudice nell’ambito di un processo puramente civile, e non quindi in una ipotesi di contaminano delle tutele come quella che nel processo penale discende dalla costituzione di una parte civile – non può quindi essere messo in discussione da una valutazione della P.A., neanche in sede di sanatoria, poiché la tutela offerta dalle norme civilistiche degli interessi privati sotto forma di diritti soggettivi di proprietà attinenti alle distanze non patisce incidenza alcuna dai provvedimenti amministrativi concessori, i quali poi, qualora sussistano e confliggano con tali diritti per il loro contenuto, possono essere disapplicati dal giudice ordinario (ex multis S.U. civ. ord. 19 ottobre 2011 n. 21578) dando così piena tutela anche in forma specifica al privato (cfr. da ultimo Cass. civ.,sez. III, 4 giugno 2013 n. 14022: “Il provvedimento di acquisizione del bene illecitamente edificato, e dell’area su cui sorge, al patrimonio del Comune, nell’ipotesi in cui il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 7, legge 25 febbraio 1985, n. 47 (poi art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), non può determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo; ne consegue che detto provvedimento non è incompatibile con l’esecuzione della sentenza che abbia ordinato la riduzione in pristino della costruzione abusiva per l’accertata violazione delle distanze legali dal fondo finitimo, comportando altrimenti tale acquisizione al patrimonio comunale la costituzione ex lege di una servitù a carico della proprietà del vicino, senza indennizzo alcuno in favore di quest’ultimo”), persino qualora ad avere violato le distanze sia la stessa P.A. (Cass.civ. sez. II, 11 marzo 2008 n. 6469), l’unico limite della tutela del diritto soggettivo rispetto alla potestà amministrativa essendo costituito dall’esistenza, alla base della costruzione del manufatto sia ad opera della P.A. sia ad opera di un privato, di un prevalente interesse pubblico quale l’esercizio di un’attività di pubblica utilità, della quale il privato viene comunque indennizzato (per un caso di violazione delle distanze legali tra un fondo e il manufatto costruito in quello confinante e negazione del conseguente ripristino trattandosi di un’opera di pubblica utilità per la realizzazione di un esercizio pubblico rappresentato dalla produzione di energia cfr. S.U. 21 novembre 2011 n. 24410; cfr. altresì Cass. civ. sez. I, 23 agosto 2012 n. 14609): fattispecie che qui indubbiamente non ricorre. Dunque, non corrisponde al vero che la corte territoriale non fosse “in possesso di elementi certi” per valutare violazioni delle norme civilistiche, avendo al contrario essa stessa accertato tali violazioni; né, ovviamente, una “eventuale intervenuta modifica dello stato dei luoghi” – evidentemente, in un indefinito futuro – potrebbe incidere nel senso di privare la parte civile del suo diritto soggettivo accertato come attuale e sussistente. D’altronde, logicamente, avendo la corte territoriale riconosciuto l’esistenza dell’illecito quale fonte di danno patrimoniale a carico della parte civile, se quanto da essa affermato nella parte conclusiva della sua motivazione in ordine alla inesistenza di elementi certi per escludere il risarcimento in forma specifica fosse fondato, avrebbe dovuto essere escluso anche il risarcimento del danno per equivalente, poiché, come si è visto erroneamente, la corte metteva in gioco così l’esistenza della violazione delle norme civilistiche, fonte tanto del risarcimento in forma specifica quanto del risarcimento per equivalente. Invero, nella liquidazione del quantum risarcibile, la misura del danno deve avere per oggetto l’intero pregiudizio, essendo il risarcimento diretto alla completa restitutio in integrum – per equivalente o in forma specifica – del patrimonio leso (Cass. civ. sez. II, 5 febbraio 2013 n. 2720); né, d’altronde, la risarcibilità per equivalente può costituire un elusivo strumento di deminutio del risarcimento, che si conforma invece proprio alle caratteristiche del diritto leso, il che ha condotto la giurisprudenza proprio ad escludere il risarcimento per equivalente in luogo della reintegrazione in forma specifica ex articolo 2058, secondo comma, c.c. qualora si tratti di diritto reale – come nel caso in esame -, la cui tutela infatti “esige la rimozione del fatto lesivo, come nel caso della domanda di riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze, atteso il carattere assoluto del diritto leso” (da ultimo Cass. civ. sez. II, 17 febbraio 2012 n. 2359), tranne nell’ipotesi, già sopra richiamata, in cui la distruzione della res indebitamente edificata venga a costituire un pregiudizio all’economia pubblica (cfr. ancora Cass. civ. sez. I, 23 agosto 2012 n. 14609).
In conclusione, per quanto si è fin qui rilevato risultando fondato il ricorso proposto dalla parte civile, la sentenza deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Firenze.

Redazione