Costituisce violazione del giudicato la condotta della P.A. che, seppure non in contrasto con il dispositivo della sentenza, ne tradisca la portata conformativa (Cons. Stato n. 2680/2013)

Redazione 17/05/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Viene in decisione l’appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per ottenere la riforma della sentenza, di estremi indicati in epigrafe, con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha accolto il ricorso per l’ottemperanza del giudicato formatosi sulla sentenza di questa Sezione 18 gennaio 2001, n. 141 (che ha confermato in appello la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio 9 febbraio 2000, n. 699).

2. Giova ricostruire brevemente la vicenda amministrativa e giurisdizionale che ha preceduto il presente giudizio.

2.1. Gli odierni appellati, già dipendenti dell’allora Amministrazione delle Poste, dal 1995 sono transitati nei ruoli delle Segreterie del Consiglio di Stato, con atto di inquadramento disposto in applicazione dell’art. 5, comma 2, ******** n. 325 del 1988, il quale prevedeva che il “dipendente trasferito conserva, ove più favorevole, il trattamento economico in godimento all’atto del trasferimento mediante l’attribuzione ad personam della differenza con il trattamento economico previsto per la qualifica di inquadramento”.

2.2. Successivamente all’immissione nei ruoli delle segreteria del Consiglio di Stato, l’Amministrazione escludeva dal trattamento economico in godimento all’atto del trasferimento l’emolumento accessorio consistente nel compenso incentivante, previsto dall’art. 4 della L. 22 dicembre 1980, n. 873, come sostituito dall’art. 61 del CCNL 1994/1997 e, con decorrenza 1 gennaio 1996, dalla voce denominata quattordicesima mensilità, di cui all’art. 3 del CCCNL 1996/1997.

2.3. I signori C. e S. proponevano allora ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, che, con sentenza 4 febbraio 2000, n. 699, confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza 18 gennaio 2001, n. 141, accoglieva la domanda, riconoscendo il diritto al mantenimento del trattamento economico maturato presso l’amministrazione di provenienza, con particolare riferimento al c.d. compenso incentivante, successivamente denominato quattordicesima mensilità, in quanto componente fissa e continuativa della retribuzione.

2.4. Tale statuizione veniva ottemperata dal Segretario generale del Consiglio di Stato, mediante la corresponsione ai ricorrenti di un corrispondente assegno personale non riassorbibile e non rivalutabile, che veniva, tuttavia, erogato ai signori C. e S. solo fino a maggio 2007.

2.4. La sospensione dell’erogazione del suddetto emolumento determinava un nuovo ricorso in ottemperanza innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio.

Con sentenza del 27 dicembre 2007 del 14137, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio accoglieva il ricorso, riconoscendo il diritto degli istanti alla percezione dell’emolumento, di cui veniva chiarita ulteriormente la natura non riassorbibile e pensionabile.

2.5. Successivamente, con note prot. n. 2792 del 3 febbraio 2011 e 11053 del 12 giugno 2012 dell’Ufficio Gestione Bilancio e Trattamento economico del Consiglio di Stato, inerenti le voci stipendiali considerate per la determinazione del trattamento pensionistico dei ricorrenti, l’assegno in questione veniva inserito nella tabella B (elementi della retribuzione non soggetti alla maggiorazione del 18%) anziché nella tabella A (elementi della retribuzione soggetti alla maggiorazione del 18%).

2.6. I signori C. e S. proponevano, pertanto, nelle forme dell’incidente di esecuzione, un ulteriore ricorso di ottemperanza innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con il quale chiedevano di disporre la corretta ed integrale esecuzione del giudicato formatosi sulla citata sentenza 699/2000, ordinando alla Amministrazione resistente di inoltrare all’ente previdenziale di competenza una nota di correzione dei loro dati retributivi nella quale la voce “assegni vari ex 14 mensilità Poste Italiane” venisse inserita all’interno della tabella A del trattamento economico, contenente gli elementi della retribuzione soggetti alla maggiorazione del 18%, con eventuale nomina di commissario ad acta.

2.7. Con sentenza 26 novembre 2012, n. 9819, oggetto del presente giudizio di appello, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha accolto il ricorso, ritenendo che dalle precedenti sentenze passate in giudicato derivasse anche l’obbligo di inserire, ai fini della determinazione del trattamento pensionistico, l’assegno retributivo in esame all’interno della tabella A del trattamento economico, con conseguente applicazione della maggiorazione del 18%.

3. Per ottenere la riforma di tale sentenza ha proposto appello la Presidenza del Consiglio dei Ministri, formulando i seguenti motivi:

3.1) difetto di giurisdizione del giudice amministrativo: secondo l’Amministrazione appellante, la richiesta formulata dai ricorrenti dinanzi al giudice dell’ottemperanza esula dal giudicato formatosi sulle precedenti pronunce, perché involge una questione di natura propriamente “previdenziale” che spetterebbe quindi alla giurisdizione della Corte dei conti. Dal giudicato di cui si chiede l’esecuzione deriverebbe, infatti, solo l’obbligo dell’Amministrazione di continuare ad erogare ai dipendenti, sotto forma di assegno ad personam, anche il compenso incentivante in godimento presso l’Amministrazione delle Poste, ma non anche l’obbligo di includerlo, ai fini del trattamento di pensione, nella quota A (anziché in quella B) dell’art. 15 della L. 29 aprile 1976, n. 177;

3.2) prescrizione del diritto azionato dai ricorrenti: l’Amministrazione evidenzia che la sentenza portata ad esecuzione risale al 2000, mentre l’azione di ottemperanza è stata proposta nel 2012, ben oltre, quindi, il termine decennale, previsto dall’art. 114 del codice del processo amministrativo.

3.3) nel merito, l’Amministrazione sostiene l’infondatezza della domanda, sul rilievo del carattere tassativo delle voci che, ai sensi dell’art. 15 L. n. 177 del 1976 sono sottoposte alla maggiorazione del 18%.

4. Si sono costituiti in giudizio i signori C. e S., depositando memoria difensiva nella quale hanno sostenuto l’infondatezza dei motivi formulati nell’appello.

5. Alla camera di consiglio del 23 aprile 2013, la causa è stata trattenuta per la decisione.

6. L’appello non merita accoglimento.

7. L’eccezione di difetto di giurisdizione, fatta valere con il primo motivo di appello, è infondata, atteso che il presente giudizio non ha ad oggetto l’esistenza, la misura o la decorrenza del trattamento previdenziale. Al contrario, gli originari ricorrenti lamentano che l’Amministrazione del Consiglio di Stato, nel fornire all’ente previdenziale le informazioni necessarie per la quantificazione del trattamento di pensione, non abbia tenuto conto, con riferimento alla voce stipendiale “Assegni vari ex 14 mensilità Poste Italiane”, del giudicato del giudice amministrativo, fornendo così una “informazione” che con quel giudicato si poneva in contrasto.

Ciò che gli originari ricorrenti reclamano in questa sede non è, quindi, una pretesa di carattere pensionistico, ma semplicemente l’adempimento da parte dell’Amministrazione ex datrice di lavoro di un obbligo di comunicazione e di informazione sulla reale natura giuridica dell’assegno in questione, che tenga conto della qualificazione che a tale assegno è stata data dalle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato.

In altri termini, gli originari ricorrenti si dolgono del fatto che le note dell’Ufficio Gestione Bilancio e Trattamento Economico del Consiglio di Stato del 3 febbraio 2011, n. 2792 e del 12 giugno 2012, n. 11053 siano state adottate in violazione o elusione del giudicato amministrativo formatosi sulla sentenza del Consiglio di Stato n. 141 del 2001.

La causa petendi della domanda azionata è, quindi, la violazione del giudicato (realizzatasi attraverso i citati atti adottati dall’Ufficio Gestione Bilancio e ***********) e il petitum è la condanna dell’Amministrazione ad adottare un atto di comunicazione verso l’INPS conforme al giudicato medesimo. È evidente che, nonostante, il riflesso previdenziale della pretesa azionata, l’oggetto del presente è tipicamente di ottemperanza.

Del resto, occorre evidenziare che l’art. 133, comma 1, n. 5), del codice del processo amministrativo devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in cui si faccia questione della nullità del provvedimento amministrativo adottato in violazione od elusione del giudicato. Da tale norma si evince che il legislatore ha voluto attribuire esclusivamente al giudice amministrativo il compito di accertare se la “regola” contenuta nel suo precedente giudicato sia stata violata o elusa dall’Amministrazione, a prescindere dalla natura della pretesa azionata dal ricorrente e dalla sua eventuale astratta riconducibilità nell’ambito di diverse giurisdizioni.

Non rileva, in senso contrario, nemmeno la circostanza che la sentenza di cui si chiede l’ottemperanza non prenda esplicitamente posizione in ordine alla questione del trattamento previdenziale dell’assegno ad personam (inquadramento in quota A o in quota B).

E’ noto, infatti, come il giudicato amministrativo (anche quello di condanna al pagamento di una somma o di accertamento di un diritto patrimoniale) sia fonte di effetti più ampi rispetto alla statuizione cristallizzata nel dispositivo, effetti che si traducono in obblighi conformativi che impongono all’Amministrazione, nelle successive occasioni di esercizio del potere o nei successivi comportamenti relativi alla stessa vicenda già incisa dal giudicato, di tener conto anche delle qualificazioni giuridiche e delle prescrizioni contenute nella sentenza amministrativa, le quali, appunto, anche se non trovano perfetta corrispondenza nel dispositivo, hanno comunque la funzione di conformare la successiva attività o il successivo comportamento dell’Amministrazione.

È quindi violativa del giudicato, e tale violazione può essere fatta valere in sede di ottemperanza, la condotta dell’Amministrazione che, seppur formalmente non in contrasto con il dispositivo della sentenza, ne tradisca tuttavia la portata conformativa, quale desumibile appunto dalla motivazione.

La tradizionale affermazione secondo cui il giudicato amministrativo è un “giudicato a formazione progressiva” e che il giudizio di ottemperanza non ha natura meramente esecutiva, ma anche cognitiva, vuole esprimere proprio questo principio, ovvero che la regola di comportamento che deriva dal giudicato in capo all’Amministrazione non è solo quella scolpita nel dispositivo. Si tratta, al contrario, di una regola più ampia, dotata di margini di elasticità e suscettibile di essere puntualizzata e concretizzata dal giudice dell’ottemperanza. L’individuazione del reale contenuto di tale regola è così oggetto di un processo di formazione progressiva, nel senso che essa viene definitivamente esplicitata proprio nel giudizio di ottemperanza, il quale, quindi, non è meramente esecutivo, ma anche cognitivo, dovendo il giudice dell’ottemperanza anzitutto delimitare la reale portata della regola conformativa derivante dal giudicato ottemperando.

*****, infine, precisare che la questione dell’inclusione o meno della pretesa azionata nell’ambito della regola di comportamento desumibile dal precedente giudicato attiene più al merito della domanda di ottemperanza, piuttosto che alla sussistenza della giurisdizione. La giurisdizione sussiste in ragione del fatto che il ricorrente lamenta che vi sia stata violazione del giudicato: spetterà poi al giudice dell’ottemperanza stabilire se effettivamente questa violazione sussista ed in caso contrario respingere la domanda perché estranea allo spazio cognitivo consentito in sede di ottemperanza.

Il giudice dell’ottemperanza dovrà, in particolare, verificare non tanto se la pretesa è fondata in assoluto, ma se è fondata in relazione al giudicato, ovvero se (tenendo conto anche degli effetti conformativi del giudicato pronunciato verso l’Amministrazione) quella pretesa trovi un riconoscimento anche implicito nel contenuto della sentenza che si va ad ottemperare.

In mancanza di tale collegamento con il precedente giudicato, dovrà respingere la domanda, nonostante l’astratta fondatezza della pretesa azionata, in quanto, appunto, la sua eventuale lesione non è stata realizzata in conseguenza di una violazione del giudicato.

L’inclusione o meno della pretesa azionata nel contenuto del decisum azionato è, quindi, a rigore più questione di merito che di giurisdizione. E sulla questione si ritornerà, infatti, in sede di esame del terzo motivo di appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

8. Infondato è anche il secondo motivo di appello con cui si fa valere l’eccezione di prescrizione del diritto azionato in sede di ottemperanza.

La palese infondatezza dell’eccezione consente anche di prescindere dalla questione, sollevata dagli appellati, della sua proponibilità direttamente in appello. L’eccezione è infondata in quanto nel caso di specie la lesione del diritto azionato si è verificata solo dopo il pensionamento degli istanti, in particolare per effetto delle note adottate dall’Ufficio Gestione Bilancio e Trattamento Economico del Consiglio di Stato del 3 febbraio 2011, n. 2792 e del 12 giugno 2012, n. 11053. Il dies a quo del termine di prescrizione dell’azione di ottemperanza non va, infatti, automaticamente ed immutabilmente identificato nella data di pubblicazione della sentenza ottemperanda, ma va individuato nel momento in cui si verifica la violazione o l’elusione del giudicato.

9. Si può, quindi, passare all’esame del terzo motivo di appello, diretto a contestare, nel merito, la fondatezza della pretesa.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il merito della pretesa azionata va esaminata non in assoluto, ma in relazione al giudicato, nel senso che occorre verificare se dal giudicato ottemperando possa ricavarsi l’obbligo di includere nella quota A delle voci di retribuzione che concorrono al trattamento di quiescenza (e che sono soggette alla maggiorazione del 18%) anche l’assegno “ex quattordicesima mensilità”.

Alla questione deve darsi risposta positiva alla luce delle considerazioni che seguono.

9.1. La disciplina della c.d. maggiorazione del 18% ai fini della determinazione del trattamento pensionistico trova la sua disciplina, per i dipendenti civili della P.A. nell’art. 43 D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, come sostituito dall’art. 15 L. 29 aprile 1976, n. 177.

Tale disposizione stabilisce che, “ai fini della determinazione della misura del trattamento di quiescenza dei dipendenti civili, la base pensionabile, costituita dall’ultimo stipendio o dall’ultima paga o retribuzione e dagli assegni o indennità pensionabili sottoindicati integralmente percepiti, è aumentata del 18 per cento”. Segue l’elenco degli assegni e delle indennità che, oltre alla retribuzione, beneficiano della maggiorazione del 18%. L’articolo in questione si conclude poi con la previsione, volta a conferire tassatività al predetto elenco, secondo cui, “agli stessi fini, nessun altro assegno o indennità, anche se pensionabile, possono essere considerati se la relativa disposizione di legge non ne preveda espressamente la valutazione nella base pensionabile”.

9.2. La tesi sostenuta dall’Amministrazione è che l’assegno riconosciuto ai ricorrenti sulla base dell’art. 5, comma 2, ******** n. 352 del 1988 non è espressamente menzionato dalla citata disposizione nella lista degli assegni sottoposti alla maggiorazione del 18% (e, pertanto, deve essere inserito nella c.d. quota B).

9.3. Tale conclusione non è condivisibile in quanto omette di considerare che il citato art. 43 del D.P.R. n. 1092 del 1973 sottopone a maggiorazione, oltre agli assegni e alle indennità tassativamente indicate, l’ultima “retribuzione” percepita dal dipendente.

Si tratta, quindi, di verificare se l’assegno in questione abbia o meno natura “retributiva”, se cioè costituisca o meno una “parte” o una “voce” della retribuzione percepita dagli originari ricorrenti.

La risposta positiva al quesito si impone proprio sulla base del giudicato amministrativo di cui in questa sede è chiesta l’ottemperanza.

La sentenza del Consiglio di Stato n. 141 del 2001 (che ha confermato in appello la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio n. 699 del 2000) si base proprio sul riconoscimento della natura retributiva dell’emolumento denominato “compenso incentivante” (successivamente divenuto “quattordicesima mensilità”) percepito dagli originari ricorrenti presso l’Amministrazione delle Poste. Nella sentenza ottemperanda il Consiglio di Stato, smentendo la stessa tesi oggi sostenuta, sia pure ad altri fini, dall’Amministrazione appellante, ha riconosciuto che quell’emolumento fosse assimilabile alle “componenti stipendiali della retribuzione” (par. 2.3 della motivazione).

Nella stessa sentenza di cui si chiede l’ottemperanza, il Consiglio di Stato, disattendendo ulteriormente un argomento riproposto anche in questa sede dall’Amministrazione appellante (quello secondo cui l’emolumento in questione avrebbe assunto natura retributiva, con la diversa denominazione “quattordicesima mensilità” solo a far data dal 1 gennaio 1996 e, quindi, successivamente alla data di inquadramento degli interessati presso i ruoli delle segreterie del Consiglio di Stato), ha statuito che alla data del 1 gennaio 1996 il rapporto di servizio era ancora in corso con l’Amministrazione delle Poste, tanto che è stata l’Amministrazione di provenienza nel giugno del 1997 a corrispondere agli originari ricorrenti la quattordicesima mensilità relativa all’anno 1996.

9.4. L’assegno riconosciuto agli originari ricorrenti andava, quindi, a sostituire un emolumento denominato “quattordicesima mensilità”, cui deve certamente riconoscersi, sulla base del giudicato amministrativo posto in esecuzione, natura stipendiale (nel senso che costituisce una parte della retribuzione goduta dagli originari ricorrenti), con conseguente applicazione della maggiorazione del 18%.

9.5. Del resto, risulta ancora significativo evidenziare che per il personale non dirigente di Poste italiane l’accordo del 13 maggio 2002 stipulato tra l’Amministrazione postale e le organizzazioni sindacali ha espressamente riconosciuto alla “quattordicesima mensilità” natura retributiva, assoggettandola espressamente alla maggiorazione del 18%. Sebbene intervenuto successivamente all’inquadramento degli originari ricorrenti nei ruoli delle segreterie del Consiglio di Stato, tale accordo, comunque, fornisce un ulteriore argomento a favore della natura retributiva, già riconosciuta dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 141 del 2001, e sul suo conseguente trattamento pensionistico.

10. In conclusione, alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri deve essere respinto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate, per ciascun resistente, in complessivi Euro 1.500 (millecinquecento), oltre agli accessori di legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento a favore di G.C. e di G.S. delle spese del presente grado di giudizio, che liquida, per ciascuno, in complessivi Euro 1.500 (millecinquecento), oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2013

Redazione