Costituisce elusione fiscale non pagare l’affitto dei locali dell’azienda ad un parente (Cass. n. 15968/2013)

Redazione 25/06/13
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Ordinanza

Svolgimento del processo

1. L’agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, avverso la sentenza della commissione tributaria regionale della Toscana n. 10/16/10, depositata il 21 gennaio 2010, con la quale, rigettato l’appello della medesima contro la decisione di quella provinciale, veniva accolta l’opposizione della società G. Arredamenti srl. e dei due soli soci, al 50% ciascuno, germani G.D. e L., relativamente agli avvisi di accertamento concernenti Irpeg, Irap ed *** per la società stessa, nonchè l’Irpef per i soci medesimi e ciò riguardo al 2003. In particolare il giudice di secondo grado osservava che in ordine al ricarico l’agenzia non doveva adottare il criterio della media semplice, bensì di quella ponderale. Quanto alla deduzione dei costi, bene la società aveva fatto nel non seguire il criterio della competenza, atteso che di essi non si era avuta la determinazione numeraria se non nel 2003. Quanto poi alle sopravvenienze attive, la CTR osservava che, per le somme non pagate a titolo di canone per l’affitto di azienda al padre dei soci, e cioè ******, ciò non costituiva una rinuncia ad esso da parte del locatore, ma al più una tolleranza, trattandosi dei figli, e quindi i relativi crediti della società locatrice, e cioè la G. Lirio & C. sas., non potevano essere considerati come proventi per l’affittuaria e soci. La G. Arredamenti e i due G. resistono con controricorso, ed hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

2. Con il motivo addotto a sostegno del ricorso la ricorrente deduce violazione di norme di legge, in quanto la CTR non considerava che la ripresa a tassazione dei canoni di affitto non corrisposti per diversi anni scaturiva dalla evidente finalità dei contribuenti di ricavare solo dei vantaggi fiscali dall’affitto medesimo, tanto che nel relativo contratto del 1994 era espressamente previsto che il ritardo di un solo mese comportava il diritto alla risoluzione del negozio, salvo il risarcimento del danno. Inoltre i locali dell’azienda sono ufficialmente di proprietà della società G. sas. di ******** & C, della quale sono soci soltanto il padre e i due figli, tanto che solo parte dei canoni del 2001 era stata pagata nel 2005, e quindi si trattava di operazioni aventi come unica finalità quella di consentire le deduzioni dei pretesi costi, che in realtà non venivano sopportati, e che invece costituivano ricavi.

Il motivo è fondato. E’ dato pacifico tra le parti che la proprietà dell’azienda in argomento appartiene alla società ******** & C. sas., di cui è accomandatario Li., e che i figli di questi, attuali controricorrenti, ne sono pure gli unici soci assieme a lui.

Di fatto quindi sono essi che dispongono dell’azienda gestita formalmente dalla G. Arredamenti srl., e tale situazione comporta la presunzione di un’ipotesi, quanto meno, di elusione fiscale. Va premesso al riguardo che l’interpretazione dei contratto a tali fini (fiscali), volta a stabilire se i negozi o i redditi siano soggetti alla esatta imposizione, deve avvenire con criteri diversi da quelli utilizzabili ai fini civilistici, e deve attribuire rilievo preminente agli effetti dei negozi stessi ed alla necessità di prevenire frodi ed abusi (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 23584 del 20/12/2012, n. 12249 del 19/05/2010). Del resto, com’ è noto, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposta ***), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione (V. pure Cass. Sez. U, Sentenza n. 30055 del 23/12/2008, Sent. n. 12237 del 2008).

Quindi sul punto la sentenza impugnata non risulta motivata in modo giuridicamente corretto.

3. Ne deriva che il ricorso va accolto, con conseguente cassazione della decisione impugnata, senza rinvio, posto che la causa può essere decisa nel merito, atteso che non occorrono ulteriori accertamenti di fatto, ex art. 384 c.p.c., comma 2, e rigetto di quello in opposizione dei contribuenti avverso l’avviso di liquidazione.

4. Quanto alle spese del doppio grado, sussistono giusti motivi per compensarle, mentre le altre di questo giudizio seguono la soccombenza, e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, rigetta quelli introduttivi; compensa le spese del doppio grado, e condanna i controricorrenti in solido al rimborso di quelle di questo giudizio a favore della ricorrente, che liquida in Euro 3.500,00 (tremilacinquecento/00) per onorario, oltre a quelle prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2013.

Redazione