In materia di mandato di arresto europeo, come si deve procedere all’accertamento di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante del regime carcerario riservato alla persona richiesta in consegna?

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(Annullamento con rinvio)

Il fatto

La Corte di appello di Roma dichiarava sussistenti le condizioni per l’accoglimento della richiesta di consegna di cui al mandato di arresto europeo emesso dal Tribunale di Bruxelles nei confronti di persona tratta in arresto in Italia e poi sottoposta alla misura della custodia cautelare in carcere.

Rilevavano in particolare i giudici di seconde cure come il mandato di arresto europeo fosse stato emesso per dare esecuzione al provvedimento restrittivo disposto dall’autorità giudiziaria belga nei riguardi di persona sottoposta ad indagini per avere commesso il reato di tentato omicidio ai danni di un suo connazionale; come tale reato rientrasse nel novero di quelli per i quali, sussistendo il requisito della doppia punibilità, la L. 22 aprile 2005, n. 69 (contenente le “Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri”) prevede la consegna obbligatoria e, comunque, come lo stesso avesse corrispondenza con l’analogo delitto previsto dal codice penale italiano e come non vi fossero ragioni per rifiutare la consegna considerate le informazioni acquisite in ordine al miglioramento della situazione delle carceri nel Belgio.

 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Avverso tale sentenza presentava ricorso per Cassazione l’arrestato, con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale deduceva, con un unico motivo, la violazione di legge in relazione alla L. n. 69 del 2005, art. 16 e art. 18, comma 1, lett. h), nonché in relazione alle disposizioni contenute nella suddetta decisione quadro, per avere la Corte di appello erroneamente accolto la richiesta di consegna proveniente da un paese, il Belgio, interessato da vicende di sovraffollamento carcerario che sono state stigmatizzate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e che hanno creato situazioni di trattamento disumano e degradante nei riguardi dei detenuti e che si sono ulteriormente aggravate in conseguenza della pandemia da virus che ha colpito anche quel Paese.

 

La richiesta formulata dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

Con requisitoria il Sostituto Procuratore generale chiedeva il rigetto del ricorso.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 

Il ricorso veniva ritenuto fondato per le seguenti ragioni.

Si osservava prima di tutto che costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Cassazione il principio secondo il quale, in tema di mandato di arresto europeo, ai fini della configurabilità del motivo di rifiuto della consegna previsto dalla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, lett. h), per accertare l’effettiva sussistenza di un pericolo di trattamento inumano e degradante, ostativo alla consegna del detenuto all’autorità dello Stato membro di emissione, occorre l’acquisizione, da parte dell’autorità giudiziaria remittente, di informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione (Sez. 6, n. 26383 del 05/06/2018) e ciò perché è stato chiarito che l’accertamento di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante del regime carcerario riservato alla persona richiesta in consegna va svolto, secondo quanto puntualizzato dalla Corte di giustizia della Unione Europea (sentenza 5 aprile 2016, C404/15, Aaranyosi e C 659/15, Caldararu), attraverso la richiesta allo Stato emittente di tutte le informazioni relative alle specifiche condizioni di detenzione previste per l’interessato (in questo senso Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017, Enache, Rv. 271513; conf. Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, Rv. 267296, nella quale si è pure precisato come debba ritenersi integrare una situazione di grave ed intollerabile sovraffollamento, suscettibile di integrare i presupposti dell’art. 3 CEDU, la detenzione della persona in uno spazio inferiore a tre metri quadrati in regime chiuso; mentre come tale “forte presunzione” di disumanità della restrizione in caso di superficie inferiore a detta soglia possa nondimeno essere superata in presenza di circostanze che consentano al detenuto di beneficiare di maggiore libertà di movimento durante il giorno, rendendogli possibile il libero accesso alla luce naturale ed all’aria, sì da compensare l’insufficiente assegnazione di spazio).

Di tale regula iuris, ad avviso degli Ermellini, la Corte di appello di Roma non aveva fatto corretta applicazione nel caso di specie in quanto aveva ritenuto di non dover richiedere dall’autorità belga informazioni sulle caratteristiche del regime detentivo al quale avrebbe dovuto essere sottoposto il prevenuto, sugli istituti dove lo stesso avrebbe dovuto essere assegnato, nonché sui verosimili sviluppi nell’esecuzione della misura cautelare che, nel tempo, lo avrebbero riguardato e sulla situazione carceraria che gli sarebbe stata riservata posto che i giudici di merito avevano ritenuto sufficienti le assicurazioni che, riguardo lo stato di detenzione nelle carceri belghe, aveva dato il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel lontano settembre del 2016, omettendo, però, di considerare le informazioni che, riferite al luglio del 2017, erano state segnalate dalla difesa dell’odierno ricorrente nonché mancando di considerare che la problematicità del trattamento dei detenuti negli istituti penitenziari del Belgio era stata più di recente stigmatizzata dalla Corte di Strasburgo che, con la sentenza n. 82284/17 del 31 marzo 2020, aveva riconosciuto sussistente la violazione dell’art. 3 CEDU in un caso di un detenuto in Belgio che si era trovato in una situazione di difficoltà di intensità superiore a quel livello di sofferenza evitabile inerente alle condizioni di detenzione, in particolare a causa della mancanza di cure mediche, di vigilanza e trattamento sanitario durante i suoi periodi di detenzione.

La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, annullava la sentenza impugnata e rinviava per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

Conclusioni

La decisione in questione è interessante in quanto in essa si chiarisce in che modo si deve procedere all’accertamento di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante del regime carcerario riservato alla persona richiesta in consegna in materia di mandato di arresto europeo.

Difatti, in siffatta pronuncia, viene affermato, citandosi sia giurisprudenza nomofilattica, che comunitaria, che, in tema di mandato di arresto europeo, ai fini della configurabilità del motivo di rifiuto della consegna previsto dalla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 18, lett. h), per accertare l’effettiva sussistenza di un pericolo di trattamento inumano e degradante, ostativo alla consegna del detenuto all’autorità dello Stato membro di emissione, occorre l’acquisizione, da parte dell’autorità giudiziaria remittente, di informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione posto che l’accertamento di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante del regime carcerario riservato alla persona richiesta in consegna va svolto attraverso la richiesta allo Stato emittente di tutte le informazioni relative alle specifiche condizioni di detenzione previste per l’interessato.

Dunque, questo provvedimento deve essere preso nella dovuta considerazione laddove si debba appurare se questo accertamento sia stato correttamente compiuto o meno.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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