La Cassazione chiarisce diversi profili applicativi inerenti il delitto di calunnia: vediamo in che modo

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Il fatto

La Corte d’appello di Caltanissetta, pronunciando sulle contrapposte impugnazioni dell’imputato e della costituita parte civile, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale dello stesso capoluogo, ferma restando la statuizione di condanna del prevenuto per il reato di calunnia, aveva dichiarato prevalenti le già riconosciute attenuanti generiche e, da un lato, aveva conseguentemente ridotto la pena a carico del detto M. ad anni uno e mesi quattro di reclusione, con il già concesso beneficio della sospensione condizionale, dall’altro, aveva liquidato il danno a favore della parte civile – in precedenza oggetto di mera condanna generica – determinandone l’ammontare in C 40.000,00 oltre interessi legali a far tempo dalla data di pubblicazione della sentenza; ha infine esteso la condanna dell’imputato – sempre sul piano delle statuizioni civili – anche alla refusione dell’indennità di trasferta, nonché al rimborso delle relative spese, nella complessiva misura indicata in dispositivo.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il suddetto provvedimento proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputato adducendo i seguenti motivi: a) un primo motivo così articolato: 1) violazione di norme sostanziali e processuali, nonché vizio di motivazione, sotto forma di “palese illogicità e assenza stante il fatto che, a suo dire, la Corte distrettuale sarebbe incorsa, innanzi tutto, in “illogicità manifesta nella ricostruzione delle pretese dichiarazioni dell’imputato” per avere “semplicisticamente quanto sommariamente limitato il giudizio sulla pretesa coerenza e sovrapponibilità del racconto dei due testi/verbalizzanti” senza prendere in considerazione le molteplici obiezioni formulate dalla difesa in ordine alla credibilità della narrazione posta a base della prospettazione accusatoria ed alla veridicità della ricostruzione offerta dal M., asseritamente la sola in grado di dare contezza dell’effettivo pensiero dell’odierno ricorrente, limitatosi, nel parlare con i due finanzieri impegnati nella perquisizione della società di cui era al tempo legale rappresentante, ad un “ragionamento per assurdo“, volto ad evidenziare il difforme metro di giudizio utilizzato nel vaglio della propria posizione, sì da rendere “altamente probabile … un cortocircuito comunicativo” tale da trarre in errore i due militari sul reale significato delle parole dell’imputato anche per via della “approssimazione” e della “imprecisione proprie di quella informale chiaccherata“; 2) violazione e falsa applicazione dell’art. 368 c.p., e ciò in ragione dell’assenza della denuncia, ovvero di uno degli atti equipollenti richiesti dalla norma incriminatrice, atti che, “seppur da intendersi in senso atecnico e ampio“, nondimeno richiedono che la relativa “informazione sia acquisita con quel minimo di formalità e ‘solennità’ che possono confermare l’esatto contenuto delle dichiarazioni, la serietà e l’importanza delle stesse, la certezza che quelle dichiarazioni costituiscano notitia criminis e la volontà e comunque la consapevolezza dell’agente di comunicare all’autorità giudiziaria“; 3) mancanza di dolo. Insufficiente motivazione e violazione degli artt. 368, 42 e 43 c.p. visto che non vi sarebbe stata nella sentenza “alcuna precisa indicazione di quali siano le concrete circostanze e modalità esecutive dell’azione” atte a dar conto della sussistenza, in capo all’odierno ricorrente, della “cosciente volontà di un’accusa mendace” non potendosi reputare sufficiente in proposito – giusta la tesi sostenuta – il mero riferimento alla gravità delle accuse ed all’assenza di sollecitazioni di sorta, rivolte dai finanzieri al M., perché proseguisse nelle sue affermazioni asseritamente calunniose; 4) assolutamente illogica e solo apparente la parte motiva inerente all’effettiva “configurabilità nelle false accuse della fattispecie di reato del riciclaggio” visto che “nella falsa incolpazione del M. di avere ricevuto dal dott. S. una valigetta contenente un milione di euro in contanti per versarla sul conto corrente, proveniente dalla vendita di immobili” della stessa persona offesa: non sarebbe infatti raffigurabile il reato previsto e punito dall’art. 648 bis cod. pen. giusta gli elementi costitutivi che di tale fattispecie sono propri, e ciò anche in ragione del fatto che la violazione della “normativa antiriciclaggio” opera su un piano distinto rispetto a quello penale, onde il suo mancato rispetto non comporta alcun automatismo che conduca alla configurazione del reato anzidetto; 5) necessaria prova della falsità delle accuse stante l’insufficienza delle indagini a tal fine condotte, malamente “limitate ai movimenti bancari dal gennaio del 2005 in poi“, non essendo peraltro detta prova desumibile alla stregua della sola, intervenuta sentenza irrevocabile di proscioglimento nel merito della persona oggetto d’incolpazione; b) un secondo motivo concernente la palese illogicità e contraddittorietà della motivazione sul punto della liquidazione in via equitativa del danno morale per essere stata ipotizzata “la sussistenza del citato danno in via soltanto presuntiva, in assenza di qualsivoglia riscontro in atti e senza alcuna effettiva motivazione“, e ciò alla luce della mancata iscrizione della persona offesa nel registro delle notizie di reato come pure in considerazione delle modalità, improntate ad assoluta discrezione e riservatezza, di conduzione delle indagini, peraltro esauritesi in brevissimo tempo ed affidate ad un solo soggetto a conoscenza dei fatti tenuto conto altresì dell’entità del danno liquidato stante la contestata congruità della somma riconosciuta, “sproporzionata rispetto a qualunque danno … possa aver mai patito la parte civile” e stabilita “in via meramente presuntiva e disancorata dalla realtà“.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

La Corte di Cassazione riteneva fondato il primo motivo alla stregua delle seguenti considerazioni.

Si osservava prima di tutto che il ragionamento decisorio adottato dalla Corte di Appello fosse connotato da sicura esaustività e linearità come tale per certo non illogico – tanto meno manifestamente, così come richiede la lettera e) dell’art. 606 del codice di rito – e perciò incensurabile in sede di legittimità a nulla valendo le argomentazioni difensive che, secondo la Corte, si risolvevano nel tentativo di accreditare una diversa lettura del materiale probatorio, notoriamente estraneo alla struttura ed alle finalità che sono proprie del giudizio di legittimità, al di là della pure avvenuta confutazione, ad opera dei giudici nisseni, della tesi della inverosimiglianza di quanto riferito dal prevenuto e del presunto “cortocircuito comunicativo“.

Posto ciò, si rilevava al contempo come, per quanto attiene alla oggettiva falsità della circostanza sopra rappresentata, la motivazione della Corte distrettuale non si prestasse a critica alcuna così come, al pur autonomamente censurato profilo soggettivo, si puntualizzava che la radicale falsità della circostanza rappresentata agli ufficiali di p.g. non potesse non riverberare i suoi effetti sulla relativa consapevolezza in capo all’agente.

Inoltre, relativamente all’ulteriore critica, circa l’assenza di denuncia, quale richiesta dall’art. 368 c.p., gli ermellini facevano presente come la Corte nissena si fosse attenuta al principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, per cui la configurabilità del delitto di calunnia non presuppone affatto la presenza di una denuncia in senso formale, essendo sufficiente che taluno, rivolgendosi in qualsiasi forma all’autorità giudiziaria ovvero ad altra autorità avente l’obbligo di riferire alla prima, esponga fatti concretanti gli estremi di un reato, addebitandoli a carico di persona di cui conosce l’innocenza(così Sez. 6, sent. n. 44594 dell’08.10.2008, Rv. 241654; conf. Sez. 6, sent. n. 29439 del 19.06.2009, Rv. 244536 e, di recente, Sez. 6, sent. n. 10160 del 29.01.2016, Rv. 266956).

Posto ciò, i giudici di piazza Cavour riteneva stigmatizzabile il passaggio decisorio in cui in relazione alla confutata configurabilità, nelle accuse del M., del reato di riciclaggio, che la contestazione elevata a suo carico indica come oggetto della falsa incolpazione stante la genericità dell’accusa posta in essere nel caso di specie a fronte del fatto che, se è vero che, secondo giurisprudenza consolidata, “soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l’elemento materiale del delitto di calunnia” (così Sez. 6., sent. n. 10282 del 22.01.2014, Rv. 259268), è altrettanto vero che il reato attribuito all’innocente deve corrispondere in ogni suo estremo ad una ben determinata fattispecie legale di delitto o di contravvenzione, con la conseguenza che non si può ravvisare il delitto di calunnia nel fatto di colui che attribuisca ad una persona una condotta non corrispondente ad alcuna fattispecie legale di reato e neppure quando il denunziante abbia dato un preciso nomen iuris al fatto addebitato all’incolpato poichè la norma incriminatrice di cui all’art. 368 cod. pen., notoriamente preordinata alla salvaguardia del corretto funzionamento dell’amministrazione giudiziaria, che non deve essere fuorviata da una falsa sollecitazione che comporti l’avvio di indagini a carico di un soggetto per un fatto penalmente illecito cui lo stesso sia estraneo, rientra coerentemente nei novero dei reati di pericolo, onde – così come affermano innumerevoli arresti di legittimità – ai fini della configurabilità del delitto di calunnia, non si richiede l’inizio di un procedimento penale a carico della persona offesa, essendo bastevole che la falsa incolpazione contenga, su di un piano assolutamente oggettivo, gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona individuata o, comunque, agevolmente ed univocamente individuabile (cfr. Sez. 6, sent. n. 32944 del 16.05.2012, Rv. 256253 e n. 18987 del 14.03.2012, Rv. 252862).

Tal che se ne faceva conseguire come, ai fini della configurabilità dell’illecito penale de quo, requisito imprescindibile che la narrazione dell’agente, anche indipendentemente dall’eventuale nomen iuris dallo stesso attribuitogli, contenga in sé il riferimento a tutti gli elementi costitutivi di una determinata fattispecie delittuosa, che si assume commessa da colui cui la narrazione medesima si riferisce posto che proprio l’anzidetta e pacifica natura di reato di pericolo, che è propria dell’ipotesi criminosa di cui all’art. 368 cod. pen., comportando l’anticipazione della soglia della rilevanza penale, impone indubbio rigore nella valutazione del requisito in esame, che va dunque scrutinato con scrupolo ed attenzione peculiari a nulla rilevando, ad avviso della Corte, il principio di diritto richiamato dai giudici di seconde cure secondo cui è da doversi escludere la materialità del delitto di calunniasoltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato” (v. da ultimo, esattamente in termini, Sez. 2, sent. n. 14761 del 19.12.2017 – dep. 2018, Rv. 272754) posto che questo criterio ermeneutico inerisce non certo all’ipotesi di dichiarazioni che siano unicamente stravaganti, bensì a quella in cui la narrazione contempli la formulazione di un addebito di carattere penale e però attraverso circostanze talmente illogiche da non consentire la reale ipotizzabilità – come sintomaticamente afferma la massima citata – “del reato denunciato”.

Orbene, la Corte di Cassazione, dopo aver esaminato le risultanze probatorie, alla luce di siffatti principi di diritti, riteneva nella fattispecie in esame che, nei fatti rappresentati, difettasse la tipicità del reato di calunnia il che non poteva che indurre il Supremo Consesso a disporre l’annullamento senza rinvio della censurata sentenza per insussistenza del fatto.

Infine, per dovere di completezza argomentativa, si metteva in risalto il fatto che nella condotta dell’imputato, essendo configurabili gli estremi della diffamazione, risultava dirimente, per escludere la sussistenza del reato di calunnia, a prescindere da altre problematiche, la constatazione dell’assenza in atti del necessario atto di querela, cui non a caso le parti non avevano compiuto riferimenti di sorta e la mancanza del quale, non consentendo l’avvio del relativo procedimento penale, preclude in radice la configurabilità del reato di calunnia (cfr. per tutte, di recente, Sez. 6, sent. n. 335 del 29.11.2017 – dep. 2018, Rv. 272156).

Conclusioni

La sentenza in commento è assai interessante in quanto in essa si esamina compiutamente il delitto di calunnia.

In siffatta decisione, difatti, gli ermellini chiariscono molti profili applicativi inerenti l’art. 368 c.p. citando diverse pronunce che la Corte di Cassazione ha elaborato in subiecta materia.

In particolare, sono state richiamate quelle decisioni con cui i giudici di legittimità ordinaria hanno formulato i seguenti principi di diritto: a) il reato attribuito all’innocente deve corrispondere in ogni suo estremo ad una ben determinata fattispecie legale di delitto o di contravvenzione, con la conseguenza che non si può ravvisare il delitto di calunnia nel fatto di colui che attribuisca ad una persona una condotta non corrispondente ad alcuna fattispecie legale di reato e neppure quando il denunziante abbia dato un preciso nomen iuris al fatto addebitato all’incolpato; b) ai fini della configurabilità del delitto di calunnia, non si richiede l’inizio di un procedimento penale a carico della persona offesa, essendo bastevole che la falsa incolpazione contenga, su di un piano assolutamente oggettivo, gli elementi necessari e sufficienti per l’esercizio dell’azione penale nei confronti di una persona individuata o, comunque, agevolmente ed univocamente individuabile; c) deve escludersi la materialità del delitto di calunnia soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare – perché in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso – la concreta ipotizzabilità del reato denunciato; d) la constatazione dell’assenza in atti del necessario atto di querela, non consentendo l’avvio del relativo procedimento penale, preclude in radice la configurabilità del reato di calunnia.

Oltre a ciò, va rilevato che, in ordine al criterio ermeneutico di cui alla lettera c), la sentenza in questione riveste anche un certo grado di novità essendo ivi precisato che questo criterio ermeneutico inerisce non certo all’ipotesi di dichiarazioni che siano unicamente stravaganti, bensì a quella in cui la narrazione contempli la formulazione di un addebito di carattere penale e però attraverso circostanze talmente illogiche da non consentire la reale ipotizzabilità del reato denunciato.

Cotale pronuncia, dunque, può rappresentare un utile parametro di riferimento giurisprudenziale laddove si debba verificare la sussistenza o meno di questo illecito penale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, dunque, non può che essere positivo.

 

 

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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