Nelle cause per danni da infezione dovuta a emotrasfusioni, ai fini della prescrizione, spetta alla struttura sanitaria provare il momento in cui il paziente ha avuto conoscenza del contagio.

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Il fatto

Con la sentenza oggetto di commento, la Corte di Cassazione ha deciso un ricorso promosso dai congiunti di una paziente che aveva contratto il virus dell’epatite C a seguito di una trasfusione di sangue eseguita presso una struttura sanitaria pubblica.

In particolare, gli attori si erano rivolti al tribunale di Roma chiedendo la condanna del Ministero della Salute al risarcimento dei danni tutti subiti, sia in proprio che quali eredi della propria congiunta morta, per aver quest’ultima contratto l’infezione da virus HCV, in quanto ritenevano responsabile di tali danni il ministero per non aver la struttura sanitaria pubblica effettuato il controllo dovuto sul sangue che era stato utilizzato per le trasfusioni cui si era sottoposta la loro congiunta.

Il tribunale di Roma aveva accolto la domanda risarcitoria, ritenendo sussistente il relativo diritto, mentre la corte di appello di Roma la aveva invece rigettata ritenendo che il diritto al risarcimento del danno era ormai prescritto nel momento in cui detta domanda era stata formulata.

I congiunti della paziente contagiata hanno, quindi, esperito ricorso alla corte di cassazione, evidenziando l’erroneità della sentenza emessa dal giudice capitolino di seconde cure in quanto, a loro avviso, il termine di prescrizione della domanda di risarcimento per i danni dovuti ad infezioni causate da emotrasfusioni inizia a decorrere dal momento in cui viene proposta dal soggetto infettato la richiesta volta ad ottenere l’indennizzo previsto dalla legge numero 210 del 1992. Secondo i ricorrenti tale momento era da identificarsi nell’anno 2001 e pertanto alla data di introduzione della domanda giudiziale volta risarcimento del danno per il contagio (2010), il termine di prescrizione non poteva ritenersi decorso. In secondo luogo, i ricorrenti evidenziavano e lamentavano come la decisione di merito fosse errata anche con riferimento al termine di prescrizione da applicare nei casi di risarcimento danni per contagio da emotrasfusioni: infatti, a loro avviso, avrebbe dovuto applicarsi il termine di prescrizione decennale e non quello quinquennale applicato dalla corte capitolina sia per il risarcimento dei danni in proprio che per quello dei danni lamentati in via ereditaria dai ricorrenti.

La decisione della Suprema Corte

La corte di cassazione ha ritenuto fondato il ricorso ed ha accolto il motivo di impugnazione proposto con riferimento circa il dies a quo della decorrenza della prescrizione della domanda risarcitoria.

Preliminarmente, gli ermellini hanno evidenziato che, nonostante la erroneità della sentenza impugnata, questa abbia invece correttamente ritenuto che le due tipologie di danni invocati dai ricorrenti, quelli iure proprio e quelli iure hereditatis, abbiano un termine di prescrizione diverso.

In particolare, in via generale, la responsabilità per i danni da trasfusione di sangue infetto ha natura extra contrattuale e conseguentemente il termine di prescrizione è quello di cinque anni, che può essere esteso – se il fatto configura un reato – al numero di anni previsto per la prescrizione del reato. Tuttavia, evidenzia la suprema corte, nel caso in cui il soggetto contagiato deceda, il termine di prescrizione si diversifica a seconda che il danno sia quello subito dal paziente deceduto, richiesto per via ereditaria dai suoi congiunti, rispetto al caso in cui il danno sia quello subito direttamente dai congiunti e richiesto in proprio dai medesimi: nel primo caso, la prescrizione continua ad avere durata di cinque anni, in quanto il danno invocato è quello subito dal paziente durante la sua vita (e cioè il fatto di essere stato contagiato) e pertanto configura un danno da lesioni colpose (reato che è soggetto alla prescrizione quinquennale); nel secondo caso, invece, il termine di prescrizione è di 10 anni, in quanto il danno invocato è quello derivante dalla morte del congiunto e configura il reato di omicidio colposo (la cui prescrizione è invece decennale).

In considerazione di ciò, gli ermellini hanno ritenuto che comunque la decisione di rigettare per prescrizione la domanda di risarcimento del danno subito dalla paziente deceduta e richiesto in via ereditaria dai suoi congiunti fosse corretta.

Secondo la corte suprema, quindi, applicando il termine quinquennale di prescrizione alla suddetta domanda, si deve ritenere che nel momento in cui è stato introdotto il giudizio di risarcimento danni (cioè nel 2010), tale termine di prescrizione fosse ampiamente decorso, anche considerando come momento iniziale quello della proposizione della domanda di indennizzo ai sensi della legge del 1992 (avvenuto nel 2001).

Per quanto concerne, invece, i danni invocati in proprio dai congiunti, la suprema corte ha ritenuto che la corte capitolina abbia errato nella individuazione del momento iniziale di decorrenza della prescrizione.

Infatti, i giudici romani hanno rigettato la richiesta risarcitoria sul presupposto che la domanda giudiziale era stata introdotta 13 anni dopo che la congiunta era deceduta a causa dell’infezione e quasi 20 anni dopo che detta infezione si era manifestata.

Gli ermellini hanno ritenuto che tale ragionamento compiuto dal giudice di secondo grado non sia conforme all’orientamento dominante della corte di cassazione secondo cui il momento iniziale da cui far decorrere il termine di prescrizione per richiedere il risarcimento del danno dovuto a contagio per emotrasfusioni di sangue infetto è quello della presentazione della domanda amministrativa volta ad ottenere l’indennizzo previsto dalla legge numero 210 del 1992, a meno che la parte convenuta in giudizio non dimostri che il danneggiato conosceva o comunque avrebbe potuto conoscere, attraverso l’uso dell’ordinaria diligenza, di essere stato infettato a causa della trasfusione cui si era sottoposto. In tale ultimo caso, infatti, il termine di decorrenza della prescrizione deve essere anticipato alla data in cui il paziente ha avuto conoscenza del contagio dovuto alla trasfusione.

In altri termini, la regola generale è quella che vede l’individuazione del dies a quo con la data di deposito della domanda di indennità; momento da cui si fa derivare la presunzione di conoscenza iniziale, da parte del paziente, del contagio dovuto all’emotrasfusione. Tuttavia tale presunzione è superabile dimostrando l’esistenza di un momento anteriore in cui detto paziente ha conosciuto o comunque avrebbe dovuto conoscere, se avesse usato l’ordinaria diligenza, la malattia e il contagio subito.

Infine, gli ermellini ribadiscono che la suddetta prova idonea a vincere la presunzione poc’anzi accennata, può essere fornita da parte del galleggiante convenuto anche attraverso delle presunzioni semplici.

Anche se, ricorda la corte di cassazione, l’uso delle presunzioni semplici è escluso quando il fatto noto, che il convenuto vorrebbe impiegare come base da cui risalire al fatto non noto, sia un fatto incerto o addirittura una semplice ipotesi.

Ebbene, nel caso di specie, la corte di cassazione, richiamando un precedente identico a quello oggetto del suo esame, ha ritenuto che voler far derivare la conoscenza del contagio dovuto all’emotrasfusione semplicemente dalla scoperta da parte del paziente di aver contratto l’epatite C e/o dall’inizio delle relative cure, costituisce proprio una semplice ipotesi non idonea a configurare la presunzione che il paziente conoscesse o avrebbe dovuto conoscere da tale momento di aver contratto il virus a causa del contagio dovuto all’emotrasfusione.

In considerazione di ciò, i giudici hanno quindi cassato la sentenza impugnata.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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