Il patteggiamento di una pena detentiva anche nella forma c.d. allargata preclude l’applicazione della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater cod. pen.

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 Il fatto

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma applicava nei confronti di M. F., su sua richiesta, la pena di anni due, mesi nove e giorni dieci di reclusione in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 319 e 321 cod. pen. sub capo 1) e di cui agli artt. 319, 319-ter e 321 cod. pen. sub capo 2) e, con la medesima sentenza, veniva disposta la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque ex art. 371-bis cod. pen. e la confisca della somma di 330.000,00 euro ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen. nonché si ordinava all’imputato di pagare alla “ASL Roma 1la somma di 330.000,00 euro, a titolo di riparazione pecuniaria ex art. 322-quater cod. pen..

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione e i motivi nuovi

Avverso il suddetto provvedimento, veniva proposto ricorso avverso il provvedimento e se ne chiedeva l’annullamento con limitato riferimento alla disposta condanna al pagamento della riparazione pecuniaria per violazione di legge penale e processuale evidenziandosi al riguardo come il giudice avesse applicato una “pena illegale” là dove l’art. 322-quater cod. pen. prevede la riparazione pecuniaria esclusivamente in caso di “sentenza” propriamente detta – resa cioè all’esito del giudizio ordinario o abbreviato – e non anche di applicazione della pena.

In data 27 febbraio 2019, la difesa del F. presentava motivi nuovi ex art. 611 cod. proc. pen. con i quali, sotto diversi profili, sollecitava la Corte di Cassazione, «riconosciuta la propria competenza a conoscere della fase esecutiva del presente procedimento», a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lett. b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli “ostativi” alla concessione di alcuni benefici penitenziari, ai sensi dell’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, per rilevato contrasto con gli artt. 3, 24, 25, comma secondo, 27, comma terzo, e 117 Cost., 7 CEDU, nella parte in cui non prevede un regime intertemporale rilevandosi, a sostegno della deduzione, sotto un primo aspetto, come – avendo riguardo al combinato disposto degli artt. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354, in relazione ai delitti di cui agli artt. 319, 319-ter e 321 cod. pen. (contestati al F.) – in quanto inseriti nel novero dei reati di cui allo stesso art. 4-bis in virtù della novella con legge 9 gennaio 2019, n. 3 -, non sia più possibile sospendere l’ordine di esecuzione ai fini della richiesta di misure alternative alla detenzione in stato di libertà. In assenza di una disposizione transitoria regolativa dei limiti temporali di applicazione della nuova disciplina, con il passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento, l’emissione dell’ordine di carcerazione sarebbe stata pertanto “obbligata“, con una modifica peggiorativa del trattamento penitenziario in quanto “a sorpresa” atteso che, al momento in cui era stata avanzata la richiesta ex artt. 444 e 445 cod. proc. pen., F. avrebbe potuto ragionevolmente confidare che la sanzione sarebbe rimasta nei limiti di operatività delle misure alternative e dunque “senza assaggio di pena“.

Tal che se ne faceva dedurre come tale modifica in itinere delle “regole del gioco“, in quanto del tutto imponderabile all’atto dell’opzione in rito, si ponesse in evidente contrasto con l’art. 7 CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo  in situazioni analoghe – rilevante ai fini dell’art. 117 Cost. -, là dove viola il principio dell’affidamento quanto alla prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (v. per tutte Grande Camera 21 dicembre 2013, Del Rio Prada c. Spagna) stante il fatto che la novella normativa, nel modificare le modalità di esecuzione della pena – tradizionalmente ritenute avere valenza meramente processuale -, abbia nondimeno inciso direttamente sul contenuto afflittivo della pena e quindi sulla stessa “natura della sanzione“, di fatto tramutata da “alternativa” in “detentiva” tenuta altresì presente l’impostazione “sostanzialistica” e “antiformalista” ormai affermatasi nella giurisprudenza della Corte EDU in relazione ad istituti che presentano marcati tratti di analogia con il peculiare regime esecutivo imposto per i reati di cui al citato art. 4-bis (richiamata nuovamente la decisione della Grande Camera del 21 dicembre 2013, Del Rio Prada c. Spagna), tenuto conto che i mutamenti, con effetti concretamente peggiorativi sul regime della sanzione inflitta, devono ritenersi avere natura, non processuale, ma sostanziale, con conseguente inapplicabilità retroattiva.

Infine, la difesa censurava la costituzionalità dello stesso inserimento nel novero dei reati soggetti allo speciale regime di cui al citato art. 4-bis dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (in particolare, di quelli di cui agli art. 319, 319-ter e 321 cod. pen.) in quanto in chiaro contrasto con la funzione rieducativa della pena.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

La Suprema Corte reputava fondato il motivo dedotto con il ricorso principale alla stregua delle seguenti considerazioni.

Gli ermellini osservavano prima di tutto in via preliminare che l’art. 322-quater cod. pen., introdotto con la legge 27 maggio 2015, n. 69, prevede che, con “la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321 e 322-bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno” precisandosi al contempo come tale formulazione costituisca il frutto della modifica recentemente apportata con la legge 9 gennaio 2019, n. 3, là dove – ai fini della determinazione del quantum della riparazione pecuniaria – ha sostituito il riferimento a “quanto indebitamente ricevuto” dal funzionario pubblico con l’attuale riferimento alla “somma equivalente al prezzo o al profitto del reato”.

Chiarito ciò, i giudici di piazza Cavour facevano presente come la riparazione pecuniaria ex art. 322-quater cod. pen. abbia natura esclusivamente economica e si parametri al vantaggio di natura patrimoniale derivato dalla condotta (profitto) ovvero al compenso dato o promesso per commettere il reato (prezzo) (Sez. U del 03/07/1996, n. 9149, omissis, Rv. 205707) e dunque la riparazione va corrisposta in favore dell’amministrazione cui appartiene il pubblico agente, a prescindere e, se del caso, in aggiunta rispetto al risarcimento del danno cagionato al prestigio ed al buon funzionamento della pubblica amministrazione.

Oltre a ciò – una volta evidenziato come l’istituto de quo presentasse tratti di indubbio parallelismo con la “riparazione pecuniaria” prevista dall’art. 12 della legge 18 febbraio 1948, n. 47, applicabile in caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, là dove si applica “oltre al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 cod. pen.” – si sottolineava, come nei lavori preparatori della legge 27 maggio 2015, n. 69, il meccanismo della riparazione del danno, fissato in un’entità corrispondente a quanto indebitamente ricevuto, che deve essere versata a vantaggio dell’amministrazione di appartenenza, rappresenta una sanzione per l’infedeltà del pubblico ufficiale e per il danno cagionato all’amministrazione di appartenenza, con spiccata funzione dissuasiva.

Pertanto, osservava sempre la Corte in questa pronuncia, in linea con l’intentio legis del legislatore e con le indicazioni della migliore dottrina, nel lasciare del tutto impregiudicato il diritto della persona offesa al risarcimento del danno, a prescindere dalla denominazione, la riparazione muove dunque nella chiara prospettiva di realizzare un rafforzamento dell’armamentario sanzionatorio posto a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione.

Tal che se ne faceva conseguire come dovesse ritenersi che la riparazione pecuniaria costituisca – come quella prevista dal citato art. 12 della legge sulla stampa – una sanzione civile accessoria” alla condanna per i reati-presupposto di cui al catalogo dello stesso art. 322-quater cod. pen. e, di conseguenza, sempre secondo la Corte, l’istituto si presenta sotto forma di una “tipica” obbligazione civilistica – là dove ha un contenuto squisitamente economico ed è destinata alla persona offesa -, ma – giusta l’applicazione in termini di obbligatorietà, da parte del giudice penale, a prescindere dal danno civilisticamente inteso e dall’azione risarcitoria della parte civile, anche in aggiunta al risarcimento del danno – assume anche un’indubbia connotazione punitiva.

Pertanto, stante la natura latu sensu punitiva della riparazione pecuniaria, la relativa applicazione – in assenza dei presupposti di legge – è certamente riportabile secondo il Supremo Consesso all’alveo della “pena illegale” dando, dunque, luogo ad vizio coltivabile dinanzi a questa Corte ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen..

Tanto premesso quanto alla natura di “sanzione civile accessoria” della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater cod. pen. e alla sindacabilità nella sede di legittimità dell’applicazione di essa in violazione di legge, la Cassazione, a questo punto della disamina, reputava necessario rilevare, sotto diverso aspetto, come l’art. 322-quater cod. pen. preveda espressamente che la riparazione pecuniaria sia sempre ordinata con la “sentenza di condanna.

Orbene, riteneva il Collegio – condividendo l’assunto difensivo – che detta espressione debba ritenersi riferita al provvedimento conclusivo del giudizio ordinario o abbreviato ma non anche alla sentenza di applicazione della pena che, nel prescindere dall’accertamento positivo della penale responsabilità dell’imputato e giusta l’espressa previsione dell’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., è “solo” equiparata ad una pronuncia di condanna ritenendosi come a tale conclusione conducesse anche il dato sistematico là dove plurime disposizioni del codice penale – soprattutto quelle di recente introduzione anche nello specifico campo dei reati contro la pubblica amministrazione – confermano come il legislatore consideri eterogenea la “condanna” rispetto alla “applicazione della pena” ai fini delle ulteriori conseguenze penali derivanti dal reato quali sono le norme in tema di confisca obbligatoria di cui agli artt. 322-ter, 466-bis e 644, ultimo comma, cod. pen. le quali prevedono espressamente l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale anche in caso di sentenza di patteggiamento, in specifica deroga del disposto dell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen. ovvero il disposto dell’art. 609-nonies comma 1, cod. pen., nel quale il legislatore ha testualmente previsto l’applicazione delle pene accessorie e degli altri effetti penali in caso di “condanna” e di “applicazione della pena su richiesta delle parti“.

Non poteva, inoltre, sfuggire, ad avviso della Corte, come l’art. 322-quater cod. pen. sia stato inserito nel codice penale – nell’ambito del Titolo II, Capo I, dedicato alla disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. – immediatamente di seguito all’art. 322-ter che fa espresso riferimento, oltre alla “condanna“, anche alla “sentenza di applicazione della pena“.

Tirando le fila delle considerazioni che precedono, la Cassazione stimava come non fosse revocabile in dubbio la netta distinzione, ai fini delle varie conseguenze sanzionatorie ed effetti penali, fra “condanna” propriamente detta e “sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti“.

Una volta delineato il discrimen fra “condanna” e “sentenza di applicazione della pena“, riteneva allora il Collegio che la riparazione pecuniaria in oggetto – in quanto prevista soltanto per il caso di “condanna” – non potesse trovare applicazione non solo nel caso di patteggiamento ordinario, ma anche in caso di patteggiamento c.d. allargato.

Si metteva oltre tutto in risalto il fatto che nemmeno l’applicabilità della riparazione pecuniaria in caso di patteggiamento c.d. allargato potesse desumersi a contrariis dalla circostanza che, soltanto in caso di patteggiamento ordinario ex art. 445, comma 1, cod. proc. pen., l’imputato sia esente dall’applicazione delle “spese del procedimento“, “pene accessorie” e “misure di sicurezza” (salvo l’art. 240 cod. pen.) visto che la riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater cod. pen. presenta caratteristiche del tutto peculiari che la pongono su di un piano di eterogeneità rispetto ai tradizionali istituti “penalistici” e che ne rendono problematico l’inquadramento nelle categorie delle “pene accessorie” o delle “misure di sicurezza” costituendo essa piuttosto una sanzione di tipo civilistico sui generis nel panorama del nostro codice penale.

Da ciò se ne faceva inferire come detta connotazione ne impedisse allora l’applicazione al di fuori degli specifici casi nei quali essa sia espressamente prevista in ossequio ai principi di legalità e di tassatività in materia penale.

Si evidenziava per di più come una conferma – sia pure indiretta – della inapplicabilità della riparazione pecuniaria in entrambe le ipotesi di patteggiamento si traesse dall’art. 444, comma 1-ter, cod. proc. pen. – introdotto con la stessa legge n. 69 del 2015 che ha previsto l’art. 322-quater, c.p. là dove, nei procedimenti per i reati contro la pubblica amministrazione contemplati da tale disposizione, ha subordinato expressis verbis l’ammissibilità della richiesta di applicazione della pena “alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato” e con ciò senza fare alcuna menzione – né quale condizione, né quale effetto ulteriore – alla riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico agente, fra l’altro, anch’essa commisurata “al prezzo o al profitto del reato” (in eventuale aggiunta al risarcimento del danno).

Pertanto, alla stregua di questo quadro normativo di riferimento, gli ermellini reputavano come potesse allora sfuggire l’irragionevolezza di un’ermeneusi della norma che – nonostante l’assenza di una previsione espressa dell’applicabilità della riparazione pecuniaria anche in caso di sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. (nella forma ordinaria o c.d. allargata) – comportasse l’assoggettamento dell’imputato di taluno dei reati rientranti nel catalogo di cui all’art. 322-quater cod. pen. il quale intendesse appunto definire la propria posizione processuale con il patteggiamento, al doppio versamento di una somma eguale nel tantundem (pari appunto al prezzo o al profitto del reato), sia pure a titolo diverso (restitutorio e riparatorio) fermo restando che, stante la già rilevata non univocità della disposizione in oggetto quanto all’applicabilità della riparazione pecuniaria in caso di patteggiamento, la Corte considerava come non potesse non farsi ricorso al canone interpretativo generale in materia penale alla stregua del quale non può che essere privilegiata, fra due possibili opzioni, l’interpretazione in favor rei.

Si giungeva, infine, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, a enunciare il principio di diritto secondo il quale, in tema di reati contro la pubblica amministrazione, il patteggiamento di una pena detentiva anche nella forma c.d. allargata preclude l’applicazione della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater cod. pen., presupponendo essa la pronuncia di una sentenza di “condanna” propriamente detta, cioè resa a seguito di rito ordinario o abbreviato.

Venendo invece a trattare la questione di incostituzionalità dell’art. 6, comma 1, lett. b), legge 9 gennaio 2019, n. 3 là dove ha inserito i reati contro la pubblica amministrazione tra quelli “ostativi” ai sensi dell’art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354 senza prevedere un regime intertemporale, gli ermellini evidenziavano in via preliminare – sul piano dell’ammissibilità del motivo – che, la questione attenesse ad una disposizione entrata in vigore in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata e al deposito del ricorso originario, di tal che non avrebbe potuto essere prospettata dal F. all’atto della presentazione dell’impugnazione fermo restando come si fosse trattato di una sollecitazione rivolta a questa stessa Corte a sollevare la questione.

Posto ciò, i giudici di piazza Cavour mettevano in risalto il fatto che la questione di incostituzionalità, concernente l’assenza di un regime di diritto intertemporale, per quanto non manifestamente infondata, risultasse nondimeno non rilevante nella specie, per le seguenti ragioni.

Si conveniva prima di tutto con il ricorrente come l’omessa previsione di una disciplina transitoria circa l’applicabilità della disposizione (come novellata) potesse suscitare fondati dubbi di incostituzionalità in relazione ai riverberi processuali sull’ordine di esecuzione in quanto non più suscettibile di sospensione in forza della previsione dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. dovendosi considerare che, secondo il disposto della lettera a) del comma 9 dell’art. 656 cod. proc. pen., la sospensione dell’ordine di esecuzione della sentenza di condanna ad una pena detentiva non superiore a quattro anni (giusta anche la declaratoria d’incostituzionalità con sentenza della C. Cost. 2 marzo 2018, n. 41) per il termine di trenta giorni al fine di consentire al condannato in stato di libertà di avanzare istanza di concessione di una delle misure alternative previste dalla legge n. 354 del 1975 – sospensione prevista dal comma 5 dello stesso articolo – non possa essere disposta nei confronti dei condannati per i delitti di cui al citato art. 4-bis.

Orbene, avuto riguardo al “diritto vivente“, quale si connota alla luce del diritto positivo e della lettura giurisprudenziale fino ad ora consolidata a seguito della decisione delle Sezioni Unite del 2006, si evidenziava come le disposizioni, concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardassero l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena ma soltanto le modalità esecutive della stessa, essendo considerate norme penali processuali e non sostanziali e, pertanto, ritenute soggette – in assenza di una specifica disciplina transitoria – al principio tempus regit actum e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 cod. pen. e dall’art. 25 Cost. (Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, P omissis, Rv. 233976; Sez. 1, n. 46649 del 11/11/2009, omissis, Rv. 245511; Sez. 1, n. 11580 del 05/02/2013, omissis, Rv. 255310).

Pertanto, ad avviso della Corte, in applicazione di tale interpretazione, con riferimento ai reati ascritti al ricorrente, non sarebbe più possibile disporre la sospensione dell’esecuzione ai sensi del combinato disposto dell’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. in base all’art. 4-bis ord. penit. (come novellato nel gennaio 2019).

D’altra parte, osservava sempre la Corte in questa pronuncia, non è revocabile in dubbio che, nella più recente giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i concetti di illecito penale e di pena abbiano assunto una connotazione “antiformalista” e “sostanzialista“, privilegiandosi alla qualificazione formale data dall’ordinamento (all’”etichetta” assegnata), la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura imposta e significativa in tale senso è la pronuncia resa nel caso Del Rio Prada contro Spagna (del 21 ottobre 2013) là dove la Grande Camera della Corte EDU, nel ravvisare una violazione dell’art. 7 della Convenzione, aveva riconosciuto rilevanza anche al mutamento giurisprudenziale in tema di un istituto riportabile alla liberazione anticipata prevista dal nostro ordinamento in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi giungendo dunque ad affermare che, ai fini del rispetto del “principio dell’affidamento” del consociato circa la “prevedibilità della sanzione penale“, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione (sebbene – in quel caso – l’istituto avesse diretto riverbero sulla durata della pena da scontare).

Alla luce di tale approdo della giurisprudenza di Strasburgo, ad avviso della Corte, dunque, non sarebbe stata manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola“, senza prevedere alcuna norma transitoria, presenti tratti di dubbia conformità con l’art. 7 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., là dove si traduce, per il F., nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione stante il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9 lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis ord. penit.

D’altronde, in precedenza, evidenziavano sempre i giudici di legittimità ordinaria, il legislatore aveva adottato disposizioni transitorie finalizzate a temperare il principio di immediata applicazione delle modifiche all’art. 4-bis ord. penit., quali quelle contenute nell’art. 4 d.l. n. 13 maggio 1991, n. 152, e nell’art. 4, comma 1, I. 23 dicembre 2002, n. 279 (che inseriva i reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 cod. pen. nell’art. 4-bis cit.), limitandone l’applicabilità ai soli reati commessi successivamente all’entrata in vigore della legge.

Tuttavia, pur a fronte di ciò, gli ermellini evidenziavano come, secondo la stessa prospettazione del ricorrente, i delineati profili di incostituzionalità riguardassero, a ben vedere, non al patto stipulato fra le parti e ratificato dal giudice, né alla pena applicata su richiesta – di per sé validi e “indifferenti” alla novella normativa del 2019 -, bensì alla mera esecuzione della sanzione incidendo sulla sospendibilità, rectius non sospendibilità, dell’ordine di esecuzione osservandosi al contempo, come la conferma evidente di tale assunto si traeva dalla stessa premessa del ricorrente là dove si sollecitava la Corte di Cassazione a promuovere l’incidente di costituzionalità “riconosciuta la propria competenza a conoscere della fase esecutiva del presente procedimento” e con ciò trascurando di considerare come, a norma dell’art. 665 cod. proc. pen., la Corte di cassazione non sia mai giudice dell’esecuzione del provvedimento oggetto di impugnazione; in altri termini, secondo il Supremo Consesso, la questione di incostituzionalità prospettata afferisce non alla sentenza di patteggiamento oggetto del presente ricorso, ma all’esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza e dunque ad uno snodo processuale diverso nonché logicamente e temporalmente successivo, di talché, ai fini della decisione, non rileva, potendo se del caso essere riproposta in sede di incidente di esecuzione, ma non deducibile, come appena visto, in sede di legittimità.

In conclusione, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, in accoglimento del motivo dedotto con il ricorso principale, la sentenza impugnata veniva annullata senza rinvio nella parte in cui era ordinato all’imputato, ai sensi dell’art. 322-quater cod. pen., di pagare alla ASL Roma1 la somma di euro 330.00 a titolo di riparazione pecuniaria mentre veniva invece rigettate le questioni di costituzionalità, fatte valere con i motivi nuovi, perché non rilevanti.

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Conclusioni

La sentenza in questione è sicuramente condivisibile.

Gli ermellini, difatti, sono giunti a postulare il principio di diritto secondo cui, in tema di reati contro la pubblica amministrazione, il patteggiamento di una pena detentiva anche nella forma c.d. allargata preclude l’applicazione della riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater cod. pen., presupponendo essa la pronuncia di una sentenza di “condanna” propriamente detta, cioè resa a seguito di rito ordinario o abbreviato dopo una lunga e articolata disamina giuridica in cui si è messo in risalto, anche attraverso il richiamo a diversi precetti normativi, la netta distinzione, ai fini delle varie conseguenze sanzionatorie ed effetti penali, fra “condanna” propriamente detta e “sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti“.

E dunque, proprio perché la riparazione pecuniaria di cui all’art. 322-quater c.p. è prevista soltanto per il caso di “condanna“, si è ritenuta come essa non potesse trovare applicazione non solo nel caso di patteggiamento ordinario, ma anche in caso di patteggiamento c.d. allargato.

Da ciò deriva che, ove invece la riparazione in questione sia disposta ove si applichi la pena su richiesta delle parti, ben potrà essere impugnato un provvedimento di questo genere dinnanzi alla Cassazione richiamandosi a tal proposito la decisione qui in commento.

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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