Il riparto di responsabilità tra conducente e pedone

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Il caso

Tizio e altri ricorrenti convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Frosinone, Caio e Sempronio e l’INA Assitalia s.p.a. – quest’ultima in qualità di impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada – chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni subiti nell’incidente stradale nel quale la propria congiunta era stata investita dal motociclo, sprovvisto di copertura assicurativa, condotto da Caio e di proprietà di Sempronio, morendo poche ore dopo.

Si costituirono in giudizio i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda e proponendo domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni patiti nell’incidente dal conducente del motociclo.

Il Tribunale, accertando che la responsabilità del sinistro era da ricondurre per il 70% alla defunta vittima e per il 30% a Caio, condannò i convenuti al pagamento della somma complessiva di Euro 445.000 per tutti i danneggiati e gli attori al pagamento, in favore di Caio, della somma di Euro 54.130,16, con compensazione delle spese di giudizio.

La pronuncia è stata impugnata in via principale da Caio e dalla società di assicurazione, e in via incidentale dai familiari della vittima; la Corte d’appello di Roma, con sentenza dell’8 gennaio 2018, ha accolto l’appello principale e, in riforma dell’impugnata sentenza, ha accertato la responsabilità esclusiva della vittima nella determinazione del sinistro, condannando gli appellanti incidentali al pagamento, in favore di Caio, della somma complessiva di Euro 101.867, 08, oltre interessi e con il carico delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma ricorrono Tizio e i familiari della vittima affidandosi a due motivi.

I motivi di ricorso

Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Sostengono i ricorrenti che la sentenza non avrebbe tenuto conto del fatto, risultante dallo schizzo planimetrico redatto dai Carabinieri, che la vittima dopo l’investimento era stata trascinata per circa 9,50 metri, il che sarebbe incompatibile con la velocità moderata cui la Corte d’appello ha fatto riferimento; così come la sentenza non avrebbe considerato che il punto dell’impatto si trovava all’imbocco della curva, per cui il pedone doveva essere visibile ad una persona che avesse tenuto un’attenta condotta di guida.

Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 2054 co.1 c.c.

Rilevano i ricorrenti che la disposizione invocata esige, per il superamento della presunzione di responsabilità ivi regolata, che il conducente dimostri di aver compiuto tutto quanto necessario per evitare il sinistro. Tale dimostrazione non sarebbe stata data dal conducente nè la sentenza consentirebbe di comprendere per quale ragione egli sia stato ritenuto esente da ogni responsabilità.

La decisione della Corte

Per ragioni di economia processuale la Suprema Corte ha esaminato il ricorso cominciando dal secondo motivo ritenendolo fondato.

La Corte parte dall’assunto che, come affermato anche di recente dalla giurisprudenza di legittimità, l’accertamento del comportamento colposo del pedone investito da un veicolo non è sufficiente per l’affermazione della sua esclusiva responsabilità, essendo pur sempre necessario che l’investitore vinca la presunzione di colpa posta a suo carico dall’art. 2054 co. 1 c.c., dimostrando di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e tenendo conto che, a tal fine, neanche rileva l’anomalia della condotta del primo, ma occorre la prova che la stessa non fosse ragionevolmente prevedibile e che il conducente avesse adottato tutte le cautele esigibili in relazione alle circostanze del caso concreto, anche sotto il profilo della velocità di guida mantenuta (v. le sentenze 5 marzo 2013, n. 5399, e 4 aprile 2017, n. 8663).

Tale pronuncia è in linea con altri precedenti della Corte, nei quali si è detto che in caso di investimento di un pedone, la responsabilità del conducente è esclusa quando risulti provato che non vi era, da parte di quest’ultimo, alcuna possibilità di prevenire l’evento, situazione ricorrente allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile ed anormale, sicché l’automobilista si sia trovato nell’oggettiva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti (ordinanza 22 febbraio 2017, n. 4551).

Da tale orientamento risulta che non è sufficiente la dimostrazione dell’imprevedibilità del comportamento del pedone, dovendo comunque il conducente investitore superare l’invocata presunzione, con dimostrazione di aver fatto tutto quanto possibile per evitare il danno.
Nella specie, la Corte d’appello non ha fatto integralmente buon governo di tali principi.

La sentenza, infatti, dopo aver indicato qual era lo stato dei luoghi, ha ritenuto “imprevedibile non solo l’avvistamento del pedone in tempo utile per l’adozione di una manovra di emergenza” ma anche la stessa presenza del pedone in quel contesto (strada stretta, margine angusto, assenza di marciapiede o banchina sul lato destro, presenza di un costone roccioso).

Manca, però, ogni accertamento positivo in ordine all’effettiva piena correttezza del comportamento del conducente investitore, soprattutto per quanto riguarda la prova, da parte sua, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Ed infatti, a parte la perplessità manifestata dalla Corte di merito in ordine alla velocità tenuta dal motociclista, la situazione dei luoghi poteva anche esigere, in astratto, una velocità ben inferiore ai limiti imposti.

Nè la sentenza afferma alcunché in ordine alla circostanza del trascinamento della vittima (che, di per sé, potrebbe essere indice di una velocità non consona allo stato dei luoghi).
Non si possono trascurare, inoltre, altri due elementi: da un lato, il fatto che l’incidente è avvenuto in una strada urbana, nella quale necessariamente è doveroso ipotizzare la possibile presenza di pedoni; dall’altro, che il conducente di un mezzo, sia esso motociclo o motoveicolo, è tenuto comunque a mantenere una velocità che gli consenta, anche in rapporto all’illuminazione esistente, di arrestare il mezzo in un tempo utile ad evitare un incidente; la circostanza del trascinamento della vittima dopo l’urto dovrà quindi essere valutata dal giudice di rinvio anche alla luce di questa previsione.

Sulla base delle predette argomentazioni la Suprema Corte ha accolto il secondo motivo di ricorso, con assorbimento del primo, e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, la quale dovrà provvedere ad un nuovo esame del merito alla luce dei criteri indicati nella pronuncia.
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Avv. Mazzei Martina

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