Per la configurabilità del delitto di autoriciclaggio è necessario che la condotta sia idonea ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni

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Il fatto

Il Tribunale del riesame di Catanzaro parzialmente riformava, in seguito a istanza di riesame dell’indagato, l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Paola che aveva applicato a G. D. M. la misura cautelare della custodia in carcere per reati di bancarotta fraudolenta per distrazione e di autoriciclaggio.

La riforma era consistita nell’annullamento dell’ordinanza genetica quanto al reato di autoriciclaggio e nella sostituzione della misura carceraria con gli arresti domiciliari in ordine alla fattispecie superstite.

In particolare, i fatti addebitati provvisoriamente all’indagato riguardavano la bancarotta fraudolenta per distrazione consistita nella stipula di un contratto di affitto di ramo di azienda simulato, della durata di otto anni, tra la D. M. Costruzioni s.r.l. (rappresentata dal padre dell’odierno ricorrente, G. D. M., società dichiarata fallita nel giugno 2016) e la I. costruzioni D. M. s.r.I., di cui era legale rappresentante G. D. M., contratto cui corrispondeva un canone annuale non congruo e con il quale, secondo l’accusa convalidata dal Tribunale del riesame, erano stati ceduti anche appalti milionari. L’autoriciclaggio a sua volta sarebbe consistito — secondo la contestazione del pubblico ministero non avallata dal Tribunale del riesame — nell’utilizzazione dei beni e delle attività del ramo di azienda affittato per l’aggiudicazione di gare di appalto con conseguente effetto di confusione patrimoniale tra i beni che hanno formato oggetto del predetto contratto e quelli già rientranti nel patrimonio della Immobiliare costruzioni D. M. s.r.l..

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Contro l’ordinanza anzidetta presentavano ricorso sia l’indagato che il pubblico ministero.

Il ricorso proposto nell’interesse dell’indagato constava di due motivi così formulati: 1) vizio di motivazione e violazione di legge posto che, secondo la parte, l’assunto del Tribunale del riesame circa la natura distruttiva del contratto di affitto di ramo di azienda — nonché della cessione delle attestazioni SOA e dei flussi finanziari oggetto del contratto di appalto — alla I. Costruzioni D. M. s.r.l., era errato in quanto la D. M. costruzioni s.r.l. non aveva mai avuto la disponibilità materiale e giuridica dell’azienda vendutale dalla ditta individuale D. M. G. (né delle attestazioni SOA e dei flussi finanziari oggetto dei contratti di appalto con l’amministrazione provinciale di C. e con il Comune di L.) visto che la ditta aveva affittato detta azienda alla I. Costruzioni D. M. s.r.l. fin dal 21 dicembre 2007; dunque, secondo questo ricorrente, a dispetto di quanto ritenuto dal Tribunale del riesame, il fallimento era stato causato da un consistente debito nei confronti di una società finanziaria risalente ad almeno dieci anni prima fermo restando che in ogni caso l’affitto del ramo di azienda, inerendo a beni comunque rimasti nella proprietà della società fallita, non aveva comportato la loro sottrazione ai creditori oltre ad essere smentito per tabulas il fatto che il ramo di azienda in questione costituisse la voce principale della società D. M. costruzioni s.r.l. sulla quale i creditori facevano affidamento giacché la massa creditoria si era formata ben prima del contratto del 24 maggio 2011; in conclusione, il reato de quo — sosteneva il ricorrente — non sarebbe stato configurabile né da un punto di vista oggettivo, né soggettivo; 2) vizio di motivazione e violazione di legge per quel che riguarda il profilo delle esigenze cautelari e la scelta della misura poiché sarebbe stato erroneo il ragionamento del Tribunale del riesame allorché era stato ritenuto il pericolo di recidiva nonostante il fallimento della D. M. costruzioni s.r.l. fosse stato chiuso nel 2017 e l’altra società della famiglia D. M., la I. D. M. costruzioni s.r.l. non avesse alcuna esposizione debitoria; tal che se ne faceva conseguire come, in mancanza dell’apertura o della pendenza di una procedura fallimentare, non vi sarebbe stato il pericolo di recidiva mentre il giudizio circa le esigenze cautelari – sempre ad avviso del ricorrente – sarebbe stato tratto o da intercettazioni inutilizzabili perché effettuate in altro procedimento, o da intercettazioni in cui l’indagato non veniva proprio menzionato o da intercettazioni malamente interpretate.

Oltre a queste considerazioni, il ricorrente lamentava l’utilizzo di proposizioni congetturali alla base del giudizio cautelare, la già avvenuta elisione delle esigenze cautelari con le misure disposte ex d.lgs. 231 del 2001 nonché la possibilità di soddisfarle con la meno afflittiva misura cautelare interdittiva sostenendosi infine che il Tribunale del riesame non aveva considerato la personalità concreta dell’indagato, incensurato e privo di altre pendenze giudiziarie.

A sua volta il ricorso del pubblico ministero si componeva di un unico motivo con cui la parte contestava la conclusione a cui era giunto il Tribunale del riesame in tema di autoriciclaggio circa l’inesistenza di un quid pluris eloquente di una particolare idoneità dissimulatoria della provenienza delittuosa dei beni nelle condotte integranti la contestazione ex art. 648-terl cod. pen.; il pubblico ministero ricorrente, inoltre, rievocava i contratti di affitto ed il contratto di vendita di ramo di azienda che avevano coinvolto la ditta individuale D. M. G., la S. costruzioni s.r.l. (già D. M. Costruzioni s.r.I.) e la I. costruzioni D. M.; tali condotte avrebbero evidenziato, secondo la pubblica accusa, l’intenzione di sottrarre beni e utilità finanziarie al fine di reimmetterle nel circuito economico finanziario atteso che gli indagati avevano prima distratto come contestato ai capi a), b) e c) e successivamente destinato tali beni e utilità, anziché al soddisfacimento dei creditori sociali, al conseguimento di remunerativi appalti pubblici tutti aggiudicati utilizzando il ramo di azienda oggetto dei contratti di affitto/cessione e, di conseguenza, i beni non erano stati utilizzati e goduti personalmente ma impiegati in attività economiche e finanziarie, né la circostanza che le operazioni fossero tracciabili escludeva la sussistenza del reato.

Si osservava da ultimo come la confusione tra i patrimoni delle società avesse impedito la soddisfazione dei creditori giacché la procedura era stata chiusa per mancanza di attivo.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso dell’imputato veniva stimato complessivamente infondato e, in quanto tale, da doversi respingere con conseguente condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali.

Si osservava a tal proposito come il primo motivo di ricorso — che predicava la natura non distrattiva del contratto di affitto di ramo di azienda da parte della “D. M. Costruzioni s.r.l.” alla “I. Costruzioni D. M. s.r.l.”— fosse infondato in quanto affrontava un profilo del provvedimento che era immune da vizi motivazionali o di diritto dato che il Tribunale del riesame era partito da una premessa giuridicamente ineccepibile, vale a dire quella secondo cui integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il contratto di affitto d’azienda stipulato in previsione del fallimento (Sez. 5, n. 16748 del 13/02/2018), per  poi addivenire a postulare che la fraudolenza dell’operazione può essere desunta sia dal fatto che l’affitto venga stipulato con canoni incongrui o simulati (Sez. 5, n. 44891 del 9 ottobre 2008), sia dalla circostanza che la stipula avvenga al preciso scopo di trasferire la disponibilità dei beni societari ad altro soggetto giuridico in previsione del fallimento (Sez. 5, n. 46508 del 27 novembre 2008; Sez. 5, n. 3302 del 28 gennaio 1998; Sez. 5, n. 11207 del 29 ottobre 1993).

Orbene, alla stregua di tali criteri ermeneutici, il Supremo Consesso faceva presente come, nel caso di specie, il Collegio di merito avesse rilevato la presenza di plurimi indici di fraudolenza, rappresentati dalla pattuizione di un prezzo irrisorio, dalla parentela tra il legale rappresentante della società cedente e di quella cessionaria, dalla dismissione, immediatamente successiva, della società “D. M. Costruzioni” e dall’emersione di uno stato di decozione di quest’ultima nonché dalla ripetizione dello stesso schema depauperativo che, anni prima, aveva accompagnato l’affitto dalla ditta individuale “D. M. G.” alla immobiliare di famiglia; elementi questi che, ad avviso della Corte, denotano, senza incorrere in tratti di manifesta illogicità, l’operazione attuata come preordinata alla spoliazione della società poi fallita in favore di altra realtà imprenditoriale facente capo al medesimo assetto familiare.

Oltre a ciò, veniva altresì rilevato come non fosse poi del pari manifestamente illogica la risposta che il Tribunale del riesame aveva fornito alla doglianza circa il fatto che l’azienda non era mai stata nella disponibilità materiale e giuridica della società poi fallita posto che i giudici del riesame avevano evidenziato, da una parte, il lasso temporale che era intercorso tra il primo contratto di vendita — ottobre 2010 — e la stipula del contratto di affitto — giugno 2011; dall’altra, la rilevanza economica di detto contratto nell’ambito del patrimonio della società D. M. costruzioni s.r.l. e, quindi, la sua assoluta preminenza nel quadro della garanzia patrimoniale a disposizione dei creditori oltre l’ininfluenza della circostanza che l’azienda fosse stata gestita da altra società rispetto alla titolarità di essa in capo alla fallita tanto più rilevante in quanto attinente ad un compendio redditizio.

Il motivo di ricorso, che verteva sulle esigenze cautelari, veniva stimato inammissibile stante il fatto che esso, secondo la Corte, ignorava quanto evidenziato dal Tribunale del riesame circa l’inclinazione alla commissione di condotte analoghe già manifestata da G. D. M. che, appena all’indomani della maggiore età, era stato già coinvolto in un’operazione analoga che aveva pregiudicato la ditta individuale “D. M. G.” così come non cogliesse nel segno l’impugnativa quando evidenziava l’assenza del rischio di commissione di condotte analoghe perché l’altra società di famiglia era in ottime condizioni ovvero perché non era pendente nessun’altra procedura fallimentare dato che, a parte l’assertività della riflessione, si evidenziava come il rischio di recidiva non richieda che vi sia un’impresa già in decozione o addirittura fallita ben potendo le condotte spoliative essere poste in essere, a discapito dei creditori sociali, anche in relazione ad imprese per cui non si appalesino ancora indici di criticità nonché ad imprese eventualmente diverse da quella già note nel patrimonio familiare.

Oltre tutto, si sottolineava come il ricorso fosse poi aspecifico quando si doleva dell’inutilizzabilità di intercettazioni che non riguardavano la posizione di G. D. M., ma quella del padre o del fratello mentre tentava di proporre una diversa lettura in fatto delle recenti captazioni che evidenziavano l’attivismo di G. D. M. procedendosi in tal guisa ad una rilettura inammissibile in sede di legittimità laddove le proposizioni adoperate dal Tribunale del riesame non erano caratterizzate da manifesta illogicità.

Il ricorso, infine, veniva ritenuto carente di confronto con l’ordinanza avversata nella misura in cui ignorava l’argomentazione del Tribunale del riesame circa l’attivismo che, nonostante le perquisizioni della Guardia di Finanza, già aveva contraddistinto l’agire dell’indagato e che costituiva un valido indice predittivo della sua irriducibile propensione alla commissione di condotte analoghe rilevandosi a tal proposito come le Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, avessero di recente ribadito un concetto già accreditato nella giurisprudenza della Cassazione secondo cui i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili, non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.

Anche il ricorso del pubblico ministero veniva reputato infondato.

Si addiveniva a tale giudizio facendo seguito a quella giurisprudenza nomofilattica, menzionata anche dal Tribunale del riesame, secondo cui non integra la condotta di autoriciclaggio il mero trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare a favore di imprese operative occorrendo a tal fine un quid pluris che denoti l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene (Sez. 5, n. 8851 del 01/02/2019) giacché il ragionamento svolto in quest’ultima pronunzia poteva essere integralmente mutuato nel caso di specie.

A tale riguardo, i giudici di piazza Cavour reputavano necessario osservare che, come evincibile dal dato letterale e come sostenuto dalla Sez. 2, n. 33074 del 14/07/2016, la norma sull’autoriciclaggio punisce soltanto quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano però la caratteristica precipua di essere idonee ad «ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa» e, dunque, il dettato normativo, ad avviso della Corte, induce a ritenere che si tratti di fattispecie di pericolo concreto dal momento che esso non lascia dubbi circa la necessità che il Giudice penale debba valutare l’idoneità specifica della condotta posta in essere dall’agente ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni.

Di conseguenza, alla luce di tale approdo ermeneutico, gli ermellini ritenevano che, a reputare integrata tale idoneità, non bastava che i beni aziendali della “D. M. Costruzioni s.r.l.” fossero confluiti nella “I. D. M.” e che quest’ultima li avesse poi utilizzati nel normale svolgimento dell’attività di impresa atteso che sarebbe stato invece necessario che la condotta specifica fosse connotata da un quid pluris eloquente di una particolare idoneità dissimulatoria rispetto all’origine dei beni anzidetti.

Si evidenziava a tal riguardo che, a sostegno detta scelta ermeneutica, militasse il dato letterale laddove il legislatore ha inteso rimarcare non solo l’impiego in attività imprenditoriali  e l’idoneità dissimulatoria della condotta ma ha anche preteso, come sopra osservato, che tale idoneità dissimulatoria sia “concreta” il che, secondo la Corte, costituisce un indicatore che la volontà legislativa richieda un contegno che vada oltre la mera ricezione del bene proveniente da reato.

Oltre a quanto sin qui esposto, il Supremo Consesso metteva in risalto il fatto che l’altra riflessione che avvalorava la tesi della necessità di un quid pluris fosse incentrata sui rapporti della fattispecie con il reato di bancarotta laddove ritenere punibile come autoriciclaggio il mero trasferimento di beni distratti verso imprese (sul solo presupposto della fisiologica destinazione delle medesime all’operatività aziendale di queste ultime), secondo la Corte, finirebbe per sanzionare penalmente due volte la stessa condotta quando le somme sottratte alla garanzia patrimoniale dei creditori sociali siano dirette verso imprenditori generando, rispetto a tale situazione specifica, un’ingiustificata sovrapposizione punitiva tra la norma sulla bancarotta e quella ex art. 648ter.1 cod. pen. tenuto conto altresì del fatto che, a conforto di detta interpretazione, vi è anche un recente precedente che, sia pure allo scopo di tracciare la differenza tra profitto del reato presupposto e profitto dell’autoriciclaggio ai fini della confisca, ha sancito un principio coerente con un’esegesi che esalta la necessità che la condotta ex art. 648ter.1 cod. pen. sia fondata su un segmento ulteriore rispetto alla condotta del reato presupposto, vale a dire Sez. 2, n. 30401 del 07/06/2018, secondo cui il prodotto, il profitto o il prezzo dell’autoriciclaggio non coincide con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto consistendo invece nei proventi conseguiti dall’impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative.

Tal che se ne faceva discendere come l’impostazione esegetica fatta propria dalla Corte territoriale naturalmente portasse con sé un significativo corollario in punto di accertamento probatorio in quanto il Giudice di merito — proprio come aveva fatto il Tribunale di Catanzaro — aveva il dovere di verificare la sussistenza di questo quid pluris, verifica che, nella specie, si era conclusa negativamente e che, per le considerazioni suesposte, appariva essere incensurabile.

Conclusioni

La decisione in commento è assai interessante specialmente nella parte in cui si precisa che, in materia di autoriciclaggio, è necessario che il giudice penale valuti l’idoneità specifica della condotta posta in essere dall’agente ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni non essendo sufficiente la mera ricezione del bene proveniente da reato.

Va da sé dunque, perlomeno alla stregua di questo orientamento nomofilattico, che, ogni volta in cui viene ritenuto configurabile il reato previsto dall’art. 648ter-1 c.p. solo per la mera ricezione di beni di provenienza illecita ma senza verificare al contempo se l’identificazione della provenienza delittuosa di questi beni sia stata concretamente impedita dall’autore di questo illecito penale, ben potrà elaborarsi una valida linea difensiva volta a sostenere l’insussistenza di siffatto illecito penale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale pronuncia, proprio perché chiarisce quando possa ritenersi configurabile il delitto di autoriciclaggio, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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