Quando l’amministratore di diritto risponde, sotto il profilo soggettivo, del delitto di bancarotta fraudolenta: un chiarimento da parte della Cassazione

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 (Ricorso rigettato)

Il fatto

La Corte d’appello di Milano confermava una sentenza del locale Tribunale con la quale l’imputato, in qualità di amministratore di una s.r.l. dichiarata fallita, era stato condannato, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione, per i reati di bancarotta fraudolenta documentale, e per aver cagionato, per effetto di operazioni dolose, il fallimento della società ex art. 223, comma 2, n. 2 L. Fall., con un debito erariale di oltre 22 milioni di Euro.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Avverso la predetta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando due motivi così enunciati: 1) vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione alla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 2 e art. 223, comma 2, difettando l’elemento soggettivo dei reati contestati fondandosi la condanna dell’imputato esclusivamente sulla carica formale rivestita, insufficiente per l’affermazione di penale responsabilità; in particolare, si censurava l’affermazione della Corte d’appello relativa alla sussistenza di un compenso per l’accettazione della carica, desunta dai giudici di merito in termini meramente congetturali, e, comunque, per il ricorrente, non si sarebbe potuta desumere la partecipazione psicologica dell’imputato ai fatti di cui in imputazione tenuto conto del titolo di studio posseduto (riconducibile ad un diploma di terza elementare ed allo svolgimento di lavori manuali) nonché delle caratteristiche della società, quale “cartiera“, solo apparentemente attiva, strumentalizzata nell’ambito di cd. frodi carosello rilevandosi al contempo come l’imputato fosse stato del tutto estraneo alle attività gestorie della società che, invece, facevano capo all’amministratore di fatto;
2) vizio di violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sull’aggravante alla luce del ruolo ricoperto nella vicenda dall’imputato inconsapevole delle conseguenze del ruolo rivestito.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 

Il ricorso veniva rigettato per i seguenti motivi.

Si osservava a tal proposito in particolare come i giudici d’appello avessero fatto corretta applicazione dei principi più volte affermati dalla Cassazione secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo svolga attività illecita la quale non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia accettato di ricoprire formalmente la carica di amministratore; tuttavia, allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale (arg. ex Sez. 5, n. 7332 del 07/01/2015).

Specificamente, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, poi, l’amministratore di diritto risponde di tale reato, anche se sia investito solo formalmente dell’amministrazione della società fallita (cosiddetta testa di legno), in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le predette scritture, purché sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017).
Inoltre, in tema di bancarotta fraudolenta, per integrare il dolo dell’amministratore di diritto è sufficiente la generica consapevolezza che l’amministratore di fatto compia una delle condotte indicate nella norma incriminatrice senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l’elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale (arg. ex Cass. n. 38712/2008 e Sez. 5, Sentenza n. 17670 del 2011).

Tanto premesso, veniva rilevato come sia il giudice di primo grado – all’esito del giudizio abbreviato – che i giudici d’appello, avessero ricavato la consapevolezza da parte dell’imputato dell’attività illecita svolta dalla società ed, in particolare, dall’amministratore di fatto, non dal ruolo formale rivestito dall’imputato, bensì dalle dichiarazioni da lui stesso rese al curatore circa l’elevato fatturato della società fallita la quale, a fronte della sistematica sottrazione agli oneri fiscali, era stata condotta al completo depauperamento e conseguentemente al fallimento.

A fronte di ciò, sulla piena utilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’amministratore della società, si stimava sufficiente richiamare l’indirizzo della Cassazione secondo cui le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all’art. 63 c.p.p., comma 2, che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria in quanto il curatore non rientra tra dette categorie di soggetti e la sua attività non è riconducibile alla previsione di cui all’art. 220 disp. att. c.p.p. che concerne le attività ispettive e di vigilanza (Sez. 5, n. 12338 del 30/11/2017).

Sulla base, dunque, delle dichiarazioni suddette, ad avviso del Supremo Consesso si ricavava – come rilevato dai giudici di merito senza illogicità – come l’imputato non fosse stato all’oscuro delle vicende societarie ma pienamente consapevole di esse anche laddove aveva affermato come la società non avesse un magazzino e che egli conoscesse il soggetto che gestiva la contabilità e quantificava il fatturato.

Tale consapevolezza, per la Suprema Corte, appariva essere pienamente sufficiente ad integrare nei confronti dell’imputato l’elemento psicologico ossia il dolo generico dei reati in contestazione (fattispecie della tenuta delle scritture contabili in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, nonché fattispecie del fallimento conseguente ad operazioni dolose).

Tal che se giungeva alla conclusione secondo cui poteva affermarsi che, ove l’imputato, amministratore formale di una società, dimostri di avere contezza – sia pure non nei dettagli – delle attività illecite compiute tramite l’amministratore di fatto dalla società da lui gestita, rivelando al curatore, come nella fattispecie, notizie all’uopo significative, deve ritenersi integrato il dolo generico necessario per la configurabilità dei reati fallimentari a lui ascritti richiedenti appunto tale elemento psicologico.

In merito, poi, alla percezione di un compenso da parte dell’imputato per l’attività di amministratore svolta, osservavano sempre i giudici di piazza Cavour, tale evenienza era stata addotta dalla Corte territoriale in termini di verosimiglianza e, comunque, non costituiva una argomentazione concretamente significativa rispetto a quanto evidenziato in relazione all’elemento psicologico.

Da ultimo, manifestamente infondato si presentava per la Corte di legittimità il secondo motivo di ricorso circa la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti ritenendo come non meritasse alcuna censura la valutazione della Corte territoriale che aveva ritenuto adeguato l’operato giudizio di equivalenza del primo giudice specie in considerazione del rilevante passivo (oltre 22 milioni di Euro) accumulato dalla società e rilevando al contempo come fosse sul punto sufficiente richiamare i principi più volte affermati dalla Cassazione secondo cui, in tema di concorso di circostanze, le statuizioni, relative al giudizio di comparazione tra aggravanti ed attenuanti, sono censurabili in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell’equivalenza. (Sez. 5, n. 5579 del 26/09/2013).

Conclusioni

 

La decisione in esame è interessante nella parte in cui si spiega quando l’amministratore di diritto risponde, sotto il profilo soggettivo, del delitto di bancarotta fraudolenta.

Difatti, citandosi precedenti conformi, in tale provvedimento, è postulato che, in tema di bancarotta fraudolenta, per integrare il dolo dell’amministratore di diritto è sufficiente la generica consapevolezza che l’amministratore di fatto compia una delle condotte indicate nella norma incriminatrice senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l’elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale.

Di conseguenza siffatta sentenza deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di accertare la sussistenza di cotale illecito penale in ordine al suo elemento soggettivo.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta decisione, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su questa tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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