In cosa consiste l’aggravante della violenza integrante la circostanza di cui all’art. 625 c.p., n. 2

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Il fatto

La Corte di Appello di Ancona confermava la pronunzia di primo grado nei confronti dell’imputato condannato alla pena giustizia per il reato di furto aggravato dalla violenza sulle cose.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso la pronunzia proponeva ricorso la difesa, che, col primo motivo, aveva lamentato la violazione di legge e la manifesta illogicità di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza del fatto-reato ed alla sua attribuibilità all’imputato richiamandosi sul punto le prove testimoniali dei due principali testi di accusa che non avrebbero dimostrato la responsabilità del giudicabile.

Oltre a ciò, veniva fatto presente come i Giudici del merito avessero considerata integrata l’aggravante della violenza sulle cose poiché l’imputato avrebbe divelto il cancello che dava acceso al cantiere mentre le testimonianze già citate dimostravano che questi si era limitato a sollevare il cancello e che era stato semplicemente infilato in una base di appoggio in cemento senza apportarvi alcun danno e senza provocarne la rottura in nessuna componente.

Nel secondo motivo, invece, si lamentava per illogicità della motivazione e per violazione di legge per la mancata applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. che sarebbe stato possibile applicare previa la corretta esclusione dell’aggravante.
Tramite il terzo motivo, infine, si lamentava per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e di quella del danno lieve.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva reputato fondato limitatamente alla doglianza circa la confermata aggravante della violenza sulle cose.

Prima di esaminare tale doglianza, veniva però prima di tutto rilevato come non fosse rilevabile nel caso di specie la prescrizione del reato a causa della sospensione del suo corso disposta, in forza del D.L. n. 18 del 2020, art. 83, comma 4, nei procedimenti penali in cui opera la sospensione stabilita dalla legge per il periodo dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020 e cioè per 64 giorni (termine finale così prorogato dal D.L. 8 aprile 2020, n. 23, art. 36, comma 1, convertito con modificazioni, dalla L. 5 giugno 2020, n. 40).

Invero, allo stato, a parere del Supremo Consesso, il computo del predetto periodo di sospensione era sufficiente a spostare il termine di compimento della prescrizione fino al 17 Luglio 2020 fatti salvi gli effetti degli ulteriori periodi di sospensione previsti dalla normativa eccezionale per contrastare il diffondersi della pandemia definita Covid 19 che, per il momento, non erano in rilievo.

All’opposto, il precedente riferimento era alla diversa fattispecie di sospensione legislativa del corso della prescrizione applicabile alla generalità dei procedimenti penali delineata dall’art. 83, comma 9, cit. per “il tempo in cui il procedimento è rinviato ai sensi del comma 7, lett. g)” e, in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020 – termine differito al 31 luglio 2020 dal D.L. 30 aprile 2020, n. 28, art. 3, comma 1, lett. i): disposizione, questa, non convertita dalla legge di conversione 25 giugno 2020, n. 70) mentre, a sua volta, l’art. 83, comma 7, lett. g) cit. attribuisce ai dirigenti degli uffici giudiziari, al fine di contrastare l’emergenza epidemiologica COVID-19, il potere di adottare varie misure tra le quali “la previsione del rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020 nei procedimenti civili e penali, con le eccezioni indicate al comma 3”.

Orbene, a fronte di tale quadro normativo, gli Ermellini osservavano come il predetto provvedimento di rinvio fosse stato adottato quanto alla trattazione del presente processo, originariamente fissato al 19 Marzo 2020, con il provvedimento del Primo Presidente della Corte di Cassazione del 13 Marzo 2020 ed attuato, quanto ai processi di competenza della V Sezione, con provvedimento del Presidente titolare in pari data.

Precisato ciò, passando all’esame delle censure proposte dal ricorrente, veniva osservato come il primo motivo di ricorso nella prima parte avesse elevato censure sul tema della stessa affermazione di responsabilità del giudicabile ma in sostanza, ad avviso della Suprema Corte, proponendo una diversa interpretazione delle prove testimoniali rese dal titolare del cantiere ove era avvenuto il furto, M., e de1 Maresciallo operante.

Sempre secondo i giudici di piazza Cavour, l’impugnazione, sotto l’apparente veste del vizio di motivazione illogica, si caratterizzava per la rappresentazione di una inammissibile ricostruzione probatoria dell’episodio, alternativa a quella ritenuta dai Giudici del merito e, in tal senso, la tesi difensiva, che aveva inteso in particolare valorizzare il dato del mancato reperimento degli oggetti furtivi sull’auto in disponibilità dell’imputato, era, altresì, meramente reiterativa dell’analoga doglianza già presentata in fase di appello.

La giustificazione offerta nella sentenza impugnata, confutando esplicitamente l’argomento difensivo, al contrario, aveva chiarito come la persona offesa avesse riconosciuto l’imputato
nell’immediatezza del fatto, avendolo sorpreso sul cantiere al momento del furto, aveva
annotato la targa dell’automobile e gli investigatori lo avevano identificato in base a questo elemento obbiettivo; in seguito gli operanti lo avevano aspettato al ritorno a casa ed avevano
notato che l’auto era sporca di fango essendoci una buca profonda e piena di fango proprio in prossimità dell’anta del cancello ribaltata; in base alla suindicata logica ricostruzione degli eventi, era stato razionalmente valutato irrilevante ai fini della conferma dell’affermazione di responsabilità il mancato reperimento della refurtiva.

Detto questo, a sua volta il terzo motivo veniva considerato inammissibile perché, secondo gli Ermellini, la difesa, quanto al mancato riconoscimento dell’attenuante del danno lieve, proponeva una valutazione sul merito dell’apprezzamento operato dalla Corte territoriale che aveva giudicato in modo non manifestamente illogico il danno di 300 Euro come non irrisorio e, quindi, al di fuori dell’operatività della invocata attenuante, per come interpretata da questa Corte regolatrice e, a tal riguardo, veniva ribadito che, secondo il più che consolidato orientamento della Cassazione, l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 62 c.p., n. 4, presuppone che il pregiudizio causato alla persona offesa sia di valore economico lievissimo o pressoché irrisorio, sia quanto al valore in sé della cosa sottratta, che per gli ulteriori effetti
pregiudizievoli subiti dalla parte offesa. Ex multis Sez. 2, Sentenza n. 50660 del 05/10/2017; Sez. 4, Sentenza n. 6635 del 19/01/2017, connotazioni che, secondo la congrua giustificazione in esame, non si rinvengono nella fattispecie concreta, nella quale era stato considerato che il giudicabile aveva provocato un danno ammontante a 300 Euro.

Invece, quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, secondo la Suprema Corte, la doglianza non si era confrontata con la motivazione corretta in diritto e plausibile in fatto che aveva posto in rilevo la presenza di più precedenti penali, di cui uno specifico.

Infine il primo motivo di ricorso, nella parte in cui aveva ad oggetto la ritenuta aggravante della violenza sulle cose, al contrario degli altri sin qui esaminati, veniva stimato fondato.

In ragione delle peculiari connotazioni fattuali della fattispecie concreta appariva utile, per il Supremo Consesso, ricordare come le sentenze di merito avessero ricostruito la vicenda in questione nei seguenti termini: “Secondo il Tribunale di Pesaro l’imputato era riuscito ad entrare nel cantiere senza bisogno di rompere il lucchetto metallico perché il cancello non era infisso a terra ma posizionato su una base di appoggio in cemento che poteva essere sollevata(pagina 4 trascrizioni) ottenendo di svellere il cancello stesso. Nella sentenza impugnata si è valorizzata la testimonianza di M. , che aveva riferito che il cancello che dava accesso al cantiere era chiuso con un lucchetto e che il giorno del furto, per entrare, l’anta del cancello era stata divelta dalle basi di appoggio. (…) La violenza sulle cose è stata, dunque, individuata dai Giudici del merito nella condotta di svellere il cancello o divellere l’anta dello stesso, il che secondo il significato proprio delle parole usate implicherebbe lo sradicamento, l’estirpazione oppure un’azione di strappo del cancello stesso, descrivendo i due verbi adoperati nelle sentenze in disamina il medesimo comportamento, che è stato sussunto nella fattispecie astratta del furto mediante violenza sulle cose. (…) Tuttavia, a fronte delle scarne motivazioni confezionate dai Giudici territoriali – delle quali quella di primo grado si segnala per un passaggio incongruo sotto il profilo logico-linguistico, passando acrobaticamente dall’accertato sollevamento dalla base di appoggio al ritenuto svellimento del cancello – le censure difensive hanno puntualmente documentato che la rappresentazione dei fatti resa dal teste persona offesa M. era stata profondamente diversa rispetto a quanto riportato nelle sentenze. Questi, infatti, aveva chiaramente dichiarato che il cancello in questione sarebbe stato sollevato dalla base di appoggio in cui era infilato. Su questo specifico punto la difesa ha speso ampie argomentazioni riportando – in particolare alle pagine da 28 a 33 dell’atto di impugnazione – le inequivocabili parole del teste, dalle quali emerge univocamente il dato che l’azione dell’imputato era consistita nello sfilare il cancello dalla sua base di appoggio. In particolare il medesimo teste, persona ben a conoscenza della struttura del cantiere, ha fornito anche una breve ma chiara descrizione delle basi di appoggio, costruite in modo da potervi inserire la base del cancello stesso. D’altra parte il teste R. ha descritto il cantiere come privo di una recinzione stabile ed ancorata in terra nelle parti laterali, essendo ivi delimitato solo da nastri grossi, rappresentazione che appare coerente con una struttura non fissata in terra stabilmente, come in sostanza opinato dalla difesa a sostegno della sua tesi”.

Orbene, richiamata la ricostruzione in fatto operata dai Giudici del merito, a questo punto si stimava utile ricordare la giurisprudenza della Cassazione in tema di aggravante della violenza sulle cose ex art. 625 c.p., n. 2.

A tal proposito veniva fatto presente come recenti pronunzie avessero ripreso il concetto tradizionalmente espresso nell’esegesi di legittimità secondo il quale l’aggravante della violenza sulle cose sussiste ogniqualvolta il soggetto, per commettere il reato, fa uso di energia fisica diretta a vincere, anche solo immutandone la destinazione, la resistenza che la natura o la mano dell’uomo hanno posto a riparo o difesa della cosa altrui. Sez. 5, Sentenza n. 53984 del 26/10/2017. In senso conforme Sez. 5, Sentenza n. 20476 del 17/01/2018 Ud. (dep. 09/05/2018) Rv. 272705 ha puntualizzato che l’aggravante della violenza sulle cose è presente anche quando l’energia fisica sia rivolta dal soggetto agente non sulla “res” oggetto dell’azione predatoria, ma verso lo strumento posto a sua protezione, purché sia stata prodotta una qualche conseguenza su di esso, provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui o determinandone il mutamento di destinazione.
Tali pronunzie hanno ritenuto di individuare la violenza sulle cose, idonea ad integrare l’aggravante di cui si discute, nel dispiegarsi di energia fisica rivolta o direttamente sulla res furtiva o sugli strumenti posti a suo presidio purché, in entrambi i casi, vi sia stata effrazione, rottura, guasto o danneggiamento della prima e/o dei secondi.

Orbene, a fronte di tale approdo ermeneutico, si evidenziava come se le predette parole non presentino difficoltà interpretative essendo ben comprensibile in sé il loro significato, meno chiaro risulta essere il concetto di mutamento di destinazione, che qui deve intendersi come uso o fine stabilito per una cosa, secondo la lezione del vocabolario della lingua italiana Zingarelli atteso che non è peregrino, per la Cassazione, in considerazione della pluralità di comportamenti in concreto azionabili dal soggetto agente, interrogarsi su quali siano i possibili casi e modi nei quali l’energia fisica dello stesso incida sull’uso al quale una cosa per sua natura è adibita o per suo scopo è destinata.
In relazione a tale tematica giuridica, gli Ermellini osservavano come un apprezzabile sforzo interpretativo in tal senso fosse stato fatto da Sez. 5 Sentenza n. 11720 del 29/11/2019 che era ricorsa ai concetti di manomissione, manipolazione e ripristino dato che era stato ivi affermato che l’aggravante della violenza, integrante la circostanza di cui all’art. 625 c.p., n. 2, si realizza tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, manomette l’opera dell’uomo posta a difesa o a tutela del suo patrimonio in modo che, per riportarla ad assolvere la sua originaria funzione, sia necessaria un’attività di ripristino mentre essa, invece, non è configurabile ove l’energia spiegata sulla cosa, mediante la sua forzatura, non determina una manomissione ma si risolve in una semplice manipolazione che non implichi alcuna rottura, guasto, danneggiamento, trasformazione o mutamento di destinazione, a seguito dei quali cui sia necessaria un’opera di ripristino.

In proposito pur se, a rigore, la parola manipolazione non appare la più adatta ad esplicitare il concetto che si è voluto intendere, tuttavia è chiaro il pensiero espresso nella sentenza, che ha inteso far riferimento ad una modifica non significativa, non durevole, non produttrice di guasti o danni ma solo momentanea dello stato delle cose e/o dei luoghi, per eliminare la quale non occorra alcuna azione di reintegrazione degli stessi dato che, nella fattispecie oggetto di esame, in quell’occasione, la Corte aveva annullato la sentenza di appello che aveva riconosciuto l’aggravante in un caso di violazione di un nastro di nylon che impediva l’accesso ad un locale senza però verificare se esso fosse stato strappato o semplicemente sollevato.

Alla luce dei principi e delle considerazioni sin qui enunciate, i giudici di piazza Cavour ritenevano come la sentenza impugnata in nulla avesse chiarito le ragioni della ritenuta presenza dell’aggravante in oggetto neppure sotto il profilo del mutamento di destinazione del cancello e doveva, pertanto, essere annullata con rinvio per nuovo esame alla Corte d’Appello di Perugia limitatamente all’aggravante della violenza sulle cose fermo restando come il nuovo esame avrebbe dovuto essere condotto alla luce dei principi suindicati ed all’esito, nell’ipotesi della esclusione dell’aggravante da parte della Corte territoriale, questa avrebbe dovuto affrontare anche il tema dell’applicabilità o meno della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p. – oggetto del secondo motivo di ricorso – che restava assorbito e che nel precedente giudizio di secondo grado era stata esclusa correttamente a causa del limite edittale della pena previsto per il delitto di furto monoaggravato.

Conclusioni

La decisione in oggetto è assai interessante nella parte in cui spiega in cosa consiste l’aggravante della violenza integrante la circostanza di cui all’art. 625 c.p., n. 2.

Difatti, citandosi un precedente conforme, viene postulato che l’aggravante della violenza, integrante la circostanza di cui all’art. 625 c.p., n. 2, si realizza tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, manomette l’opera dell’uomo posta a difesa o a tutela del suo patrimonio in modo che, per riportarla ad assolvere la sua originaria funzione, sia necessaria un’attività di ripristino mentre essa, invece, non è configurabile ove l’energia spiegata sulla cosa, mediante la sua forzatura, non determina una manomissione ma si risolve in una semplice manipolazione che non implichi alcuna rottura, guasto, danneggiamento, trasformazione o mutamento di destinazione, a seguito dei quali cui sia necessaria un’opera di ripristino.

Questa pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare se tale aggravante speciale ad effetto speciale ricorra o meno.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su cotale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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