Quando può ricorrere la circostanza aggravante dell’uso di uno strumento atto ad offendere di cui all’art. 585, comma secondo, n. 2, cod. pen.

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(Ricorsi dichiarati inammissibili)

(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 585, c. 2, n. 2)

Il fatto

La Corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Agrigento, dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati in ordine ai reati di cui agli artt. 110, 635, comma 2, 581, 61 n. 5 cod. pen. (capi 2, 4 e 5 della rubrica) perché estinti per prescrizione e ha assolto gli stessi imputati dai fatti di ingiurie (capi 3 e 6 della rubrica), perché non previsti più dalla legge come reato e, pertanto, veniva rideterminata la pena inflitta ad entrambi gli imputati in ordine al reato di cui agli artt. 110, 582, 583, comma 1, 585, 62 n. 5, cod. pen. (capo 1 della rubrica).

 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Avverso la suindicata pronunzia della Corte di Appello proponevano ricorso per Cassazione entrambi imputati.

Uno tra questi, per il tramite del suo difensore, deduceva i seguenti motivi: 1) violazione di legge e correlati vizi motivazionali in relazione all’art. 495, comma 4 bis, cod. proc. pen. censurandosi la pronunzia impugnata nella parte in cui rigettava l’impugnazione dell’ordinanza con la quale il giudice di primo grado, aveva revocato, senza il prescritto consenso di tutte le altre parti, l’ammissione dei testi indicati dalla parte civile con la relativa lista, in violazione dell’art. 495, comma 4 bis, cod. proc. pen. e riteneva erroneamente (e contrariamente a quanto risulta dalla sentenza di primo grado) sussistente il silenzio dei difensori degli imputati; la revoca dell’ordinanza ammissiva dei testi, inoltre, sarebbe stata resa in difetto di motivazione sulla superfluità della prova; 2) violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla mancata assunzione di una prova decisiva; in particolare, il ricorrente si doleva del rigetto dell’istanza di integrazione e/o della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello ex art. 603 cod. proc. pen., per l’esame di testi oculari identificati dalla polizia giudiziaria, nonostante si fosse trattata di una prova decisiva per escludere la rilevanza penale della condotta ascritta al suo assistito e ciò avrebbe compromesso l’effettività del contraddittorio fra le parti in ordine ad elementi probatori decisivi determinando una violazione delle regole del giusto processo di cui agli artt. 111 Cost. e 6 CEDU; 3) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione alla nullità e inutilizzabilità dell’individuazione fotografica effettuata posto che la Corte territoriale avrebbe omesso ogni valutazione in ordine all’utilizzabilità ed all’attendibilità del riconoscimento fotografico senza considerare che l’identificazione era avvenuta mentre la parte offesa si sarebbe trovata in stato confusionale ed era stato effettuato in lingua italiana, non conosciuta dalla stessa parte, e dunque sarebbe stato illegittimo il valore fidefacente attribuito dalla Corte al riconoscimento fotografico operato dalla polizia giudiziaria; 4) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione alla valutazione della prova visto che la Corte di appello avrebbe omesso del tutto una complessiva valutazione della prova testimoniale e non avrebbe valutato le evidenti incongruenze delle dichiarazioni della parte civile così come non sarebbero stati considerati tutti gli elementi a disposizione dando per scontato che l’aggressione subita dalla parte civile sia stata perpetrata dal ricorrente nonostante la sussistenza di rilevanti indizi di segno contrario; oltre a ciò, l’impugnate lamentava altresì la mancanza di motivazione in ordine alla valutazione delle prove dichiarative in violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. in quanto vi sarebbe stata una valutazione in maniera frazionata di tali prove; 5) violazione di legge e vizi motivazionali, anche mediante travisamento della prova, in relazione alla configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 583, comma 1, n. 1 cod. pen. dato che la motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti dell’aggravante sarebbe stata soltanto apparente in quanto fondata su mere congetture in base alle quali la malattia (nella specie, frattura alla gamba e trauma cranico) si sarebbe protratta oltre i quaranta giorni mentre nessuna prova era stata fornita dalla Pubblica accusa o dalla parte civile in riferimento all’effettiva incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore a quaranta giorni; 6) violazione di legge, manifesta illogicità della motivazione, nonché travisamento della prova per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzo di armi in quanto tale aggravante non sarebbe stata configurabile nel caso di specie perché l’oggetto utilizzato per colpire la persona offesa (una grossa croce di legno usata come randello) non rientrerebbe tra le “armi improprie” di cui all’art. 4, comma 2, L. 18 aprile 1975, n. 110 tenuto conto altresì del fatto che, affinché un’arma possa essere qualificata come impropria ai sensi della predetta legge, è richiesto il porto dell’oggetto fuori dall’abitazione e l’uso che di esso si intende fare al fine di ledere l’altrui integrità fisica mentre, in questo caso, invece, l’oggetto utilizzato si trovava casualmente sul posto; 7) violazione di legge, manifesta illogicità della motivazione, nonché travisamento della prova per la configurabilità dell’aggravante della “minorata difesa
atteso che la sentenza impugnata, nel ritiene configurabile l’aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 5 cod. pen. per essere stata la vittima sorpresa di notte, mentre era ancora addormentata, avrebbe errato in quanto questa circostanza non è da sola idonea a configurare l’aggravante in questione dovendo concorrere altre circostanze che determinano una diminuita capacità di difesa mentre, invece, l’indagine di tali altre circostanze difetta nel caso concreto e, per tale ragione, la motivazione della sentenza, per il ricorrente, risultava essere illogica; 8) violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche; 9) violazione di legge in relazione all’applicazione della recidiva per mancanza di motivazione atteso che la Corte d’appello non avrebbe verificato in concreto la pericolosità dell’imputato con riguardo alla natura dei reati, al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale dei fatti e al livello di omogeneità tra loro esistente, all’eventuale occasionante della ricaduta, nonché ad ogni altro profilo significativo relativo alla personalità del reo e al suo grado di colpevolezza; 10) violazione di legge per mancanza di motivazione ed inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione ai limiti al potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena e alla valutazione della gravità del reato agli effetti della pena.
Uno dei difensori dell’altro imputato, a sua volta, deduceva i seguenti motivi: I) violazione di legge in relazione alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, alla valutazione della prova e alla condanna dell’imputato nonché manifesta illogicità e mancanza della motivazione perchè la Corte di appello di Palermo avrebbe motivato solo apparentemente il rigetto dell’istanza difensiva volta ad assumere nuove prove decisive, in violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. tenuto conto altresì del fatto che vi sarebbe stato un errore di puro diritto nella omessa considerazione della prova richiesta nonostante essa avesse valenza assolutamente decisiva giacché l’intero impianto accusatorio sarebbe fondato sulle sole dichiarazioni della persona offesa;
si assumeva poi come il vaglio circa l’attendibilità della persona offesa costituitasi parte civile non fosse stato rigoroso a differenza di quanto previsto dall’art. 192 cod. proc. pen.; II)  violazione di legge e vizi motivazionali in quanto la pronunzia impugnata avrebbe violato l’art. 583 cod. pen., in quanto la Corte di appello avrebbe applicato tale norma senza acquisire alcun referto medico o alcuna consulenza che attesti una durata della malattia per un periodo superiore a quaranta giorni censurandosi altresì la pronunzia sotto il profilo della violazione dell’art. 585, comma 1, cod. pen. dato che il mezzo di aggressione che, secondo l’accusa, era stato utilizzato (nella specie, una croce di legno), non avrebbe potuto essere definita arma semplicemente perché rinvenuto casualmente sul luogo del delitto; si deduceva, inoltre, che l’aggravante dell’uso dell’arma sarebbe ascrivibile solo ad un altro imputato e che non avrebbe potuto farsi applicazione dell’art. 116 cod. pen. che prevede la responsabilità del concorrente nel reato più grave in quanto ne sarebbero difettati tutti i presupposti fermo restando che, in ogni caso, non avrebbe potuto rispondere il ricorrente dell’ipotesi aggravata posto che l’art. 59 cod. pen. richiede la conoscenza o la conoscibilità delle aggravanti da parte del concorrente; III) violazione di legge e mancanza e manifesta illogicità in relazione al trattamento sanzionatorio circa la mancanza di motivazione in ordine al calcolo della pena e al giudizio di comparazione tra le attenuanti e le aggravanti e in relazione al fatto che la Corte di appello di Palermo non avrebbe tenuto in debito conto il ruolo secondario dell’impugnante nella vicenda e non aveva, pertanto, concesso le attenuanti in misura prevalente alle circostanze aggravanti.

Infine, il secondo difensore di uno di questi imputati deduceva, dal canto suo, i seguenti motivi: a) violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità poiché la pronunzia impugnata si sarebbe fondata su atti d’indagine inutilizzabili non essendo stati tradotti nella lingua tigrina, dialetto madre eritreo della persona offesa, e tenuto conto altresì del fatto che l’ossequiosa osservanza e la corretta interpretazione degli artt. 178 e 179 cod. proc. pen. avrebbe potuto condurre alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale; b) mancata assunzione di una prova decisiva giacché il Giudice di appello avrebbe deciso de plano in ordine alla non assunzione di una prova, peraltro già richiesta nell’istruttoria dibattimentale e consistente nella richiesta di escussione di testi in grado di dimostrare l’alibi dell’imputato, escludendo in tal modo la sua responsabilità per i fatti oggetto di giudizio e disarticolando il racconto reso dalla persona offesa; il ricorrente, inoltre, contestava la motivazione con cui il Giudice di appello aveva rifiutato di acquisire un’altra prova decisiva, costituita dai filmati registrati dalle telecamere presenti sulla scena del delitto, adducendo di non volersene servire in quanto lo stesso Pubblico Ministero l’aveva considerata superflua stante la gravità, la precisione e la concordanza degli altri indizi a carico.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 

I ricorsi venivano dichiarati tutti inammissibili.

In particolare, per quanto attiene il primo ricorso summenzionato, i primi due motivi seguivano questa sorte processuale atteso che, secondo gli Ermellini, tali doglianze non si erano confrontate con le argomentazioni articolate dalla Corte territoriale in relazione alle stesse censure proposte con l’atto di appello posto che, nella sentenza impugnata, erano state rigettate le richieste di parziale riapertura dell’istruzione dibattimentale con motivate valutazioni sulla superfluità delle prove dichiarative indicate dalle difese evidenziandosi a tal proposito che, se, nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603, comma 1, cod. proc. pen., è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria, tale accertamento, però, è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se – come nella specie- correttamente motivata (si veda, ex multis, Sez. 6, n. 48093 del 10/10/2018).

In ordine al terzo motivo, pure queste censure venivano ritenute non di grado di confrontarsi con le argomentazioni articolate sul punto dai giudici di merito atteso che, nella sentenza impugnata, ad avviso del Supremo Consesso, si era dato atto in maniera logica ed articolata delle modalità con le quali la persona offesa aveva, anche in dibattimento, riconosciuto i suoi aggressori.

Inoltre, quanto al riconoscimento effettuato subito dopo i fatti, la Corte territoriale aveva sottolineato come tutti gli atti di polizia giudiziaria fossero stati svolti e verbalizzati correttamente con l’uso della lingua italiana che era parlata e compresa correttamente dalla vittima.

Inammissibile veniva stimato anche il quarto motivo di ricorso poichè la Corte territoriale, rispondendo alle analoghe censure proposte con l’atto di appello, aveva, per gli Ermellini, congruamente e logicamente motivato sulla attendibilità estrinseca ed intrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa la quale aveva riferito con dovizia di particolari sui fatti oggetto di imputazione così come era stata correttamente valorizzata la circostanza che le dichiarazioni della suddetta persona offesa erano state confermate da quanto riferito da uno dei testimoni.

Il quinto motivo veniva parimenti stimato alla stregua di un assunto difensivo inammissibile in quanto finalizzato a una rivalutazione delle prove atteso che, per i giudici di piazza Cavour, i giudici di merito avevano dato ampio conto del fatto che le lesioni riportate dalla vittima avessero trovato riscontro nella documentazione medico-clinica ritualmente acquisita in atti.

Manifestamente infondato veniva reputato pure il sesto motivo di ricorso visto che la Cassazione aveva avuto già modo di affermare che, in tema di lesioni personali volontarie, ricorre la circostanza aggravante dell’uso di uno strumento atto ad offendere di cui all’art. 585, comma secondo, n. 2, cod. pen., laddove la condotta lesiva sia in concreto realizzata adoperando qualsiasi oggetto, anche di uso comune e privo di apparente idoneità all’offesa (ex multis, Sez. 5, n. 8640 del 20/01/2016) e da ciò se ne faceva conseguire che anche una croce lignea, se usata – come nella specie – in un contesto aggressivo, costituisce arma impropria ai fini dell’applicazione dell’aggravante in esame fermo restando che a nulla rileva che si fosse trattato di un uso momentaneo od occasionale dello strumento atto ad offendere poiché, per la configurabilità della suddetta aggravante, non si richiede che concorra la contravvenzione di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975 (Sez. 5, n. 44864 del 07/10/2014).

Per quanto attiene il settimo motivo, l’assunto difensivo, secondo il quale tale contesto non sarebbe stato idoneo a configurare l’aggravante in questione dovendo concorrere altre circostanze, veniva stimato manifestamente infondato notandosi a tal riguardo che, se la circostanza aggravante della minorata difesa si fonda su una valutazione in concreto delle condizioni che hanno consentito di facilitare l’azione criminosa sicché non vale ad integrare automaticamente la stessa la sola situazione astratta del tempo di notte (Sez. 4, n. 30990 del 17/05/2019; Sez. 5, n. 32813 del 06/02/2019; Sez. 5, n. 53409 del 18/06/2018), era tuttavia incontroverso nella specie come la vittima fosse stata colta di sorpresa, nottetempo, mentre dormiva e, correttamente, quindi, per la Suprema Corte, i giudici di merito avevano ritenuto come ella si fosse trovata in una situazione di particolare vulnerabilità tenuto conto anche del fatto che i suoi aggressori erano entrati nella tenda-tempio per il culto dove si trovava lacerando un lembo della copertura esterna.

Ciò posto, per quel che riguarda l’ottavo, il nono e il decimo motivo, attinenti rispettivamente al diniego delle attenuanti generiche, all’applicazione della recidiva e al trattamento sanzionatorio, quanto al diniego delle attenuanti generiche, si riteneva come la Corte territoriale avesse dedicato una articolata e logica motivazione facendo specifico riferimento alla gravità dei fatti commessi in danno di un cittadino extracomunitario, al comportamento successivo dell’imputato e ai suoi numerosi precedenti penali sicché non vi era spazio per il sindacato di legittimità giacché quelle prospettate nella sentenza impugnata erano valutazioni di merito supportate da argomentazioni esenti da vizi.
Allo stesso modo, per i giudici di piazza Cavour, vi era pure motivazione sulla recidiva avendo la Corte territoriale ritenuto che i gravi, specifici e reiterati precedenti penali costituivano un indice rivelatore di allarmante pericolosità sociale.

Da ultimo, in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio, si stimava come la Corte territoriale l’avesse ritenuta congrua anche facendo riferimento a tutti gli elementi valutati per il diniego delle attenuanti generiche e per l’applicazione della recidiva alla pena base quantificata dal Tribunale e, quindi, vi era ancora una volta spazio per il sindacato di legittimità giacché, anche per tale profilo, sempre secondo la Suprema Corte, la motivazione era esente da vizi.

Detto questo, per quanto invece concerne i ricorsi per Cassazione proposti nell’interesse dell’altro imputato, si osservava in particolare come fossero manifestamente infondati gli assunti difensivi secondo i quali la Corte di appello avrebbe motivato solo apparentemente il rigetto dell’istanza difensiva finalizzata ad assumere nuove prove decisive in violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. posto che, nella sentenza impugnata, era rinvenibile una motivazione logica e sufficiente in relazione alla superfluità delle prove indicate dalla difesa, alla attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e ai riscontri alle stesse dichiarazioni così come era infondata la doglianza afferente il trattamento sanzionatorio in quanto, ad avviso della Corte di legittimità, nella sentenza impugnata vi era un’ampia, logica e corretta motivazione sulla entità della pena irrogata e sulla concessione delle attenuanti generiche in regime di equivalenza con le contestate aggravanti.

 

Conclusioni

 

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui spiega quando può ricorrere la circostanza aggravante dell’uso di uno strumento atto ad offendere di cui all’art. 585, comma secondo, n. 2, cod. pen. essendo ivi postulato che, in tema di lesioni personali volontarie, ricorre questo elemento accidentale laddove la condotta lesiva sia in concreto realizzata adoperando qualsiasi oggetto, anche di uso comune, e privo di apparente idoneità all’offesa.

Orbene, pur non condividendosi questo approdo ermeneutico (sebbene avallato da precedenti conformi) in quanto la norma succitata si riferisce espressamente a “strumenti atti ad offendere” e non quindi a oggetti privi di siffatta idoneità offensiva, pur tuttavia, questa pronuncia non può non essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba verificare la sussistenza di tale circostanza dovendosi per l’appunto rilevare non tanto l’offensività del mezzo impiegato, quanto piuttosto l’offensività della condotta posta in essere.

Sarebbe comunque auspicabile che su tale questione intervenisse il legislatore al fine di includere, per l’appunto ex lege, tale ipotesi tra quelle previste dall’art. 585, c. 2, c.p.p., e ciò per una evidente esigenza di certezza del diritto.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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