Il danno comunitario nel caso di abuso di contratti a termine: natura e misura del risarcimento

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Recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno emanato una importante sentenza relativa al risarcimento del danno ex art. 36 d.lgs. n.165/2001  di cui in parte riproduciamo i contenuti.

 

Cassazione Sezioni Unite 15 marzo 2016 n.5072

Presidente *******,****************;*********************************** di Genova;******** e ***

 

Abuso di contratti a termine da parte della P.A.- Risarcimento del danno

Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzzato, in caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una P.A., il dipendente, esclusa la possibilità di conversione del rapporto, ha diritto al risarcimento del danno per l’illegittima precarizzazione nella misura e nei limiti di cui all’art. 32 comma 5 della legge n.183 del 2010 (Massima Ufficiale)

 

Abuso di contratti a termine da parte della  P.A.- Sanzione-Differenza di trattamento tra pubblico e privato –Danno comunitario

In presenza di abuso di contratti a termine da  parte della P.A.,considerato il profilo comunitario della fattispecie -delineato nell’accordo quadro allegato alla Direttiva1999/70/CE- e considerato il profilo dell’ordinamento nazionale –contenuto nel D.Lgs. 368/2001,attuativo del predetto accordo quadro-, ritenuta la disciplina differenziata tra lavoro pubblico e lavoro privato,ascrivibile alla diversa modalità di assunzione, e specificatamente per pubblico concorso ex art.97 Cost. quale mezzo ordinario  di assunzione  per il lavoro pubblico,che giustifica la diversa sanzione a fronte  del danno derivante dalla violazione della clausola 5 del predetto accordo quadro-[ danno consistente in entrambi i casi nella prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative e non già, in particolare nel caso del lavoro pubblico contrattualizzato,nella perdita  del posto di lavoro,peraltro inesistente, ma piuttosto jn tale ultimo caso si ravviserebbe  nella perdita di chances] ,la qual  sanzione  nel caso del lavoro privato consisterà nella conversione del rapporto o dei rapporti a termine in rapporto a tempo indeterminato con ulteriore corresponsione dell’indennita risarcitoria-con valenza tipicamente  sanzionatoria- nella misura ex art.32 ,comma 5 l. n.183/2010- da leggersi in chiave di contenimento del danno risarcibile- mentre nel caso del lavoro pubblico,a’sensi dell’art.36 D.lgs. n.165/2001, consisterà nel  solo risarcimento del danno, sempre nella misura ex art. 32 co.5 l.n.183/2010-ma in questo caso da leggersi  in chiave agevolativa, in quanto danno presunto  con  portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria( c.d. danno comunitario) non essendo peraltro preclusa la  prova di danno patrimoniale più elevato, sicchè la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea, è da ravvisarsi in questa agevolazione della prova.(Massima ufficiosa)

 

Le Sezioni unite espongono lo svolgimento del  processo.

Omissis

<Il Tribunale di Genova – previo incidente di pregiudizialità comunitaria, in ordine alla compatibilità con la direttiva 1999/70/CE della disciplina interna nella parte in cui preclude per il settore pubblico (a differenza di quello privato) la tutela della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso dì violazione delle norme in tema di apposizione del termine – ha dichiarato illegittimo l’ultimo dei contratti stipulati dai lavoratori (per mancata indicazione delle causali giustificative), condannando l’ente al risarcimento del danno, secondo quanto previsto dall’art. 18, quarto e quinto comma, legge 20 maggio 1970, n. 300, utilizzato quale criterio di parametrazione adeguato, effettivo e dissuasivo, in linea con i parametri indicati dalla Corte di giustizia U.E.>

 

Omissis

 

Seguono quindi i  motivi della decisione.

Particolarmente significativo il riconoscimento di una disciplina differenziata tra pubblico e privato sul punto di diritto in discussione.

Omissis

<La Corte costituzionale (sent. 27 marzo 2003, n. 89) ha ritenuto che la disposizione in esame (art. 36 d.lgs. n. 165/2001), per la parte in cui non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni, non viola gli arti. 3 e 97 Cost. . E’ infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell’accesso mediante concorso – enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – rende non omogeneo il rapporto dì impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati.>

Omissis

<Ripetuto è quindi il principio affermato dalla giurisprudenza (ex plurìmìs Cass., sez. lav., 15 giugno 2010. n. 14350) secondo cui nel pubblico impiego un rapporto di lavoro a tempo determinato in violazione di legge non è suscettibile di conversione in rapporto a tempo indeterminato. stante il divieto posto dall’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001, il cui disposto non è stato modificato dal d.lgs_ n. 368 del 2001, contenente la regolamentazione dell’intera disciplina del lavoro a tempo determinato; ne consegue che, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, in capo a quest’ultimo, essendo preclusa la conversione del rapporto, sussiste solo il diritto al risarcimento dei danni subiti.

Omissis

<In sintesi, da una parte il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicché non può predicarsi la conversione del rapporto quale “sanzione” dell’illegittima apposizione del termine al rapporto dì lavoro o comunque dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale. D’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato – oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente – anche da disposizioni di contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine.

Sicché può dirsi che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, “misure energiche” (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014. C-22/13 ss., *******). fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale.>

 

Le Sezioni quindi tracciano il profilo comunitario e il profilo nazionale dell’istituto, il primo individuabile nella Direttiva n.1999/70/CE, il secondo nel D.Lgs. n.368 del 2001.

Espongono quindi le ragioni che giustificano la disciplina differenziata sul tema in oggetto tra disciplina del rapporto a termine  privato e disciplina del rapporto a termine  pubblico.

Concludono le Sezioni Unite

<12. Muovendo dalla considerazione che la giurisprudenza della Corte costituzionale, da una parte, e quella della Corte di giustizia, dall’altra, consentono di ritenere verificata la compatibilità costituzionale e comunitaria del regime differenziato del contratto a termine nel pubblico impiego,connotato com’è dalla previsione del pubblico concorso per l’accesso all’impiego e quindi dal divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato, c’è ora da esaminare – per misurare il grado di effettività della tutela del lavoratore – il profilo del risarcimento del danno in caso di illegittimo o abusivo ricorso al contratto a termine: occorre interrogarsi su cosa si intende per danno risarcibile ex art. 36, comma 5. d.lgs. n. 165/2001 cit..

La norma non aggiunge altro e quindi deve farsi riferimento alla regola generale della responsabilità contrattuale posta dall’art. 1223 c.c. secondo cui il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita, nella specie dal lavoratore, come il mancato guadagno. in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

Innanzi tutto – per quanto finora si è detto sull’obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni – va precisato che fuori dal risarcimento del danno è la mancata conversione del rapporto. Questa è esclusa per legge e tale esclusione — si è appena detto — è legittima sia secondo i parametri costituzionali  che quelli europei. Non ci può essere risarcimento del danno per ìl fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni. Quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perché una tale prospettiva non c’è mai stata: in nessun caso il rapporto di lavoro a termine si potrebbe convertire in rapporto a tempo indeterminato perché l’accesso al pubblico impiego non può avvenire – invece che tramite di concorso pubblico – quale effetto, sia pur in chiave sanzionatoria, di una situazione di illegalità.

Lo stesso art. 36, comma 5, cit., definisce il danno risarcibile come derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative e non già come derivante dalla perdita di un posto di lavoro. Se la pubblica amministrazione non avesse fatto illegittimo ricorso al contratto a termine, non per questo il lavoratore sarebbe stato assunto a tempo indeterminato senza concorso pubblico. L’ipotizzata legittima azione della pubblica amministrazione esclude sì l’illegittimo ricorso al contratto a termine, ma esclude anche. per rimanere in un’ipotesi ricostruttiva controfattuale secundum ius. che possa predicarsi l’assunzione in ruolo in violazione dell’obbligo del concorso pubblico per l’accesso al pubblico impiego a tempo indeterminato. Ossia se l’Amministrazione pubblica avesse agito legittimamente non commettendo l’abuso, non avrebbe posto in essere la sequenza di contratti a termine in violazione di legge e il lavoratore non sarebbe stato affatto assunto.

Non c’è quindi un danno da mancata conversione del rapporto e quindi da perdita del posto di lavoro.

13. Il danno è altro.

Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi.

 Si può soprattutto ipotizzare una perdita di chance nel senso che, se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando dì concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell’illegittimo ricorso ai contratto a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore. Le energie lavorative del dipendente sarebbero state liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a . tempo indeterminato. Il lavoratore che subisce l’illegittima apposizione del termine o. più in particolare, l’abuso della successione di contratti a termine rimane confinato in una situazione di precarizzazione e perde la chance di conseguire. con percorso alternativo, l’assunzione mediante concorso nel pubblico impiego o la costituzione di un ordinario rapporto di lavoro privatistico a tempo indeterminato.

L’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile.

Ma non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore.

 

In ogni caso l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore. Pur potendo operare il regime delle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), però indubbiamente il danno – una volta escluso che possa consistere nella perdita del posto di lavoro occupato a termine – può essere in concreto di difficile prova; di qui il monito della Corte di giustizia con riferimento all’ipotesi dell’abuso del ricorso al contratto a termine.

Occorre allora un’operazione di integrazione in via interpretativa, orientata dalla conformità comunitaria, che valga a dare maggiore consistenza ed effettività al danno risarcibile. Ed è ciò che ha fatto la giurisprudenza di questa Corte pervenendo però a conclusioni non univoche (di cui si è detto sub 4).

14. Si è sottolineato sopra – all’esito della ricostruzione del quadro normativo di riferimento nell’ordinamento interno – che sono previste, nel complesso, “misure energiche” fortemente dissuasive per contrastare l’illegittimo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato.

Ma il pur forte carattere dissuasivo di queste misure (sia quella risarcitoria, sia quelle dì indiretto presidio della legalità dell’azione dell’Amministrazione pubblica) – secondo in particolare la ordinanza 12 dicembre 2013, *******, C-50113 della Corte di giustizia – non è sufficiente per assicurare il rispetto della clausola 5 del cit. accordo quadro ove il lavoratore, “il quale desideri ottenere il risarcimento del danno sofferto, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d’esistenza di un danno e, di conseguenza, debba dimostrare concretamente il medesimo” (così la censura del giudice rimettente che la Corte di giustizia mostra di condividere). La Corte riconosce che “spetta al giudice del rinvio, l’unico competente a pronunciarsi sull’interpretazione del diritto interno, valutare in che misura le disposizioni di tale diritto miranti a punire il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato rispettino i principi di effettività ed equivalenza”. Ma c’è un monito ben preciso: la clausola 5 dell’accordo quadro osta a “una normativa nazionale […]. la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità dì impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione.

15. E’ questo uno snodo decisivo della questione portata all’esame di queste sezioni unite.

A livello di normativa interna la prova del danno grava sul lavoratore che eserciti in giudizio la pretesa risarcitoria regolata dalla disciplina codicistica (art. 1223 c.c.). La circostanza che effettivamente il lavoratore abbia difficoltà a provare il danno subito, che consiste essenzialmente nella perdita di chance di un’occupazione migliore, costituisce un inconveniente di mero fatto che non mina la legittimità – si ripete, a livello interno – di tale normativa applicata a questa fattispecie.

Se però ci si sposta a livello comunitario, la situazione è differente ed è tale in ragione proprio del ricordato monito della giurisprudenza della Corte di giustizia: la difficoltà della prova non può dirsi che costituisca un inconveniente di mero fatto, ma – in caso di abusivo ricorso al contratto a termine che va prevenuto con misure equivalenti, di efficacia non inferiore a quelle previste dalla clausola 5 del citato accordo quadro – ridonda in deficit di adeguamento della normativa interna a quella comunitaria e quindi in violazione di quest’ultima; la quale, per essere (pacificamente) non autoapplìcativa, opererebbe non di meno come parametro interposto ex art. 117, primo comma, Cost. e potrebbe inficiare la legittimità costituzionale della norma interna (art. 36, comma 5. d.lgs. n. 165/2001) che tale pretesa risarcitoria disciplina in termini comunitariamente inadeguati nel caso di abuso nella successione di contratti a termine.

16. Ma prima di sollevare l’incidente di costituzionalità – e come condizione preliminare dì ammissibilità – c”è da sperimentare la possibilità di un’interpretazione adeguatrice che, con riferimento all’ipotesi dell’abuso, che costituisce una illegittimità qualificata, consenta di rinvenire nell’ordinamento nazionale un regime risarcitorio di tale abuso che soddisfi quell’esigenza di tutela del lavoratore evidenziata dalla Corte di giustizia.

L’interpretazione adeguatrice, orientata alla conformità costituzionale della normativa ordinaria, sì muove comunque nel perimetro delle interpretazioni plausibili e non svincola del tutto il giudice dal dato positivo della norma interpretata. Sussiste – si è osservato – un limite all’interpretazione adeguatrice al di là della quale c’è solo l’incidente di costituzionalità (cfr., in altra materia, Corte cost. n. 77 del 2007).

Ed allora la verifica di una disciplina comunitariamente adeguata va ricercata – e, se rinvenuta, non c’è necessità di sollevare la questione dì costituzionalità che risulterebbe altrimenti inammissibile – in un ambito normativo omogeneo, sistematicamente coerente e strettamente contiguo, che è quello del risarcimento del danno nel rapporto a tempo determinato nel lavoro privato e non già in quella del risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo in cui sia stata ordinata la reintegrazione nel posto di lavoro ex art . 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 (Statuto dei lavoratori), né in quella di licenziamento parimenti illegittimo in cui sia stata ordinata dal giudice la riassunzione ex art. 8 legge n. 604/66, e neppure in quella di licenziamento illegittimo in cui non possa essere ordinata la reintegrazione ma ci sia solo una compensazione economica (art. 1 legge n. 92 del 2012 e successivamente, per i contratti di lavoro a tutele crescenti, art. 3 d.lgs. n. 23 del 2015).

L’ipotesi del licenziamento evoca la perdita del posto di lavoro che nella fattispecie del lavoro pubblico contrattualizzato – per quanto sopra diffusamente argomentato – è esclusa in radice dalla legge ordinaria (art. 36 d.lgs. n. 165/2001 cit.) in ottemperanza di un precetto costituzionale sull’agire della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) in stretta connessione con il principio dì eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.). Il dipendente pubblico che subisce la precarizzazione per effetto di una successione di contratti a termine connotata da abusività non perde alcun posto di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica per la quale ha lavorato ed al quale non avrebbe mai avuto diritto non avendo superato il vaglio di un concorso pubblico per un posto stabile.

Il danno per il dipendente pubblico – come già rilevato – è altro: il lavoratore a termine nel pubblico impiego, se il termine è illegittimamente apposto, perde la chance della occupazione alternativa migliore e tale è anche la connotazione intrinseca del danno, seppur più intenso, ove il termine sia illegittimo per abusiva reiterazione dei contratti.

Ma l’esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede di differenziare. In questo secondo caso – di abuso nella reiterazione dei contratti a termine – occorre anche una disciplina concretamente dissuasiva che abbia, per ìl dipendente, la valenza di una disciplina agevolativa e di favore, la quale però non può essere ricercata nell’ambito della fattispecie del licenziamento illegittimo, perché questa implica la illegittima perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato, mentre la fattispecie in esame. all’opposto, esclude in radice che ci sia il mancato conseguimento di un posto di lavoro a tempo indeterminato stante la preclusione nascente dall’obbligo del concorso pubblico per l’accesso al pubblico impiego.

La fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, è invece quella del cit. art. 32, comma 5, legge n. 183/2010 che prevede – per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato – che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604” (in tal senso già Cass. 21 agosto 2013, n. 19371).

La misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, è proprio in questa `agevolazione della prova da ritenersi in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 del più volte cit. accordo quadro: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.

La trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n.13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36. comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice. La quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32. comma 5. cit., perché – si ripete – la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione.

 

In sintesi. il richiamo alla disciplina del licenziamento illegittimo, sia quella dell’art. 8 della legge n. 604/66 che dell’art. 18 della legge n. 300/1970, che altresì, in ipotesi, quella del regime indennitario in caso di contratto di lavoro a tutele crescenti (art. 3 d.lgs. n. 23 del 2015), è incongruo perché per il dipendente pubblico a termine non c’è la perdita di un posto di lavoro. Può invece farsi riferimento all’art. 32, comma 5, cit. che appunto riguarda il risarcimento del danno in caso di illegittima apposizione del termine.

17. Deve aggiungersi che solo apparentemente può sembrare che il lavoratore privato consegue – in termini di tutela approntata dall’ordinamento – qualcosa di più (la conversione del rapporto e quindi la reintegrazione nel posto di lavoro oltre all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5, cit.) rispetto al lavoratore pubblico (al quale è riconosciuto solo il risarcimento del danno da quantificarsi innanzi tutto nella misura della stessa indennità risarcitoria).

In realtà così non è.

L’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5. cit. ha una diversa valenza secondo che sia collegata, o no, alla conversione del rapporto.

Per il lavoratore privato l’indennizzo ex art. 32, comma 5, è in chiave di contenimento del danno risarcibile per essere – o poter essere – l’indennizzo meno del danno che potrebbe conseguire il lavoratore secondo i criteri ordinari; contenimento  che è risultato essere compatibile con i parametri costituzionali degli artt. 3, 4 e 24 Cost. (Corte cost. n. 303 del 2011, cit.).

Per il lavoratore pubblico invece l’indennizzo ex art. 32, comma 5, è, all’opposto, in chiave agevolativa. di maggior tutela nel senso che, in quella misura, risulta assolto l’onere della prova del danno che grava sul lavoratore.

L’esigenza di interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento che assicuri effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest’ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere, comporta che è su questo piano che tale interpretazione adeguatrice deve muoversi per ricercare dal sistema complessivo della disciplina del rapporto a tempo determinato una regola che soddisfi l’esigenza di tutela suddetta. L’indennità ex art. 32, comma 5, quindi, per il dipendente pubblico che subisca l’abuso del ricorso al contratto a tempo determinato ad opera di una pubblica amministrazione, va ad innestarsi, nella disciplina del rapporto, in chiave agevolativa dell’onere probatorio del danno subito e non già in chiave di contenimento di quest’ultimo, come per il lavoratore privato

In sostanza il lavoratore pubblico – e non già il lavoratore privato – ha diritto a tutto il risarcimento del danno e. per essere agevolato nella prova (perché ciò richiede l’interpretazione comunitariamente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32. comma 5. Ma non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perché impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato.

Invece il lavoratore privato non ha questa possibilità e questa restrizione è stata ritenuta costituzionalmente non illegittima (Corte cost. n. 303 del 2011, cit.) considerandosi che egli ha comunque diritto alla conversione del rapporto.

18. Per tutte le ragioni sopra esposte il ricorso va accolto avendo la Corte d’appello commisurato il danno risarcibile, spettante ai lavoratori controricorrenti, parametrandolo, invece, alla fattispecie della perdita del posto di lavoro nell’impiego privato in caso di licenziamento illegittimo.

Va conseguentemente cassata l’impugnata pronuncia con rinvio alla corte d’appello di Genova in diversa composizione che si adeguerà al seguente principio di diritto: Nel regime del lavoro pubblico contrattualizato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinalo da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs 30 marzo 2001 n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5. legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’ art. 8 legge 15 luglio 1966. n. 604.>.

 

 

 

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Nota a Cassazione Sezioni Unite 15 marzo 2016 n.5072

 

Sulla massimazione delle sentenze

 

Abbiamo ritenuto di redigere una massima ufficiosa per dare conto, con immediatezza e in maniera sintetica, all’operatore giuridico dei vari passaggi seguiti dal giudicante per arrivare alla massima ufficiale.Si arriva infatti alla massima ufficiale ( principio di diritto) attraverso un articolato percorso logico-giuridico costituito da una sequenza logica di principi e di interpretazioni di norme proprie dell’ordinamento nazionale e comunitario costituenti il quadro generale giuridico in cui si inserisce la fattispecie oggetto del processo e quindi della sentenza. In questo percorso si inseriscono i c.d. obiter dicta (1) equivalenti a snodi giuridici del ragionamento del giudicante che lo porterà alla massima finale.Ciò descrive e giustifica la redazione di una  massima ufficiosa in assenza di massima ufficiale ma anche in presenza di massima ufficiale,tant’è che la stessa sentenza , anche di legittimità,viene massimata in vario modo dalle diverse riviste giuridiche a seconda della diversa prospettiva e sensibilità.

A titolo d’esempio riportiamo di seguito le diverse massimazioni di diverse autorevoli riviste giuridiche dell’importante sentenza, Cassazione 6 novembre 2014 n.23669.

 

a)

 

Giur. It., 2014, 12, 2788, Diritto del Lavoro

Cassazione civile, Sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669

Pres. Macioce — Rei. ******* — P.M. Matera (concl. conf.) — R.g. n. 4949/2014

 

Lavoro subordinato -Licenziamento individuale- Giusta causa e giustificato motivo soggettivo- Fatto contestato- Criteri di accertamento ai fini della tutela reale o indennitaria- Rilevanza del fatto materiale (L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18)

 

Il nuovo articolo 18 tiene distinto dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente ai profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità de! comportamento addebitato. (Nella fattispecie la Cassazione conferma le valutazioni formulate in sede di giudizio di merito che, con attenta indagine istruttoria, hanno evidenziato la insussistenza materiale del fatto contestato, ordinando la reintegrazione del dipendente illegittimamente licenziato). (******* non ufficiale)

 

b)

Massima RIDL

CASSAZIONE, 6 novembre 2014, n. 23669 – Macione  ***** – ***********. Matera P.M. – Banca dei Co.Eu., Credito Cooperativo, Lo.At. ******à Cooperativa (avv. Maresca, Di *******, ********) e. S.E. (avv. *****. *********, *******).

Conferma A. Venezia 19 dicembre 2013.

 

Licenziamento – Disciplinare – Insussistenza del fatto materiale contestato – Tutela ex art. 18, comma 4, SI. lav. – Applicabilità.

 

Nell’ipotesi in cui il giudice del merito ritenga non provata, sulla base delle risultanze istruttorie, la commissione  del fallo materiale contestato al lavoratore licenziato per ragioni disciplinari (al Direttore di una filiale bancario era stato contestato. nel caso di specie, di aver incaricato abitualmente i dipendenti della filiale di fare acquisti per lui e di timbrare l’entrata in servizio a suo nome), correttamente egli applica la tutela reintegratoria prevista dall’ari. 18, comma  4. St. lav., come modificato dalla 1. n. 92/2012.

 

 

c)

Massima LPO

Corte di Cassazione ,sentenza 6 novembre 2014 n.2669-Pres. Macioce-Rel. *******

Licenziamento-Specificità della contestazione-Necessità-Insussistenza del fatto materiale-Tutela ex art.18 l.n.3000/1970 come modificato dalla legge n.92/2012

Laddove ad un lavoratore vengano contestate condotte che possano essere prese in considerazione o

nella loro complessità,come opus operandi o abitualità di comportamento , o come condotte differenziate le une dalle altre aventi ciascuna autonomo rilievo disciplinare ,ove il Giudice di merito,cui compete la valutazione delle stesse che deve essere congruamente motivata e indenne da vizi logici,prenda in esame il fatto contestato nella sua complessità e totalità,che solo intesa in tal modo consentiva di ritenere che la contestazione  avesse ad oggetto comportamenti sufficientemente individuati e non generici,accertandone peraltro nella istruttoria la mancanza della prova,e nel con tempo senza prendere in considerazione anche alcuni o uno solo dei singoli episodi addebitati,in quanto privi di specificità,deve concludersi  in relazione a tale fattispecie per l’insussistenza del  fatto materiale e ritenuto che il nuovo articolo 18 della legge n.300/1970,come modificato da l. n.92/2012 ha tenuto distinto dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo[soggettivo] sicchè in tale ipotesi la verifica del giudice si risolve e si esaurisce nell’accertamento positivo o negativo del fatto materiale, escludendosi dalla fattispecie,che è alla base della reintegrazione,ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione  rispetto alla gravità del comportamento addebitato,in considerazione dei regimi differenziati,introdotti dal legislatore con legge 26 giugno 2012 n.92,con riguardo, da un lato all’insussistenza del fatto che comporta per il lavoratore  la tutela reintegratoria e il risarcimento del danno con detraibilità dell’aliunde peceptum  e dell’aliunde percipiendum,e dall’altro lato,alle altre ipotesi in cui emerge in giudizio che non vi sono gli estremi integranti la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo,che comportano la sola tutela risarcitoria, deve ritenersi che nelle fattispecie de quibus deve applicarsi il primo dei predetti regimi..(Massima redazionale)

 

 

 

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NOTE

(1)  *********** Il primo intervento della Cassazione sul nuovo( eppur già vecchio )Art.18,in RIDL 2015 ,II,pag32  ss,,sul puto pg.35 :<E’ indubbio che gli obiter siano sempre esistiti,e siano consentiti dai canoni dell’argomentazione giuridica,che non può essere costretta in maglie soffocanti>

 

Sentenza collegata

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Avv. Viceconte Massimo

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