L’approvazione delle tariffe della TARSU tra Scilla e Cariddi

Greco Massimo 31/01/17
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ABSTRACT: Nonostante la tassa sui rifiuti (TARSU) sia stata superata e sostituita dalla TIA, dalla TARES e per ultimo dalla TARI, la sua determinazione continua a dividere dottrina e giurisprudenza. Nè i più recenti pronunciamenti del Giudice di legittimità sembrano arginare l’oscillazione giurisprudenziale che si registra in materia. Un intervento legislativo regionale sarebbe certamente utile per scongiurare un effetto domino sulla TARI, atteso che l’individuazione della competenza consiliare ad opera del legislatore statale non trova applicazione nell’ordinamento regionale. 

 

 

     La questione dell’organo comunale competente all’approvazione delle tariffe relative alla previgente tassa per la gestione del servizio dei rifiuti (TARSU) rimane ancora oggi parecchio controversa, attesa l’oscillazione giurisprudenziale presente sia nella giustizia amministrativa che in quella tributaria. Il dato su cui concordano le due giurisdizioni è che in Sicilia il rinvio statico alla legge n. 142/90 operato con la legge regionale n. 48/91 comporta l’applicazione dell’art. 32, comma 2, lettera g) della citata legge n. 142/90, che attribuisce al Consiglio comunale la competenza in ordine alla “istituzione e ordinamento dei tributi”. Da questo comune denominatore sembra però prendere le distanze la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, con l’ordinanza qui in commento[1], secondo la quale “…in tema di Tarsu, nella vigenza dell’art. 32, comma 2, lett. g) della legge 8 giugno 1990, n. 142, la concreta determinazione delle aliquote delle tariffe per la fruizione di beni e servizi… è di competenza della giunta e non del consiglio comunale poiché il riferimento letterale alla «disciplina generale delle tariffe» contenuto nella disposizione, contrapposto alle parole «istituzione ed ordinamento» adoperato per i tributi, rimanda alla mera individuazione dei criteri economici sulla base dei quali si dovrà procedere alla loro determinazione e, inoltre, i provvedimenti in materia di tariffa non sono espressione della potestà impositiva dell’ente, ma sono funzionali all’individuazione del corrispettivo del servizio da erogare, muovendosi così in un ottica di diretta correlazione economica tra oggetto erogante ed utenza, estranea alla materia tributaria”.

 

     Tale pronunciamento del Giudice di legittimità contribuisce a generare incertezze sulla questione, atteso l’incomprensibile operato accostamento della TARSU alla “disciplina generale delle tariffe”. Ora, in disparte il rimando alla, pur condivisibile, necessità d’individuare i criteri economici sulla base dei quali consentire la successiva articolazione tariffaria di cui si dirà infra, la natura tributaria della TARSU non sembra revocabile in dubbio anche alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale[2]. Peraltro, il termine “tariffa” – nella tradizione propria della legislazione tributaria – ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali “tassa” e “tributo”, tanto che anche l’art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 testualmente prevede che la TARSU (cioè una “tassa” e, quindi, un “tributo”) si applica “in base a tariffa”. Inoltre, a differenza della TIA – e oggi della TARI – per la TARSU il gettito corrispondeva ad un ammontare compreso tra l’intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993). Anche la TARSU poteva coprire il cento per cento del costo del servizio di smaltimento dei rifiuti, come peraltro poi previsto dall’art. 4 della l.r. n. 9/2010, ma in tal caso essa non mutava, per ciò solo, la sua natura da pubblicistica a privatistica. In altri termini, la mera circostanza che la legge assegni a un pagamento la funzione di coprire integralmente i costi di un servizio non è sufficiente ad attribuire al medesimo pagamento la natura di prezzo privatistico. Va altresì rilevato che il termine “corrispettivo” citato dal Giudice di legittimità non compare con riguardo alla TARSU nella sua disciplina di riferimento. La TARSU, invero, non può definirsi “corrispettivo”, neppure in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 117, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per le tariffe dei servizi pubblici resi dagli enti locali.

 

     Pertanto, non si comprendono le ragioni per le quali il Giudice di legittimità esclude che i provvedimenti in materia di tariffe della TARSU possano annoverarsi tra quelli espressione della potestà impositiva del Comune.   

 

     Inoltre, per giustificare la competenza della Giunta nella determinazione delle tariffe della TARSU, nell’ordinanza qui in commento viene altresì affermato che nella Regione Siciliana, dotata di competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali, “…lo statuto, nell’ambito dei principi fissata dalla legge stabilisce le norme fondamentali per l’organizzazione dell’ente e in particolare determina le attribuzioni degli organi”, così irrobustendo quanto già argomentato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa[3]. Orbene, anche questa statuizione non può trovare condivisione, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’illustrato quadro normativo. Nel nostro ordinamento, infatti, la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e funzioni di gestione costituisce ormai un principio di carattere generale che trova il suo fondamento nell’art. 97 della Costituzione. La Corte Costituzionale ha affermato che “nell’identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l’imparzialità della pubblica amministrazione[4]

 

     Se il citato limite costituzionale rileva per il legislatore, a fortiori risulta vincolata l’attività di rango sub-primario rappresentata dall’auto normazione del Comune. Pertanto, mentre l’art. 32 comma 2, lettera g) della citata legge n. 142/90 va letto ed applicato secondo questo postulato, le eventuali previsioni contenute negli Statuti e nei Regolamenti comunali che attribuiscono la generica, ed omni-comprensiva, competenza in ordine all’approvazione delle tariffe dei tributi locali in capo ad un organo di governo comunale (Giunta, Sindaco, Consiglio comunale), senza discriminare tra atti a contenuto istitutivo/ordinamentale ed atti a contenuto applicativo/gestionale, vanno disapplicate perché in contrasto con il citato principio costituzionale di separazione tra politica e amministrazione.

 

     L’impianto e la connessa gestione del tributo nell’ordinamento locale è infatti un’attività complessa che consta di più atti e di più fasi. Da qui una prima ripartizione di competenze discrimina quindi gli atti istitutivi (regolamento d’impianto del tributo locale) e di ordinamento del tributo (piano finanziario, criteri di determinazione delle tariffe, classificazione delle categorie di attività con omogenea potenzialità di produzione di rifiuti, individuazione di categorie di soggetti obbligati, disciplina delle riduzioni, delle esenzioni e delle agevolazioni tariffarie) da quelli meramente esecutivo-gestionali (individuazione delle tariffe). Per i primi è richiesto l’esercizio di quella funzione di indirizzo politico che correttamente il legislatore ha affidato alla cura dell’organo assembleare (art. 42, comma 1, TUEL), non solo perché trattasi formalmente di atti regolamentari e di programmazione finanziaria, ma perché in essi vengono fatte scelte che sottendono la citata funzione di indirizzo politico.  Per i secondi è invece richiesta la competenza degli organi di governo esecutivi (Sindaco o Giunta) ovvero anche della Dirigenza di settore.

 

L’orientamento giurisprudenziale amministrativo[5] e tributario[6], ancorchè non prevalente, che in diverse sentenze ha statuito la competenza del Consiglio comunale per l’approvazione delle tariffe della tassa sui rifiuti, trova correttamente fondamento nel previgente regime di prelievo rappresentato dalla TARSU in cui la percentuale minima di copertura del costo del servizio risultava fissata nel 50% (e nel 75% per i Comuni in dissesto). Come già detto, a differenza della TIA, per la quale il gettito doveva assicurare sempre l’integrale copertura del costo dei servizi[7], per la TARSU il gettito doveva corrispondere ad un ammontare compreso tra l’intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune[8]. Questa possibile oscillazione presupponeva che il Comune potesse autonomamente decidere se far gravare tutto il costo sui contribuenti attraverso la TARSU o, come tradizionalmente avvenuto nel passato, cofinanziare la parte del costo del servizio scoperta con fondi del proprio bilancio. Corollario di questo principio è che siffatta scelta di politica pubblica non poteva che essere oggetto di dibattito tra i rappresentanti della comunità locale nel luogo deputato alla programmazione ed allocazione delle risorse comunali, cioè il Consiglio comunale. Ciò è tanto più vero se si evidenziano l’art. 1, comma 169, della legge n. 296/2006, laddove si stabilisce che “gli enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione” e l’art. 4, comma 2 lett. c), della l.r. n. 9 dell’8/04/2010, che prescrive ai Comuni di provvedere “al pagamento del corrispettivo del servizio di gestione integrata dei rifiuti nel territorio comunale, assicurando l’integrale copertura dei relativi costi, congruamente definendo a tale fine…..la tariffa d’igiene ambientale (TIA) di cui all’art. 49 del D.lgs. n. 22/97 o la tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), ovvero prevedendo nei propri bilanci le risorse necessarie e vincolandole a dette finalità”.

 

Infatti solo l’organo consiliare, in sede di discussione del bilancio di previsione, può autorizzare un sostegno finanziario a parziale copertura del costo del servizio di gestione integrata dei rifiuti nel territorio comunale, non rientrando nelle prerogative della giunta, né dell’organo monocratico, disporre delle risorse necessarie per modificare assetti generali di finanza locale.  Invero, solo in presenza di una tariffa come la TIA ieri, o della TARI oggi, che deve necessariamente coprire l’intero costo del servizio e nel contesto della quale le scelte più propriamente politiche sono state già fatte dal Consiglio comunale in sede di approvazione dei citati atti istitutivi/ordinamentali, la mera approvazione dell’articolazione tariffaria, come condivisibilmente affermato dal CGA, “sia in realtà un atto praticamente vincolato e scevro di quei momenti di discrezionalità che sono invece insiti nella regolamentazione del tributo e nella disciplina generale della tariffa (ad esempio individuazione di categorie di soggetti obbligati, fissazione di esenzioni o agevolazioni etc. espressamente riservata al Consiglio[9].

 

        Il precipitato di siffatto ragionamento trova conferma nel punto d’incontro, verosimilmente, più autorevole delle due giurisdizioni, in cui sia il Consiglio di Giustizia Amministrativa[10] che la Commissione Tributaria d’Appello di Palermo[11] concordano sulle modalità per pervenire ad una corretta ripartizione tra gli organi di governo comunali delle competenze in materia di TARSU. Entrambi gli Organi di giurisdizione affermano che la mera variazione in aumento delle tariffe della TARSU può essere determinata “a valle” dal Sindaco – quale atto sostanzialmente vincolato – solo in presenza di una scelta d’indirizzo politico “a monte” in ordine all’individuazione dei criteri per determinare la distribuzione del carico tributario nelle diverse categorie di utenza. In assenza di siffatto atto “d’indirizzo politico” adottato dal Consiglio comunale, l’approvazione in aumento delle tariffe spalmate sulle diverse categorie d’utenza ad opera di un organo diverso da quello consiliare configura l’ipotesi del difetto funzionale di competenza. Del medesimo avviso è anche la  giurisprudenza della CTR – Sezione staccata di Caltanissetta – n. 998/21/2016 a tenore della quale “non appare condivisibile il teorema del carattere vincolato e non discrezionale dell’atto di determinazione delle aliquote se è vero come detto, che nella regolamentazione delle tariffe il Comune ha il potere di graduare il margine di copertura del servizio assegnato all’intervento tariffario, ciò deponendo per una connotazione decisamente <<politica>> dell’attività in discorso, il cui delicato dosaggio, chiamato a contemperare le previsioni di bilancio con i bisogni e le aspettative della collettività, interferisce sul piano del rapporto di fiducia e del consenso della comunità locale”.

 

Spetta quindi necessariamente al Consiglio comunale, quale unico organo competente all’allocazione delle risorse finanziarie, la decisione se contribuire, e in che misura, al finanziamento del costo del servizio attraverso risorse proprie del bilancio, attesa la “necessità di fare in modo che la prestazione tributaria imposta ai membri della collettività sia frutto di quella dialettica democratica che può essere dispiegata compiutamente solo nella sede assembleare, ove i rappresentanti del popolo (o della comunità locale di riferimento) possono liberamente confrontarsi. Siffatta modalità di esercizio della potestà impositiva richiede senz’altro la estrinsecazione delle dinamiche proprie del dibattito consiliare al fine di permettere ai rappresentanti del corpo elettorale locale di valutare appieno le conseguenze che un prelievo fiscale così concepito può provocare sulla comunità di riferimento e, più in specie, sugli utenti del servizio[12].

 

Del resto, anche la scelta di carattere politico, qual’è quella di stabilire l’an ed il quantum dell’eventuale contributo comunale per il raggiungimento del costo del servizio, non può che essere fatta da quell’organo comunale che esercita la funzione di indirizzo politico e che dispone della competenza in ordine all’allocazione delle risorse finanziarie. Se così non fosse, si assisterebbe all’ipotesi assurda di una decisione del Sindaco, attraverso la quale si stabilisce la percentuale da far gravare ai contribuenti e, di conseguenza, quella da far gravare al Comune per assicurare l’integrale copertura del costo del servizio, vincolando la decisione dell’organo consiliare in sede di approvazione del bilancio di previsione. Appare evidente, ictu oculi, che una decisione siffatta adottata dalla Giunta, che comporta un impegno del Comune di natura finanziaria, non può essere assunta se non previa copertura del Consiglio comunale che, invero, potrebbe anche opinare e disporre diversamente.

 

     Da respingere è quindi l’ipotesi del rinvio alla competenza residuale del Sindaco o della Giunta in forza di una specifica previsione statutaria (o regolamentare) in forza del citato principio costituzionale derivante dall’art. 97 Cost. di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione che esclude l’interscambiabilità delle funzioni amministrative tra i diversi organi del Comune. Invero, non può essere esercitata una funzione tipicamente d’indirizzo politico da un organo del Comune diverso da quello consiliare. Così come, al contrario, all’organo d’indirizzo politico non potrebbe essere attribuita una competenza applicativo-gestionale. In sostanza, il sistema vigente, per intuibili esigenze di unitarietà, non riconosce alle fonti di autonomia locale alcuna riserva di competenza in materia di assetto e competenze degli organi comunali. Una previsione statutaria (ed a fortiori regolamentare) non in sintonia con l’argomentata ripartizione dovrebbe considerarsi contra legem e, in quanto tale, disapplicabile secondo la ben nota teoria, di matrice pretoria, sulla disapplicazione degli atti normativi di rango subprimario.  

 

     Ciò considerato, e in attesa di un auspicato intervento del legislatore regionale volto ad immunizzare la TARI dall’oscillazione giurisprudenziale che continua ancora oggi a caratterizzare la TARSU, potrebbe essere utile valutare caso per caso (rectius, Comune per Comune) la vessata questione sulla base dei rispettivi atti amministrativi concretamente adottati.

 


[1]              In senso contrario si registrano, sent. n. 16870/2003 e sent. n. 14376/2010.

[2]              Sentenza n. 238/2009.

[3]              Sentenze n. 455/2011 e n. 64/2012; Pareri n. 1433/2012, 1124/2013.

[4]           Corte Cost. sent. n. 81/2013.

[5]              Tar Catania, sentt. n. 1144/2006 e 1630/2006.

[6]           Fra le tante, Comm. Trib. Reg. Sicilia, sent. 39/30/12 del 28/02/2012.

[7]           Art. 49 del D.lgs. n. 22/97.

[8]           Art. 61, comma 1, del D.lgs. n. 507/93.

[9]           C.G.A. sent. n. 325/2013.

[10]          Parere n. 191/2014 del 10/12/2013.

[11]             Sent. n. 4518/30/15 del 12/10/2015.

[12]             Tar Puglia, Lecce, sez. I, 28/01/2010 sent. n. 328.

Sentenza collegata

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Greco Massimo

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