Il verbale di constatazione amichevole (CID) non è vincolante per il giudice e per l’assicurazione

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Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte torna a pronunciarsi sulla cosiddetta constatazione amichevole. In particolare, ribadisce quanto affermato con la sentenza 25 giugno 2013 n. 15881, in virtù della quale «in materia di responsabilità da sinistro stradale, ogni valutazione sulla portata confessoria del modulo di constatazione amichevole di incidente (cosiddetto C.I.D.) deve ritenersi preclusa dall’esistenza di un’accertata incompatibilità oggettiva tra il fatto come descritto in tale documento e le conseguenze del sinistro come accertate in giudizio».

Un precedente più risalente in materia è rinvenibile nella pronuncia a Sezioni Unite del 5 maggio 2006 n.10311. In quel caso, i giudici di Piazza Cavour, mettendo fine ad un contrasto giurisprudenziale, avevano ammesso che, allorquando la compagnia assicuratrice riesca dimostrare che le dichiarazioni contenute nel verbale di costatazione amichevole siano fallaci e che non sia ravvisabile alcuna responsabilità in capo al proprio assicurato, questi non potrà essere condannato al risarcimento dei danni, pur essendosi assunto la responsabilità dell’accaduto. Il ragionamento di allora della Corte, confermato con la pronuncia in commento, ha ad oggetto la natura confessoria del verbale CID. Il suddetto verbale trova il proprio ubi consistam normativo nell’art. 143 del d. lgs 7 settembre 2005 n. 209 (Codice delle Assicurazioni) sotto la rubrica “denuncia di sinistro”. Esso dispone che, in caso di incidente, i conducenti debbano denunciare il sinistro alla propria compagnia assicuratrice servendosi  del modulo dalla stessa fornito. Il secondo comma del citato articolo prosegue affermando che, in caso di sottoscrizione congiunta del modulo, si presume che l’incidente si sia verificato con le modalità in esso descritte, fatta salva la prova contraria addotta dall’assicurazione. Le dichiarazioni contenute nel verbale hanno portata di confessione stragiudiziale (art. 2735 c.c.). La confessione, secondo la definizione codicistica (art. 2730 c.c.), è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Essa rappresenta una prova legale che vincola il giudice nel suo apprezzamento[1] dovendo egli limitarsi a prendere atto delle risultanze di quella prova; in particolare, si tratta di un mero “espediente probatorio”[2] basato sulla massima di esperienza per la quale nessuno riconosce la veridicità di fatti a sé sfavorevoli se non rispondenti al vero.        
La regola generale, in materia di confessione, prevede che essa faccia piena prova contro il confitente; nondimeno, in caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni dei litisconsorti può essere liberamente apprezzata dal giudice (art. 2733 c. 3 c.c.). Nella prefata pronuncia a Sezioni Unite, infatti, viene precisato che: «la dichiarazione confessoria, contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro, resa dal responsabile del danno, proprietario del veicolo assicurato e litisconsorte necessario, non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del solo confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice, dovendo trovare applicazione la norma di cui all’art. 2733, terzo comma, cod. civ., secondo la quale, in caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa soltanto da alcuni dei litisconsorti è, per l’appunto, liberamente apprezzata dal giudice»[3].

L’assicurazione del danneggiante e l’assicurato-responsabile del fatto di danno sono litisconsorti necessari nella causa in cui il danneggiato agisce al fine di ottenere dalla prima (l’assicurazione) il risarcimento del danno cagionato dal secondo (l’assicurato)[4]. Danneggiante e compagnia assicuratrice sono litisconsorti necessari, applicando l’art. 2733 c. 3 c.c., quindi, le dichiarazioni rese da uno solo dei litisconsorti (il danneggiante) sono liberamente apprezzate dal giudice.

In conclusione, le dichiarazioni confessorie contenute nel verbale di constatazione amichevole non formano piena prova, come accadrebbe seguendo la regola generale dettata dall’art. 2733 c. 2 c.c., ma sono  liberamente valutabili dal giudice nei confronti di tutti i litisconsorti necessari (art. 2733 c. 3 c.c.); questo in virtù della  natura litisconsortile dei giudizi in discorso, in cui la parte convenuta è sempre il responsabile civile-assicurato e la sua compagnia assicuratrice. Una siffatta interpretazione mira ad ottenere una pronuncia uniforme nei riguardi di tutti i litisconsorti.

 


[1] Per un approfondimento vedasi C. MANDRIOLI – A. CARRATTA, Diritto processuale civile, II, Torino, Giappichelli, 2014, 189 ss

[2] In tal senso, C. MANDRIOLI – A. CARRATTA, Diritto processuale civile, II, Torino, Giappichelli, 2014, 264 ss

[3] Il medesimo principio è stato ribadito più recentemente dalla Corte di Cassazione anche con l’ordinanza 19 febbraio 2014 n. 3875

[4] L’art. 144 del d. lgs 7 settembre 2005 n. 209 dispone che nel giudizio promosso contro la compagnia assicuratrice debba essere citato anche il responsabile del danno.

Sentenza collegata

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Ferrari Marcella

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