Applicazione della pena concordata e diversa qualificazione del fatto

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 In tema di applicazione della pena concordata, cosa accade quando il giudice ritenga di pervenire a diversa qualificazione giuridica del fatto  

     Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

1. Il fatto 

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trento applicava, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., in ordine ai reati di cui agli artt. 3, l. 146/2006 e 416 cod. per). (capo unico), 110 e 624, 625 n. 2, 61 n. 5 e 61-bis cod. pen. (capi a e b), 110, 648, 61-bis cod. pen. (capo e), concesse le attenuanti generiche, per alcuni degli imputati, la pena di anni uno e mesi due di reclusione ed Euro 600 di multa (capi unico, a) e b) mentre, per un altro, la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 400 di multa (capi unico ed e)), “con riconoscimento del ruolo di partecipe” e l’attenuante di cui all’art. 648, comma secondo, cod. pen., riconoscendo al contempo, per taluni di essi, il beneficio della sospensione condizionale della pena.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Trento, che deduceva i seguenti motivi: 1) violazione di legge in riferimento all’art. 448, comma 2-bis cod. proc., sub specie di illegalità della pena, non avendo esplicitato in alcun modo il Giudice a quale reato si riferisse la pena di un anno e sei mesi di reclusione posta a base del calcolo atteso che il reato di cui all’art. 416 cod. pen. è sanzionato con la pena minima pari ad anni tre di reclusione e che, in ogni caso, anche nella eventuale individuazione dei reati di cui ai capi a) e b) in termini di maggiore gravità, non si era tenuto conto dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 61-bis cod. pen., tenuto conto altresì del fatto che l’ipotesi di cui all’art. 648, comma secondo, cod. pen. era stata riconosciuta in assenza di accordo sul punto tra le parti, al pari delle attenuanti generiche, non richieste; 2) difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza per avere il Giudice diversamente qualificato, in termini di mera partecipazione, la condotta ascritta ad uno degli imputati, in qualità di promotore, nel capo unico, senza alcuna richiesta in tal senso.

3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era stimato fondato.

Si osservava a tal riguardo come, dal testo della sentenza impugnata – così come dalla lettura degli atti, consentita alla Corte di legittimità per la soluzione della questione proposta (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001) – non constasse, ad avviso del Supremo Consesso, che la diversa qualificazione giuridica della condotta associativa ascritta ad uno degli accusati e del delitto di ricettazione al medesimo contestato era stata oggetto della concorde prospettazione delle parti nella richiesta di applicazione della pena, rilevandosi al contempo come la giurisprudenza di legittimità abbia da tempo affermato che, in tema di applicazione della pena concordata, poiché tale rito speciale comporta un accordo sulla pena, ma non anche sul fatto-reato, il giudice ha l’obbligo di procedere ex officio alla verifica, non meramente formale (limitata cioè alla esattezza della qualificazione giuridica del fatto e, dunque, alla correttezza estrinseca della imputazione), ma anche sostanziale e specifica, vale a dire estesa alla fattispecie concreta quale emerge dagli atti; con la conseguenza che dovrà essere dichiarata inammissibile la richiesta di patteggiamento, non solo nel caso di inesatta qualificazione giuridica del fatto contestato, ma anche nel caso di errore sul nomen iuris, originato dalla contestazione di un fatto diverso da quello risultante dagli atti.

Del resto, dall’obbligo di correlazione tra imputazione e sentenza, applicabile anche nei procedimenti speciali, se ne faceva altresì conseguire che, quando il giudice ritenga di dover pervenire a diversa qualificazione giuridica del fatto, non potendo egli modificare l’imputazione, deve respingere la richiesta e procedere con rito ordinario, mentre, quando egli accerti la diversità del fatto, deve necessariamente restituire gli atti al P.M. (Sez. 5, n. 467 del 26/01/1999; nello stesso senso, cfr. Sez. 6, n. 6510 dell’11/12/2003; Sez. U, n. 22902 del 28/03/2001).

Nel quadro così delineato, era, pertanto, ribadito che, in tema di applicazione della pena concordata, il giudice, ove ritenga di pervenire a diversa qualificazione giuridica del fatto, non può modificare l’imputazione, ma deve respingere la richiesta di “patteggiamento” e procedere con rito ordinario (Sez. 5, n. 40797 del 19/04/2013).

Orbene, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, gli Ermellini osservavano come anche a sostegno del concreto interesse a proporre l’odierna impugnazione, nella fattispecie concreta vi fosse stata una diversa qualificazione del fatto in termini non contemplati dall’accordo che le parti avevano definito, con conseguente sussistenza del vizio denunciato.

Ciò posto, l’accoglimento del relativo motivo di ricorso, che comportava l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei termini di cui al dispositivo, era reputata assorbente della questione prospettata relativamente alla illegalità della pena applicata ad uno degli imputati.

Precisato tale aspetto, i giudici di piazza Cavour stimavano parimenti il primo motivo in relazione alle posizioni di taluni di questi accusati.

In particolare, si evidenziava che la stessa Cassazione ha affermato, con orientamento consolidato, come, in tema di patteggiamento, l’omessa indicazione dell’iter, attraverso il quale il giudice perviene alla concreta determinazione della pena e, in particolare, della riduzione di pena prevista per il rito, comunque operata, costituisca una mera irregolarità della sentenza atteso che l’entità della riduzione premiale trova il proprio fondamento nell’art. 444 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 388 del 29/11/2019, dep. 2020: fattispecie nella quale il giudice, preso atto della dichiarazione delle parti a verbale, aveva applicato direttamente la pena finale già ridotta per il rito), al pari della mancata esplicitazione del giudizio dì comparazione tra circostanze, la cui prevalenza od equivalenza risulti dal calcolo concordato, ove il giudice affermi la congruità della pena applicata (Sez. 3, n. 14775 del 06/03/2020), o all’erronea sequenza del relativo procedimento (Sez. 2, n. 14320 del 23/02/2022: in fattispecie relativa a delitto circostanziato tentato) posto che è stato costantemente affermato che gli eventuali errori di calcolo commessi nei singoli passaggi interni per la determinazione della sanzione concordata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. non rilevano se il risultato finale non si traduce in una pena illegale (Sez. 5, n. 18304 del 23/01/2019; Sez. 6, n. 44907 del 30/10/2013; Sez. 1, n. 29668 del 17/6/2014) e tanto “corrisponde anche alla constatazione logica, prima ancora che giuridica, che nel patteggiamento l’accordo si forma non tanto sulla pena inizialmente indicata e sulle eventuali operazioni con le quali essa viene determinata, bensì sul risultato finale delle operazioni stesse” (Sez. 4, n. 1853 del 17/11/2005; Sez. 4, n. 518 del 28/1/2000; Sez. 6, n. 1705 del 6/5/1999, in un’ipotesi in cui, nei singoli passaggi intermedi, il calcolo effettuato aveva portato al superamento del limite minimo di pena edittale; Sez. 5, n. 51736 del 12/10/2016, in tema di recidiva), tenuto conto altresì del fatto che anche la valutazione di congruità della pena oggetto dell’accordo tra le parti deve aver riguardo alla pena indicata nel risultato finale, indipendentemente dai singoli passaggi interni, in quanto è unicamente il risultato finale che assume valenza quale espressione ultima e definitiva dell’incontro delle volontà delle parti (Sez. 3, 28641 del 28/5/2009); in altri termini, i singoli passaggi intermedi per la determinazione della sanzione concordata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. non rilevano, se il risultato finale non si traduce in una pena illegale.

Di conseguenza, nella delineata prospettiva, il sindacato di legittimità delle sentenze di patteggiamento in punto di determinazione quantitativa della sanzione è limitato alla illegalità della pena (Sez. 5, n. 15413 del 28/01/2020; N. 23084 del 2011, N. 19757 del 2019, N. 45360 del 2019, N. 18304 del 2019) fermo restando che, del resto, lo stesso legislatore ha recepito questa prospettiva, modificando l’art. 448 cod. proc. pen. con la novella di cui alla legge n. 103 del 2017 che vi ha aggiunto il comma 2-bis, che, tra i casi di ricorso per Cassazione consentito contro la sentenza di patteggiamento prevede, tra gli altri, di poter dedurre, quanto alla misura della pena concordata, solo la sua illegalità.

Quanto alla relativa nozione, la Suprema Corte, invece, si limita a ribadire che rientra nella nozione di pena illegale “ah origine” quella che si risolve in una pena diversa, per specie, da quella stabilita dalla legge, ovvero quantificata in misura inferiore o superiore ai relativi limiti edittali (Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016).


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Orbene, declinando tali considerazioni giuridiche rispetto al caso in esame, i giudici di legittimità ordinaria notava che, se l’omessa enunciazione del reato più grave, posto a fondamento del complessivo computo della sanzione, costituiva una mera irregolarità, nondimeno la pena base risultava essere stata quantificata in misura inferiore al limite edittale del più grave reato di furto pluriaggravato, in considerazione della disciplina prevista dall’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 61-bis cod. pen. che, nella parte in cui richiama l’art. 416-bis 1, comma secondo, cod. pen., sottrae al giudizio di comparazione il relativo aumento di pena, trattandosi, invero, di circostanza aggravante privilegiata – o a blindatura forte – del cui regime edittale viene garantita ex lege l’applicazione nel confronto con concorrenti circostanze di segno opposto, rilevandosi al contempo che, su tale tema, le Sezioni unite hanno affermato che «Le circostanze attenuanti che concorrono sia con circostanze aggravanti soggette a giudizio di comparazione ai sensi dell’art. 69 cod. pen. che con circostanza che invece non lo ammette in modo assoluto, devono essere previamente sottoposte a tale giudizio e, se sono ritenute equivalenti, si applica la pena che sarebbe inflitta – per il reato aggravato da circostanza “privilegiata” – se non ricorresse alcuna di dette circostanze» (n. 42414 del 29/04/2021), delineando una precisa modalità di computo che presuppone, peraltro, per la Corte di legittimità, l’esplicitazione della misura in cui le attenuanti siano state concesse.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, nel quadro dei principi costituzionali (Corte costituzionale, n. 38 del 1985 e n. 194 del 1985), è stato osservato come, nella tipizzazione di una circostanza aggravante “privilegiata”, il legislatore enunci il divieto di prevalenza e di equivalenza delle concorrenti circostanze attenuanti e disponga che «le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante»; dizione utilizzata anche nell’art. 61-bis, cod. pen., applicato nel caso qui all’esame, ricordandosi, sul punto, che il Giudice delle leggi ha suggerito anche un’interpretazione correttiva, finalizzata ad individuare un eventuale spazio di applicazione delle circostanze attenuanti nel caso di concorso con un’aggravante privilegiata, rimettendo al giudice l’alternativa se effettuare il bilanciamento, dall’esito vincolato ope legis in favore dell’aggravante, oppure non effettuarlo ed applicare congiuntamente gli aumenti e le diminuzioni di pena ex art. 63 cod. pen., in tal modo correlando la discrezionalità del giudice non al contenuto della valutazione comparativa delle circostanze, ma alla fase antecedente, ossia al momento della scelta se procedere o meno al giudizio di bilanciamento, posponendo l’operatività del vincolo normativo di prevalenza dell’aggravante “blindata” ad una fase successiva poiché la disposizione dell’art. 63, terzo comma, cod. pen. stabilisce che, in presenza di circostanze aggravanti ad effetto speciale, definite tali in quanto comportano un aumento della pena superiore ad un terzo, l’aumento (o la diminuzione) per altre circostanze concorrenti non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza stessa, con la precisazione, stabilita nel quarto comma della medesima disposizione, che, in caso si tratti di concorso tra circostanze aggravanti ad effetto speciale, vige la regola del computo obbligatorio della sola circostanza più grave, restando facoltativo un aumento per la meno grave, nei limiti di un terzo della pena.

Quindi, una volta che il giudice, nell’esercizio della discrezionalità sanzionatoria, ha individuato i profili costitutivi di una circostanza aggravante “privilegiata”, secondo il Supremo Consesso, costui sarà vincolato nel meccanismo di calcolo della pena secondo quanto previsto dalla specifica disposizione, non potendo – in presenza di altre circostanze eterogenee – “scegliere un itinerario di commisurazione della sanzione diverso da quello disegnato dagli artt. 69 e 63 cod. pen.: deve, perciò, operare il giudizio bilanciamento tra circostanze aggravanti che lo consentono e circostanze attenuanti e stabilire all’esito la pena conseguente all’applicazione dell’art. 63, quarto comma cod. pen., in caso di minusvalenza, ovvero dell’art. 63, quinto comma, in caso di prevalenza delle circostanze attenuanti” tenuto conto altresì del fatto che, del resto, sempre la Corte costituzionale, con la sentenza n. 117 del 2021, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 624-bis cod. pen., nel testo vigente, quanto alla previsione derogatoria del giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, osservando che da un lato «è precluso anche il giudizio di equivalenza oltre che di prevalenza, così rafforzandosi il ‘privilegio’ delle aggravanti», ma, per altro verso, ha osservato che è stabilito che le diminuzioni di pena per le circostanze attenuanti riconosciute siano apportate «sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti» ed ha ritenuto che nella fattispecie del furto in abitazione «il divieto di bilanciamento è posto a servizio di un bene giuridico di primario valore – l’intimità della persona raccolta nella sua abitazione – al quale il legislatore ha scelto di assegnare una tutela rafforzata, con opzione discrezionale e non irragionevole».

È stato, pertanto, conclusivamente affermato che le circostanze attenuanti che concorrono sia con circostanze aggravanti soggette a giudizio di comparazione ai sensi dell’art. 69 cod. pen. che con la circostanza aggravante di cui all’art. 61-bis cod. pen. che, invece, non lo ammette in modo assoluto, devono essere previamente sottoposte a tale giudizio e, se sono ritenute equivalenti, si applica la pena che sarebbe inflitta – per il reato aggravato dalla predetta circostanza “privilegiata” – se non ricorresse alcuna di dette circostanze».

Siffatte considerazioni, quindi, per la Corte, devono, all’evidenza, guidare le parti anche nella determinazione della pena della quale si richieda l’applicazione, ed impongono al giudice – nel preventivo vaglio di ammissibilità e nella successiva ratifica del pactum – la verifica della correttezza del giudizio di bilanciamento tra le circostanze eterogenee.

Ebbene, nel caso in esame, se l’omessa enunciazione del reato più grave, posto a fondamento del complessivo computo della sanzione costituiva una mera irregolarità, nondimeno la pena base risultava essere stata quantificata in misura inferiore al limite edittale del più grave reato di furto pluriaggravato in considerazione della disciplina prevista dall’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 61-bis cod. pen. che, nella parte in cui richiama l’art. 416-bis 1, comma secondo, cod. pen., sottrae al giudizio di comparazione il relativo aumento di pena.

Ricorreva, pertanto, per la Suprema Corte, il vizio denunciato deducibile con il ricorso di legittimità (cfr. Sez. 5, n. 7246 del 13/01/2021; Sez. 2, n. 9526 del 17/12/2021) in quanto, in mancanza anche solo dell’indicazione della misura in cui le circostanze aggravanti erano state, nel caso di specie, richieste ed applicate, la pena base determinata si profilava essere illegale.

Il rilievo dell’illegalità della pena, applicata agli imputati con il provvedimento impugnato, ne imponeva, conseguentemente, per la Cassazione, l’annullamento senza rinvio.

4. Conclusioni

La decisione desta un certo interesse, specialmente nella parte in cui è ivi chiarito cosa accade, in tema di applicazione della pena concordata, quando il giudice ritenga di pervenire a diversa qualificazione giuridica del fatto.

Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, si afferma per l’appunto che, in tema di applicazione della pena concordata, il giudice, ove ritenga di pervenire a diversa qualificazione giuridica del fatto, non può modificare l’imputazione, ma deve respingere la richiesta di “patteggiamento” e procedere con rito ordinario.

Pertanto, ove invece il giudice accolga tale richiesta pur ritenendo di dovere pervenire ad una diversa qualificazione giuridica, un provvedimento di questo tipo, come è avvenuto nel caso di specie, ben può essere impugnato dinnanzi alla Corte di Cassazione.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica procedurale sotto il profilo giurisprudenziale, quindi, non può che essere positivo.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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