Competenza giurisdizionale nel caso di connessione tra un reato militare e un reato comune più grave

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Indice:

Il fatto

La Corte militare di Appello confermava quella adottata dal Tribunale militare di Napoli che aveva sua volta condannato l’imputato alla pena di giustizia per i reati di simulazione di infermità aggravata (artt. 159 e 47, n. 2, cod. pen. mil. pace), truffa militare aggravata (artt. 234, comma 2, e 47, n. 2, cod. pen. mil. pace) e diserzione aggravata (artt. 148, n. 2 e 47, n. 2 cod. pen. mil. pace).

Ciò posto, nel primo grado di giudizio, il Tribunale militare aveva rigettato l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione del giudice militare sollevata dalla difesa dell’imputato che aveva esibito l’avviso di conclusione delle indagini preliminari emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi per i reati di cui agli artt. 81 e 476 cod. pen..

In particolare, secondo il Tribunale militare, l’eccezione era preclusa ai sensi dell’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., non essendo stata sollevata all’udienza preliminare; la deduzione difensiva relativa all’impossibilità di sollevare l’eccezione in sede di udienza preliminare per mancata conoscenza del procedimento pendente davanti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi veniva ritenuta infondata dal Tribunale militare, secondo cui, al contrario, tale conoscenza sussisteva sin dal momento della trasmissione degli atti da parte della Procura militare alla Procura della Repubblica di Brindisi, perché procedesse per i reati ordinari.

La statuizione sul punto veniva dal canto suo confermata dalla Corte militare di Appello che, investita dell’eccezione di difetto di giurisdizione, riteneva applicabile non il disposto dell’art. 20 cod. proc. pen., bensì quello dell’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., in presenza di un’ipotesi di connessione ex art. 12, comma l, lett. b), cod. proc. pen. tra reati comuni e reati militari e di conseguenza, sulla base di tale premessa, riteneva tardiva l’eccezione.

Inoltre, secondo la Corte militare, era irrilevante la mancata conoscenza, alla data dell’udienza preliminare, del procedimento pendente per i reati connessi, essendo prevalente, rispetto all’interesse ad un simultaneus processus, la necessità di non vanificare i processi in corso.

Nel merito, la Corte militare confermava l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, ritenendo sussistente l’elemento soggettivo del delitto di diserzione aggravata.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento emesso dalla Corte militare proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che deduceva i seguenti motivi: 1) erronea interpretazione e applicazione dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. attesa la connessione tra reati militari e reati comuni e la maggiore gravità di questi ultimi, posto che il chiaro dettato normativo non può essere disatteso sulla base di considerazioni fondate sulla specializzazione del giudice militare o su meri criteri di ragionevolezza; 2) violazione di legge con riferimento alla conferma della condanna per diserzione aggravata, rimarcando la assoluta mancanza dell’elemento psicologico del reato.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Prima Sezione penale rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite con riferimento al primo motivo di impugnazione.

La Sezione rimettente segnalava a tal proposito l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla disciplina applicabile in caso di connessione tra reati ordinari e reati militari ai fini dell’individuazione del giudice competente.

Una prima sentenza (Sez. 1, n. 3975 del 28/11/2013, dep. 2014), invero, ha affermato che l’applicazione della regola dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. sulla connessione tra reati comuni e reati militari soggiace al termine di decadenza stabilito dall’art. 21, comma 3, cod. proc. pen. per il rilievo d’ufficio o la proposizione dell’eccezione dell’incompetenza per connessione dato che l’art. 13 cit.  non è funzionale a prevenire o a rimediare difetti di giurisdizione dal momento che il giudice militare, conoscendo del reato militare, nonostante sia connesso a un più grave reato comune, non versa in difetto di potere giurisdizionale.

Ebbene, secondo la Sezione rimettente, tale decisione è orientata a salvaguardare gli spazi assegnati dalla legge alla giurisdizione militare, impedendo che sia privata della cognizione di fatti criminosi che integrano pur sempre reati militari, in conformità alle indicazioni della Corte costituzionale (ordinanze nn. 441 del 1998 e 204 del 2001) e delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 5135 del 25/10/2005, dep. 2006).

Questo primo orientamento, pertanto, ritiene che gli sbarramenti preclusivi posti per l’incompetenza per connessione operino anche per la deduzione del vizio di giurisdizione derivante da connessione.

Altra e contrapposta pronuncia (Sez. F, n. 47926 del 24/08/2017), invece, facendo leva sul principio della costante verifica della giurisdizione lungo tutto l’arco temporale del processo, ha negato la tardività dell’eccezione di difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria militare, non sollevata all’udienza preliminare ma soltanto con il ricorso per cassazione.

Secondo quella pronuncia, la questione di giurisdizione è in effetti rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e, di conseguenza, è liberamente deducibile dalle parti senza necessità del rispetto di determinate e rigide cadenze processuali.

Ciò posto, l’ordinanza di rimessione ricordava altresì che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che il riparto di competenza tra giudice ordinario e giudice militare rileva sul piano della potestà giurisdizionale, attenendo alla giurisdizione e non alla competenza come, del resto, espressamente previsto dall’art. 103, terzo comma, Cost..

In particolare, le Sezioni Unite, (Sez. U, n. 25 del 24/11/1999), hanno ritenuto il difetto di giurisdizione nel rapporto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare non omologabile al difetto di competenza e ne hanno affermato l’operatività nei confini dell’art. 20 cod. proc. pen., richiamandosi al contempo l’insegnamento della Corte costituzionale (Corte cost. sent. nn. 29 del 1958, 206 del 1987 e 73 del 1998) secondo cui la giurisdizione dei tribunali militari deve restare circoscritta entro precisi limiti soggettivi ed oggettivi sicché, in carenza delle condizioni tassativamente prefigurate dalla legge, la giurisdizione normalmente da adire è quella dei giudici ordinari anche nella materia militare.

Sulla base di questo inquadramento, ad avviso di questa Sezione, il tema della giurisdizione non può essere precluso all’esame del giudice nel caso in cui agisca, come criterio di attribuzione, la connessione.

L’ordinanza, pertanto, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite perché risolvesse la questione se, in caso di connessione tra un reato militare e un reato ordinario più grave, la questione di “competenza giurisdizionale” derivante dall’applicazione della regola di cui all’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. soggiaccia alla disciplina di cui all’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., ossia alla regola della rilevabilità – o eccepibilità – a pena di decadenza soltanto prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine di cui all’art. 491, comma 1, cod. proc. pen..

La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

Il Procuratore generale militare della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione, depositava le sue richieste, chiedendo il rigetto del ricorso sulla questione rimessa alle Sezioni Unite.

Secondo il Procuratore generale militare, nel caso in esame, non ricorreva un caso di difetto di giurisdizione perché il giudice militare procedeva per un reato previsto dal codice penale militare di pace, rientrante nella sua giurisdizione; piuttosto, era prospettata una questione concernente il difetto di competenza del giudice militare, regolata dall’art. 13, comma 2, cod. proc. pen..

In particolare, il fatto che l’art. 20 cod. proc. pen. non contenga una norma analoga a quella dell’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., per la pubblica accusa, si giustificava proprio con la considerazione che la connessione tra reati comuni e reati militari è istituto estraneo al difetto di giurisdizione; non a caso, l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. usa il termine “competenza” mentre la tesi opposta, sostenuta dal ricorrente, provocherebbe un’interferenza del regime dell’incompetenza per connessione con quello del difetto di giurisdizione; secondo il Procuratore generale militare, invero, il suo recepimento determinerebbe un’indebita e indefinita dilazione dei tempi processuali, nonché effetti distorsivi sulla giurisdizione.

Infine, il Procuratore generale militare denunciava l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso per genericità, nonché segnalava l’intervenuta prescrizione dei reati di cui ai capi di imputazione Al), A2), B1), B2), Cl), C2), Dl), D2), E1) ed E2).

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Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione, procedevano a delimitarla nei seguenti termini: “Se, in caso di connessione tra un reato militare e un reato comune più grave, la questione del riparto di “competenza giurisdizionale”, regolata dall’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., soggiaccia alla disciplina, di cui all’art. 21, comma 2, cod. proc. pen., della rilevabilità e sollevabilità a pena di decadenza soltanto prima della conclusione dell’udienza preliminare o, in mancanza di questa, entro il termine di cui all’art. 491, comma l, cod. proc. pen., ovvero sia rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, in applicazione dell’art. 20 cod. proc. pen.”.

Premesso ciò, gli Ermellini ritenevano innanzitutto opportuno chiarire le diverse nozioni di giurisdizione e di competenza nei seguenti termini: “L’art. 1 cod. proc. pen. presuppone le norme della Costituzione in materia di “ordinamento giudiziario” e, cioè, gli artt. 101 e ss. che forniscono la struttura portante di tutto il sistema giustizia. L’art. 1 richiama, quasi testualmente, l’art. 102 primo comma Costo e, tramite questo, l’art. 25 secondo comma Cost. che sancisce la “naturalità” e la “precostituzione” del giudice rispetto al fatto reato da accertare. Nel richiamare tutti i principi costituzionali sulla magistratura, l’art. 1 fissa nell’ordinamento giudiziario il corpo normativo che identifica gli uffici e le persone fisiche cui è conferita la funzione giurisdizionale. La nozione di giurisdizione presuppone l’esistenza di un giudice che la esercita, organo che può essere ritenuto tale sulla base di determinati parametri: la Costituzione li indica nella soggezione soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), nell’indipendenza (artt. 104 e 108, secondo comma, Cost.), nella terzietà e imparzialità (art. 111, secondo comma, Cost.), nonché nell’esercizio della giurisdizione con un giusto processo svolto nel contraddittorio tra le parti e in condizione di parità tra le stesse (art. 111, primo e secondo comma, Cost.). (…)In base alle norme costituzionali, i giudici operano in diversi ordinamenti: magistrati ordinari nell’ordine giudiziario, regolato dalla legge sull’ordinamento giudiziario; il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa, la Corte dei Conti e i tribunali militari in autonomi ordinamenti: si tratta, quindi, di giudici speciali, la cui cognizione riguarda soltanto alcune persone e specifiche materie; essi sono composti da magistrati che non fanno parte dell’ordine giudiziario e ai quali non si applicano le norme sull’ordinamento giudiziario, ma la cui indipendenza è assicurata dalla legge (art. 108, secondo comma, Cost.). La sesta disposizione transitoria della Costituzione, prevedendo la revisione degli organi speciali di giurisdizione allora esistenti, faceva salve le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti e dei tribunali militari. In base all’art. 134 Cost., la Corte costituzionale è giudice speciale sull’accuse promosse contro il Presidente della Repubblica. (…) L’art. 103 Cost. stabilisce, per ciascun giudice speciale, l’ambito della sua giurisdizione; le indicazioni della norma costituzionale sono, poi, specificate dalla legge ordinaria e, in particolare, quanto ai tribunali militari, dall’art. 263 cod. pen. mil. pace. Come si dirà in seguito, la giurisdizione in caso di connessione tra procedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria e procedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria militare era determinata dall’art. 264 cod. pen. mil. pace, abrogato dall’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. che ha regolato ex novo la materia. (…) Le questioni di giurisdizione, quindi, presuppongono un dubbio sull’attribuzione della cognizione su un determinato fatto ad un giudice ordinario o ad un giudice speciale o ad uno tra due giudici speciali. Nell’ambito dell’ordine giudiziario, inoltre, può sorgere una questione attinente alla giurisdizione tra un giudice penale e un giudice civile. In effetti, i magistrati ordinari esercitano la funzione giurisdizionale sia in ambito civile che in ambito penale: l’art. 1 cod. proc. civ. e l’art. 1 cod. proc. pen. delimitano i rispettivi ambiti. Tale ulteriore questione non può presentarsi, invece, nell’ambito delle giurisdizioni speciali: in particolare, i tribunali militari in tempo di pace hanno giurisdizione esclusivamente sulla materia penale. (…) Le questioni di giurisdizione sono decise dalla Corte di cassazione: in base alle norme processuali, le Sezioni Unite civili della Cassazione decidono sulle questioni di giurisdizione che coinvolgono i giudici civili, i giudici amministrativi e la Corte dei Conti, mentre la Cassazione penale risolve quelle che coinvolgono i giudici penali, i tribunali militari e la Corte costituzionale. (…) La competenza attiene, invece, alla ripartizione degli affari tra i vari giudici all’interno di un singolo ordinamento. Nell’ambito della giurisdizione militare, gli artt. 272 e ss. cod. pen. mil. pace regolano la competenza territoriale dei tribunali militari (rispettivamente di Verona, Roma e Napoli, art. 55, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, codice dell’ordinamento militare). Nell’ambito della giurisdizione ordinaria, invece, gli artt. 4 e ss. cod. proc. pen. determinano la competenza dei giudici penali per materia, per territorio e per connessione”.

Precisato ciò, a questo punto della disamina, i giudici di legittimità ordinaria reputavano opportuno premettere all’esame dei due orientamenti in conflitto un’analisi storica della giurisdizione militare e una rassegna degli interventi del legislatore costituente e di quello ordinario, nonché delle pronunce più rilevanti della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite.

Per tale fine, si faceva prima di tutto presente che l’esistenza di una giurisdizione penale militare risale all’antichità, mentre i codici penali per l’Esercito e la Marina, entrati in vigore il 15 febbraio 1870, avevano previsto numerose fattispecie di reato aventi carattere propriamente militare, sia con riferimento al soggetto attivo militare che alla qualità del fatto, enucleando, tuttavia, anche altre fattispecie di reato che, pur corrispondendo ad analoghe ipotesi della legge penale comune, apparivano lesive di un apprezzabile bene o interesse militare.

Invece, per il tempo di pace, i codici prevedevano l’applicazione della legge penale militare sostanziale solo ai militari in servizio, con esclusione degli estranei e dei militari in congedo, che venivano sempre assoggettati alla giurisdizione ordinaria anche per i reati militari fermo restando che, da un lato, anche i militari imputati di reati militari in concorso con estranei venivano sottoposti alla giurisdizione ordinaria, dall’altro, la giurisdizione ordinaria veniva i riconosciuta anche in caso di connessione tra reati militari e reati ordinari, cosicché i tribunali militari giudicavano soltanto i reati militari commessi da militari in servizio non connessi con reati comuni.

Ciò posto, il codice di procedura penale del 1930 aveva adottato, invece, la soluzione opposta, disponendo che, nel caso di connessione tra procedimenti di competenza dei tribunali militari e procedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria, la cognizione spettasse al giudice speciale che, peraltro, poteva ordinare la separazione dei procedimenti (art. 49).

In sostanza, si affermava la prevalenza della giurisdizione militare, così come analoga soluzione veniva adottata nel 1941, con l’approvazione del codice penale militare di pace che, all’art. 263, attribuiva ai tribunali militari la cognizione dei reati militari commessi dalle persone alle quali era applicabile la legge penale militare. Erano assoggettati ai tribunali militari, quindi, anche i soggetti attivi del reato che non rivestivano la qualità di militari in servizio, tenuto conto altresì del fatto che, in caso di connessione di procedimenti, venivano attribuiti alla giurisdizione militare i reati di competenza del giudice ordinario dal momento che l’art. 264 cod. pen. mil. pace attribuiva espressamente ai tribunali militari la cognizione dei delitti previsti dalla legge penale comune e perseguibili d’ufficio, se commessi da militari, nonché di delitti in danno del servizio militare o dell’amministrazione militare e di altri delitti specificamente indicati.

Successivamente, nei lavori dell’Assemblea Costituente, era stata inizialmente ipotizzata la soppressione dei tribunali militari per la loro incompatibilità con il principio dell’unità della giurisdizione, in base al quale l’amministrazione della giustizia è affidata ai giudici ordinari atteso che il progetto di Costituzione predisposto dalla Commissione dei 75 prevedeva la possibilità di istituire tribunali militari solo in tempo di guerra.

Prevalse, tuttavia, l’orientamento opposto sulle base di diverse considerazioni: in primo luogo, l’unità della giurisdizione era già derogata in altre parti; inoltre, i reati militari hanno una natura specifica che esige una particolare professionalità del giudice; ancora, l’esistenza dei tribunali militari avrebbe garantito la tempestività della repressione e avrebbe tutelato i valori della tradizione e dello spirito militari e della disciplina; infine, la permanenza dei tribunali militari in tempo di pace avrebbe reso immediatamente operativa la loro giurisdizione in tempo di guerra.

Tale scelta si accompagnò, però, con quella di limitare la giurisdizione dei tribunali militari in tempo di pace ai reati e agli autori militari.

L’art. 103, terzo comma, Cost., invero, prevede che «i tribunali militari […] in tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate» e, con tale norma, quindi, viene sancita la permanenza della giurisdizione dei tribunali militari anche in tempo di pace ma con un duplice limite: di tipo oggettivo, in quanto prevista solo per i reati militari; di tipo soggettivo, potendo essere esercitata soltanto nei confronti degli appartenenti alle Forze armate.

Pertanto – contrariamente a quanto era avvenuto in epoche precedenti – i tribunali militari non hanno giurisdizione su reati comuni, anche se commessi da appartenenti alle Forze armate, nemmeno se connessi con reati militari, né possono giudicare imputati estranei alle Forze armate per reati militari o commessi in concorso con imputati militari fermo restando che la norma costituzionale de qua, però, non stabilisce una giurisdizione esclusiva dei tribunali militari in tempo di pace per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate, ma una giurisdizione concorrente con quella della magistratura ordinaria: in effetti, l’art. 102, primo comma, Cost. enuncia il principio generale in base al quale «la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

L’avverbio “soltanto” usato dal legislatore costituzionale nell’art. 103, terzo comma, pone, quindi, un limite alla giurisdizione dei tribunali militari in tempo di pace – impedendo loro di giudicare persone estranee alle Forze armate, nonché reati comuni da chiunque commessi – mentre nessun limite viene posto alla giurisdizione dei giudici ordinari.

Detto questo, dal canto suo, la Corte costituzionale ha specificato l’ambito della giurisdizione militare con plurimi interventi.

Infatti, con la sentenza n. 29 del 1958, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 264 cod. pen. mil. pace, come modificato dalla legge 23 marzo 1956, n. 167, laddove attribuisce all’autorità giudiziaria ordinaria la cognizione dei procedimenti in caso di connessione tra delitti di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria e delitti di competenza dell’autorità giudiziaria militare, ha escluso che dall’ultimo comma dell’art. 103 della Costituzione possa desumersi l’esistenza, anche per il tempo di pace, di una competenza dei tribunali militari assoluta e inderogabile e, in tale occasione, la Corte ha sottolineato che l’avverbio “soltanto” esprime la volontà del Costituente di circoscrivere la giurisdizione militare in tempo di pace nei limiti soggettivi e oggettivi già specificati e ha affermato che la giurisdizione ordinaria deve essere considerata, per il tempo di pace, come la giurisdizione normale e prevalente, ricordando il tenore dei lavori preparatori ed evidenziando la netta antitesi delle norme costituzionali con l’orientamento a cui erano ispirate quelle previgenti, fermo restando che lo stesso principio è stato ribadito con la sentenza n. 207 del 1987,che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 104, primo comma, della legge 10 aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza) che ha disposto lo scioglimento del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza, ne ha smilitarizzato i componenti e li ha assoggettati alla giurisdizione penale dell’autorità giudiziaria ordinaria.

L’art. 104 cit. ha previsto il trasferimento dei procedimenti penali pendenti davanti ai tribunali militari all’autorità giudiziaria ordinaria mentre, a fronte della denuncia del contrasto di tale previsione con l’art. 103, terzo comma, Cost., basata sulla considerazione che i reati militari erano stati commessi quando gli autori appartenevano alle Forze armate, la Corte costituzionale ha ribadito che la norma costituzionale non stabilisce affatto una giurisdizione esclusiva per i tribunali militari in tempo di pace, esprimendo «la chiara volontà che la giurisdizione militare in tempo di pace resti circoscritta entro limiti per nessuna ragione oltrepassabili nei confronti della giurisdizione ordinaria».

Con la sentenza n. 429 del 1992, la Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità dell’art. 263 cod. pen. mil. pace nella parte in cui assoggettava alla giurisdizione militare le persone alle quali è applicabile la legge penale militare anziché i soli militari in servizio alle armi o considerati tali dalla legge al momento del commesso reato e, con tale pronuncia, era rimarcato il fatto che «la giurisdizione ha, in tempo di pace, un ambito di applicabilità minore di quello dell’assoggettamento alla legge penale militare. Il limite soggettivo, infatti, perché si risponda dinanzi al giudice speciale militare è che si tratti di reati commessi durante il servizio alle armi, mentre per i reati previsti dalla legge penale militare, quando li si commetta da appartenenti alle Forze armate ma non in servizio alle armi, si risponde dinanzi alla giurisdizione ordinaria. [ … ] La diversità di piani di iurisdictio e lex presente in Costituzione, assente nel codice penale militare di pace, vale inoltre a sottolineare il principio che la giurisdizione normalmente da adire è quella dei giudici ordinari anche nella materia militare».

A loro volta le Sezioni Unite hanno affrontato il tema dei confini della giurisdizione militare fin dai primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione.

Già nel 1948 (Sez. U, 26/06/1948), invero, le Sezioni Unite affermavano l’immediata applicabilità dell’art 103 Cost., statuendo che «la competenza dei tribunali militari deve ormai intendersi circoscritta ai soli casi in cui congiuntamente concorra la duplice condizione oggettiva e soggettiva di reato militare commesso da militare, senza possibilità della estensione di tale competenza a casi di connessione con estranei alla milizia o con reati comuni» e, di conseguenza, veniva ritenuto inapplicabile il principio della prevalenza della competenza dell’autorità giudiziaria militare su quella ordinaria in caso di connessione di procedimenti, sancito dall’art. 49 cod. proc. pen. 1930 mentre veniva ritenuto direttamente applicabile il principio opposto della prevalenza dell’autorità giudiziaria ordinaria, salva la facoltà per la Corte di cassazione di separare i procedimenti.

Con la sentenza Sez. U, n. 20 del 4 luglio 1953, invece, le Sezioni Unite confermavano il principio della prevalenza dell’art. 103 Cost. sulla norma dell’art. 49 cod. proc. pen. 1930 e dichiaravano la nullità della sentenza del giudice militare che, pur conoscendo la sussistenza di reati comuni connessi a quelli di sua competenza, aveva disposto la separazione dei procedimenti al fine di giudicare solo i reati militari, così attribuendosi indebitamente le funzioni della Corte di Cassazione.

Orbene, rilevavano le Sezioni Unite nella decisione qui in esame, le pronunce appena menzionate indussero il legislatore a modificare l’art. 264 cod. pen. mil. pace con la legge 23 marzo 1956, n. 167, che attribuì all’autorità giudiziaria ordinaria la cognizione dei reati in caso di connessione con procedimenti dell’autorità giudiziaria militare, permettendo alla Corte di Cassazione di disporre la separazione dei procedimenti.

Per la Corte di legittimità, inoltre, pur non occorrendo approfondire il contenuto della norma in quanto, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. ne ha determinato l’abrogazione (Sez. U, n. 5135 del 25/10/2005, dep. 2006), secondo la citata decisione, in tempo di pace, la giurisdizione dei tribunali militari non è inderogabile, sicché anche procedimenti che sarebbero di competenza del giudice militare possono essere attribuiti dal legislatore, nella sua discrezionalità, al giudice ordinario, quando gli stessi sono connessi con procedimenti di competenza di quest’ultimo mentre è escluso che procedimenti di competenza del giudice ordinario possano essere attribuiti al giudice militare per ragioni di connessione.

Ebbene, sulla base di tale premessa, le Sezioni Unite hanno enunciato il principio di diritto in base al quale, «quando esiste connessione tra procedimenti di competenza del giudice ordinario e procedimenti di competenza del giudice militare la giurisdizione spetta per tutti al giudice ordinario, a norma dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., soltanto se, trattandosi di procedimenti per reati diversi, il reato comune è più grave di quello militare, mentre in tutti gli altri casi rimangono separate le rispettive sfere di giurisdizione. Pertanto, quando la connessione concerne procedimenti relativi allo stesso reato commesso da militari in concorso con civili, il giudice militare mantiene integra nei confronti dei primi la propria giurisdizione».

Le Sezioni Unite hanno quindi risolto la questione della possibile vigenza di entrambe le norme processuali, sostenuta in precedenti sentenze che ne proponevano un coordinamento in sede di applicazione, e affermavano l’applicabilità diretta dell’art. 103, terzo comma, Cost., per il caso di concorso nel reato militare di imputati civili e imputati militari, ritenendosi, al contrario, come sia chiara la volontà del legislatore di regolare l’intera materia, con conseguente abrogazione dell’art. 264 cod. pen. mil. pace in applicazione dell’art. 15 preleggi.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che la soluzione adottata non contrasta con la pronuncia delle Sezioni Unite, n. 1684 del 14/12/1994, la quale aveva escluso l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento penale militare, affermando la persistente operatività dell’art. 261 cod. pen. mil. pace, che rinvia all’applicazione, nel processo dinanzi ai tribunali militari, delle disposizioni del codice di procedura penale “salvo che la legge disponga altrimenti”, avendo siffatte Sezioni ritenuto come tale norma salvaguardasse le ipotesi di deroga al regime generale del codice di rito, e, in particolare, quella prevista dall’art. 270 cod. pen. mil. pace che esclude la proposizione dell’azione civile per il risarcimento del danno dinanzi ai tribunali militari, non ritenendola in contrasto con le linee fondamentali tracciate dal legislatore del nuovo codice di procedura mentre l’abrogazione dell’art. 264 cod. pen. mil. pace è stata ritenuta dalle Sezioni Unite, n. 5135/2005 sulla base di un diverso criterio, quello della volontà del legislatore di regolare, con l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., l’intera materia del riparto di giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e autorità giudiziaria militare in caso di connessione tra procedimenti.

Detto questo, era oltre tutto evidenziato che l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. limita, rispetto a quanto prevedeva l’art. 264 cod. pen. mil. pace modificato dalla legge n. 167 del 1956, l’attribuzione della giurisdizione alla autorità giudiziaria ordinaria in caso di connessione con procedimenti appartenenti alla cognizione dei tribunali militari atteso che questa norma la prevede soltanto se il reato comune è più grave di quello militare, così evitando una disciplina troppo limitativa della giurisdizione militare, salvaguardata attraverso la separazione dei procedimenti connessi in tutti i casi che non rientrano nella previsione dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. e, di conseguenza, operando in tal guisa, il legislatore ha quindi voluto attribuire rilievo, sia pure per un ambito circoscritto, alla specifica professionalità del giudice militare quale giudice speciale, tenuto conto altresì del fatto che come tale esigenza è stata manifestata anche da due ordinanze della Corte costituzionale.

In effetti, con l’ordinanza n. 441 del 1998, la Corte ha escluso che, con la disciplina dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., il legislatore delegato abbia violato la delega, ribadendo che «la scelta [ … ] di limitare i casi di connessione tra reati comuni e militari alle ipotesi di maggiore gravità del reato comune risponde all’esigenza, sottolineata nella Relazione al progetto definitivo del codice [ … ], di evitare che, attraverso l’estensione della competenza attrattiva del giudice ordinario a tutte le ipotesi di connessione previste dall’art. 12 cod. proc. pen., l’esercizio della giurisdizione militare risultasse eccessivamente e irragionevolmente penalizzato» mentre, con l’ordinanza n. 204 del 2001, sempre il giudice delle leggi ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione relativa alla mancata applicazione al rito militare della disciplina sul giudice monocratico introdotta dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, osservando che «la disciplina della composizione del tribunale militare risponde […] a finalità analoghe a quelle cui è ispirata la previsione di organi giudicanti specializzati collegiali – organi chiamati a giudicare anche su reati o su controversie civili aventi, di per sé, limitata rilevanza (si pensi, per tutti, al tribunale per i minorenni ed alle sezioni specializzate agrarie) – i quali si caratterizzano per la presenza, a fianco di giudici “togati“, di soggetti estranei alla magistratura idonei a fornire, per il possesso di particolari requisiti culturali o professionali, un qualificato contributo alla comprensione delle vicende oggetto del giudizio»; di conseguenza, la previsione di una composizione collegiale e mista dei tribunali militari, con la partecipazione di un membro laico proveniente dalle Forze armate, è stata ritenuta frutto «di una scelta legislativa niente affatto irragionevole».

A loro volta la sentenza delle Sezioni Unite, n. 25 del 24/11/1999, ha approfondito e chiarito il riparto di potestà tra giudice ordinario e giudice militare, rilevandosi al riguardo che tale sentenza è stata pronunciata con riferimento al conflitto sollevato da un tribunale militare avverso un’ordinanza del tribunale civile che aveva provveduto, a seguito di impugnazione del difensore, contro il decreto del giudice per le indagini preliminari militare in materia di liquidazione dei compensi professionali a norma della legge n. 217 del 1990.

Orbene, in quella occasione, le Sezioni Unite hanno: a) dichiarato giuridicamente inesistente il provvedimento del giudice civile, in quanto privo del requisito della provenienza da un organo giudiziario investito del potere di decisione in una materia riservata agli organi della giurisdizione penale e, come tale, esorbitante dai limiti interni e oggettivi che discriminano il ramo civile e quello penale nella distribuzione della iurisdictio; b) osservato che «dall’accertata usurpazione del potere di giurisdizione penale, da cui risulta viziata l’ordinanza pronunciata dal tribunale civile, deve inferirsi [ … ] l’inesistenza giuridica di questa e l’inidoneità a produrre gli effetti giuridici che la legge ricollega al suo contenuto decisorio»; c) evidenziato testualmente che il «difetto di giurisdizione, in questo caso, non appare, a ben vedere, relativo e interno ai confini delineati dall’art. 1 cod. proc. pen. per la “giurisdizione penale”, bensì assoluto ed esterno al sistema chiuso che quella disposizione configura con funzione ricognitiva, analoga e simmetrica a quella assegnata dall’ordinamento alla norma dell’art. 1 cod. proc. civ. per delineare i contorni del separato ramo della “giurisdizione civile”. Trattasi di una “macro-anomalia”, genetica e funzionale, dell’atto, innominata e però individuata alla stregua di un ragionamento rigorosamente ancorato al terreno del diritto positivo, così radicale che risulta assimilabile al c.d. eccesso di potere giurisdizionale e non è per contro riconducibile ai più ristretti profili considerati dall’art. 20 cod. proc. pen. per l’ipotesi meno grave di violazione delle regole sulla giurisdizione da parte del giudice ordinario rispetto a quello speciale – militare e costituzionale – o viceversa, cioè di un’esorbitazione dalle rispettive sfere pur sempre interna al perimetro della giurisdizione penale».

Le Sezioni Unite, quindi, hanno ritenuto i tribunali militari un organo giudiziario investito del potere di decisione in una materia riservata agli organi della “giurisdizione penale“, interni ai confini disegnati dall’art. 1 cod. proc. pen., ed hanno affermato espressamente che la violazione delle regole sulla giurisdizione da parte del giudice ordinario o del giudice militare rientra nell’ipotesi prevista dall’art. 20 cod. proc. pen., seppure senza produrre l’inesistenza dell’atto.

Ebbene, alla luce del quadro fin qui delineato, era per la Suprema Corte possibile, a questo punto della disamina, valutare gli orientamenti in contrasto.

In particolare, secondo Sez. l, n. 3975 del 28/11/2013, nel caso di connessione tra reati militari e reati comuni, non ricorre un caso di difetto di giurisdizione, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell’art. 20 cod. proc. pen., in quanto il reato militare rientra nella giurisdizione del giudice militare visto che la questione attiene, invece, alla competenza per connessione specificamente prevista dall’art. 13, comma 2, cod. proc. pen.: di conseguenza, deve essere applicata la disciplina generale sulla rilevabilità della incompetenza dettata dall’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., in base al quale l’incompetenza per connessione è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro i termini previsti dal comma precedente, vale a dire prima della conclusione dell’udienza preliminare o, in mancanza di questa, entro il termine di cui all’art. 491, comma l, cod. proc. pen. fermo restando che un ulteriore argomento, a sostegno dell’applicabilità dell’art. 21, comma 3, cod. proc. pen. in caso di connessione tra procedimenti aventi ad oggetto reati comuni e reati militari, per la Suprema Corte, è tratto dalla lettera della norma e dalla sua collocazione all’interno del codice di rito: l’art. 13 cod. proc. pen. è inserito nel Capo Il del Titolo I del Libro I, relativo alla competenza, e non nel Capo I, relativo alla giurisdizione; la rubrica della Sezione IV del Capo II richiama la competenza per connessione e, in tale Sezione, sono trattati sia i casi di connessione tra reati giudicati da diversi giudici ordinari, sia, appunto, la connessione di procedimenti aventi ad oggetto reati comuni e reati militari.

Infine, veniva altresì notato, a sostegno di siffatto orientamento interpretativo, che la rubrica dell’art. 13 cod. proc. pen. richiama la connessione di procedimenti «di competenza di giudici ordinari e speciali» e la norma in esame attribuisce al giudice ordinario, nel caso in cui il reato comune sia più grave di quello militare connesso, la «competenza per tutti i reati».

A tale orientamento si contrappone espressamente Sez. F., n. 47928 del 24/08/2017.

Benché la questione non fosse stata proposta all’udienza preliminare, la Corte ha infatti ritenuto ammissibile il motivo di ricorso con cui la difesa dell’imputato aveva sostenuto il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria militare sul presupposto della maggiore gravità del reato comune contestato all’imputato insieme a reati militari fermo restando che tale reato era stato ritenuto invece meno grave dalla Corte militare di appello, che aveva confermato la condanna per i reati militari, ordinando la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica in relazione ai reati comuni.

La Corte ha tra l’altro considerato la questione rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo e, di conseguenza, altrettanto liberamente deducibile dalle parti senza doversi attenere al rispetto di determinate e rigide cadenze processuali sulla base dei seguenti rilievi dal momento che l’art. 20 cod. proc. pen. impone al giudice la verifica della giurisdizione quale adempimento necessario e logicamente anticipato rispetto ad ogni altra indagine su questioni ad esso devolute, verifica da condursi in base ai fatti oggetto dell’imputazione e da rinnovarsi in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio, con la conseguente declaratoria di difetto di giurisdizione, qualora i presupposti fattuali e normativi subiscano mutamenti rispetto all’accusa originaria col progredire del corso del processo.

Altre pronunce di legittimità hanno invece ricostruito i rapporti tra autorità giudiziaria ordinaria e autorità giudiziaria militare come attinenti alla giurisdizione, sia pure senza affrontare espressamente la tematica oggetto della questione rimessa alle Sezioni Unite.

In particolare, Sez. 1, n. 44514 del 28/9/2012, ha qualificato la questione di competenza sollevata dai ricorrenti in forza dell’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. come attinente alla potestas iudicandi del giudice ordinario, «giacché il riparto di potestà tra giudice ordinario e autorità giudiziaria militare attiene alla giurisdizione, in conformità al dettato costituzionale (art. 103, terzo comma, Cost.)>>, con la conseguenza che deve trovare applicazione la disciplina generale dell’art. 20 cod. proc. pen., così come i medesimi principi sono stati affermati da Sez. 1, n. 23372 del 15/5/2015.

Ciò posto, dal canto loro i conflitti tra giudice militare e giudice ordinario sono stati costantemente qualificati come conflitti di giurisdizione. Così, recentemente, Sez. 1, n. 11619 del 26/2/2021 e Sez. 1, n. 48461 del 9/9/2019. Quest’ultima pronuncia si sofferma sulla natura del conflitto, osservando «che il riparto di potestà tra giudice ordinario e giudice militare attiene [ … ] alla giurisdizione e non alla competenza, in conformità al dettato costituzionale (art. 103, terzo comma, Cost.) ed alla connessa disciplina codicistica di cui all’art. 620, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., in forza della quale (disciplina) la corte di legittimità pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se il reato non appartiene alla giurisdizione 1del giudice ordinario.

La regolamentazione della fattispecie è, pertanto, affidata alla disciplina generale di cui all’art. 20 cod. proc. pen. – il quale statuisce che il difetto di giurisdizione è rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del processo – ed alla individuazione del reato più grave tra quelli da giudicare, l’uno rientrante nella giurisdizione militare e l’altro in quella ordinaria (art. 13, comma 2, cod. proc. pen.). In base alla disposizione da ultimo citata, in caso di connessione di reati, la potestas iudicandi spetta al giudice ordinario anche per il reato militare alla unica condizione che il reato comune sia da considerarsi di maggiore gravità alla stregua dei criteri di cui all’art. 16, comma 3, cod. proc. pen. mentre negli altri casi, invece, le sfere di giurisdizione, ordinaria e militare, rimangono separate, sicché al giudice militare appartiene la cognizione dei reati militari e al giudice ordinario quella per i reati comuni.

Orbene, le Sezioni Unite ritenevano corretto il secondo orientamento per le seguenti ragioni.

Si osservava prima di tutto che la decisione sulla questione sollevata dalla Sezione rimettente presupponeva l’esame di due distinti profili: la riconducibilità della connessione tra procedimenti aventi ad oggetto reati ordinari e procedimenti per reati militari alla categoria della giurisdizione o della competenza e il fondamento normativo della relativa soluzione, rilevandosi al contempo che la sentenza della Corte militare d’appello non teneva del tutto distinti i due temi, essendo stato ivi osservato che «anche nel caso di connessione con un più grave reato comune, ove il giudice militare si pronunci sul reato militare – rispetto al quale era originariamente competente – non vengono comunque violati i limiti della sua giurisdizione, così come segnati dall’art. 103, comma 3, Cost., ma unicamente quelli della sua competenza: venuta meno, a posteriori, solo per la concorrente presenza della più ampia, “normale“, competenza del giudice ordinario».

Ebbene, sulla base di questa considerazione – che, in sostanza, sottolinea che il giudice militare ha cognizione sui reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate – la sentenza proponeva un parallelismo tra il caso in esame e le questioni di competenza per connessione che si pongono tra diversi giudici ordinari ma «a ben vedere l’ipotesi in esame in nulla, sostanzialmente, differisce rispetto al caso in cui più reati comuni – rimessi alla cognizione di più giudici ordinari, sovra e sotto ordinati, ciascuno dei quali, nella loro diversa composizione, competenti rispetto al singolo reato giudicato e, quindi, per materia – siano stati giudicati separatamente, in dispregio delle norme sulla connessione [ … ]», fermo restando che l’affermazione era ribadita nel prosieguo, osservandosi che «[ … ] per quanto riguarda la connessione di procedimenti e fermo restando quanto espressamente disposto dall’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., il rapporto che si pone tra giudice militare e giudice ordinario è un rapporto del tutto comparabile rispetto a quello che si pone tra diversi giudici ordinari parimenti competenti per materia».

Da questo parallelismo, ad avviso delle Sezioni Unite, la Corte militare d’appello sembra trarre le conseguenze in punto di applicazione della disciplina dell’art. 21, comma 3, cod. proc. pen.: «Ma se ciò è vero, non risulta allora alcuna giustificazione, normativamente imposta, per cui il caso in esame debba essere assoggettato ad un così radicale diverso trattamento solo perché i procedimenti legati dalla connessione fanno capo a due diverse giurisdizioni; venendo, infatti, sì, violata la regola di riparto della competenza posta dall’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., ma non anche i limiti alla giurisdizione militari fissati dall’art. 103, terzo comma Cost.».

Come si può rilevare, la Corte militare d’appello non negava che i procedimenti connessi facciano capo a due diversi organi giudiziari, ma sembra sostenere che, poiché i giudici militari hanno giurisdizione sui reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate, la mancata applicazione della norma sulla connessione con procedimenti pendenti davanti ai giudici ordinari non produce effetti rilevanti, atteso che l’imputato viene giudicato da un giudice che sarebbe stato quello “competente” nel caso gli fossero stati contestati soltanto reati militari e non anche reati comuni; di conseguenza, ritiene ragionevole applicare le preclusioni poste dall’art. 21, comma 3, cod. proc. pen.,

tuttavia, il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, Cost.), secondo la Suprema Corte, non permette di risolvere le questioni di giurisdizione e di competenza sulla base di applicazioni analogiche basate sulla ratio della normativa dettata per una diversa fattispecie: a prescindere dalla ragionevolezza della disciplina dettata dal legislatore (peraltro già positivamente valutata dalla Corte costituzionale), la ripartizione di giurisdizione e di competenza è rigida e non discrezionale.

In questa ripartizione, difatti, l’individuazione dell’organo giudiziario avente la giurisdizione nel caso concreto è preliminare al tema della competenza, che si sviluppa nell’ambito di una determinata giurisdizione; occorre, cioè, prima individuare quale magistratura abbia “giurisdizione” sui reati contestati e poi, se necessario, verificare quale giudice, facente parte di quella magistratura, sia competente (per materia, per territorio, per connessione).

Ciò posto, per la Corte di legittimità, la lettura delle norme costituzionali e l’interpretazione di esse fornita dalle pronunce della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite in precedenza ricordate non permettono dubbi sull’attinenza alla giurisdizione – e non alla competenza – del rapporto tra autorità giudiziaria ordinaria e autorità giudiziaria militare.

Dopo avere stabilito che la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 102, primo comma), la Costituzione pone infatti il divieto di istituzione di (nuovi) giudici straordinari e speciali (art. 102, secondo comma) mentre l’art. 103 ha per oggetto, invece, i giudici “speciali” già esistenti e, in particolare, in materia penale, i tribunali militari.

Nel quadro costituzionale, quindi, i tribunali militari sono giudici speciali, per quanto già osservato in precedenza.

Ne consegue che il riparto di potestà tra giudice ordinario e giudice militare attiene alla giurisdizione e non alla competenza, come ripetutamente affermato dalle pronunce sopra ricordate.

Oltre a ciò, era altresì fatto presente che, anche recentemente, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 18621 del 23/06/2016, hanno qualificato conflitto di giurisdizione quello sorto tra giudice ordinario e tribunale militare, statuendo che la Corte di Cassazione, accertata la sussistenza della “medesimezza” del fatto sulla base della piena conoscenza degli atti e delle vicende processuali pendenti innanzi ai giudici in conflitto, è chiamata anche a valutare se la qualificazione giuridica del suddetto fatto operata dall’uno o dall’altro giudice sia corretta e, dalla esatta definizione giuridica si è fatto conseguire la corretta designazione dell’organo giudiziario chiamato a giudicare.

Secondo la pronuncia, invero, «i conflitti di giurisdizione ex artt. 28 ss. cod. proc. pen. possono insorgere unicamente tra un giudice ordinario e un giudice militare, poiché la natura speciale di uno dei giudici che prenda o rifiuti di prendere cognizione di un fatto reato attribuito ad uno stesso soggetto costituisce, per tradizionale accezione codicistica e dottrinaria, l’elemento distintivo di un conflitto di giurisdizione (riservandosi la denominazione di conflitti di competenza ai contrasti tra giudici aventi medesima natura, ordinaria o speciale)>>.

Secondo le Sezioni Unite, quindi, il mantenimento in vita dei tribunali militari in tempo di pace costituisce un’eccezione al principio stabilito dall’art. 102 Cost., «con la lineare conseguenza che, da un canto, non può ritenersi preclusa, per principio, alla giurisdizione ordinaria la cognizione dei reati militari, quando esistano preminenti ragioni d’interesse collettivo generale, e, d’altro canto, deve, di volta in volta, stabilirsi se particolari esigenze, beni o valori possano essere stimati preminenti rispetto ad esigenze, beni e valori tutelati attraverso la speciale giurisdizione dei tribunali militari di pace (cfr. Corte cost., sento n. 78 del 1989), poiché la giurisdizione normalmente da adire è quella dei giudici ordinari anche nella materia militare (Corte cost., sentenze n. 429 del 1992 e n. 271 del 2000)>>.

La sentenza delle Sezioni Unite, n. 25/1999, ha, inoltre, chiarito che la violazione delle regole sulla giurisdizione da parte del giudice ordinario rispetto a quello militare o viceversa si pone pur sempre all’interno del perimetro della giurisdizione penale di cui entrambi i giudici fanno parte, non integrando quella “macro-anomalia” del provvedimento configurabile nell’ipotesi in cui il giudice civile provveda sulla materia penale, vizio che ne comporta l’inesistenza.

Se, quindi, il riparto tra giudice ordinario e giudice militare attiene alla giurisdizione, si deve ritenere che l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. sia dettato per stabilire la giurisdizione del giudice militare e/o del giudice ordinario nell’ipotesi di connessione di procedimenti per reati comuni e reati militari in quanto esso integra l’art. 263 cod. pen. mil. pace (quale risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 429 del 1992), che definisce la giurisdizione dei tribunali militari in attuazione dell’art. 103, terzo comma, Cost..

Orbene, se, come già ricordato, la norma è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 441 del 1998, la natura della questione come attinente alla giurisdizione comporta l’applicazione dell’art. 20 cod. proc. pen. ai fini del regime delle eccezioni e della conseguente non operatività dell’art. 21 cod. proc. pen., dettato per le questioni attinenti alla competenza.

Chiarito ciò, al contrario, per le Sezioni Unite, le argomentazioni portate a sostegno dell’opposto orientamento non sono condivisibili.

Non pare innanzitutto corretta, per la Corte di legittimità, la considerazione secondo cui, nel caso di connessione con un più grave reato comune, ove il giudice militare si pronunci sul reato militare non vengono comunque violati i limiti della sua giurisdizione, così come segnati dall’art. 103, comma 3, Cost.: in effetti, la norma costituzionale prevede una giurisdizione concorrente dell’autorità giudiziaria ordinaria e di quella militare in ordine ai reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate. Inoltre l’ambito della giurisdizione militare è stato progressivamente ridotto dal legislatore come già in precedenza detto.

Per queste ragioni, in presenza di reati militari e di reati ordinari contestati ad un appartenente alle Forze armate, la verifica pregiudiziale, rispetto ad ogni altra, riguarda la questione della giurisdizione del giudice ordinario o militare, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (art. 20 cod. proc. pen.)

Oltre a ciò, era altresì sottolineato che, nel dettare l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen., il legislatore delegato non ha previsto la possibilità per la Corte di Cassazione di separare i procedimenti connessi. L’abrogato art. 264 cod. pen. mil. pace, invero, stabiliva che «la Corte di cassazione, su ricorso del pubblico ministero presso il giudice ordinario o presso il giudice militare, ovvero risolvendo un conflitto, può ordinare, per ragione di convenienza, con sentenza, la separazione dei procedimenti» e tale possibilità mirava ad attenuare la prevalenza attribuita alla giurisdizione ordinaria in caso di connessione di procedimenti attribuiti alla cognizione della magistratura militare, mantenendo la giurisdizione della seconda sui reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.

Ebbene, cancellata questa possibilità, è indubbio, per la Suprema Corte, che l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. costituisce norma attributiva della giurisdizione del giudice ordinario quando il reato comune è più grave di quello militare ad esso connesso e, pertanto, il giudice militare che decide in violazione di tale regola risulta privo di giurisdizione.

Precisato ciò, come inoltre chiarito sempre dalle Sezioni Unite, nella pronuncia n. 25/1999, il fatto che una sentenza emessa dal giudice militare in violazione delle norme sul riparto sia idonea a passare in giudicato e a costituire un titolo esecutivo – contrariamente ai provvedimenti del giudice civile in materia penale – non muta la natura della questione, che rimane pur sempre questione di giurisdizione.

Al contrario, il dato letterale, costituito dal richiamo ripetuto alla “competenza” contenuto nell’art. 13 cod. proc. pen., non appare, per la Corte, significativo posto che, fin dalla lettura della rubrica dell’art. 13 cod. proc. pen. (<<Connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali»), si comprende che il termine non viene usato dal legislatore con il medesimo significato che ha nelle Sezioni I e II del Capo II del codice di rito (così come, per il giudice militare, nella Sezione II del Capo II del Titolo III del codice penale militare di pace) – quello di attribuzione del potere di decidere al giudice facente parte di un determinato organo giudiziario – ma come sinonimo di giurisdizione, atteso che vengono affiancati giudici ordinari e giudici speciali.

Da ciò se ne faceva discendere che la Sezione IV del Capo II del Titolo I del codice di rito contenga la disciplina sia di questioni di giurisdizione che di questioni di competenza, rilevandosi al contempo che le pronunce della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite menzionate nella sentenza impugnata non smentiscono l’orientamento adottato.

Infatti, le due ordinanze della Corte costituzionale evocate (la n. 441 del 1998 e la n. 204 del 2001) si limitano a riconoscere la ragionevolezza della scelta del legislatore nel configurare l’art. 13, comma 2, cod. proc. pen. alla luce del dettato dell’art. 103, terzo comma, Cost. così come analogamente la sentenza delle Sezioni Unite, n. 5135/2005, nel ribadire la discrezionalità del legislatore con riferimento alla valutazione dei presupposti della connessione e del simultaneus processus e nel richiamare le valutazioni della Corte costituzionale: dà atto che «la scelta del legislatore è chiara».

I richiami alla necessità di riservare uno spazio adeguato alla giurisdizione militare non possono dunque incidere sull’interpretazione delle norme: come appena osservato, il legislatore possedeva una discrezionalità nel dare attuazione alla previsione dell’art. 103, comma 3, Cost. e l’ha utilizzata, secondo la valutazione della Corte costituzionale, in maniera ragionevole e, quindi, non sindacabile (per di più, riducendo la rilevanza della connessione tra procedimenti pendenti davanti a giudici militari e giudici ordinari rispetto a quanto previsto dalla legge delega).

Infine, la circostanza che l’art. 20 – norma che precede anche topograficamente l’art. 21 – non riproduca una previsione analoga a quella contenuta nell’art. 21, comma 3, cod. proc. pen., per gli Ermellini, è ulteriormente indicativa della volontà del legislatore di riservare una regolamentazione diversa al regime di rilevabilità del difetto di giurisdizione rispetto alla mera incompetenza per connessione.

Deve, quindi, trovare applicazione l’art. 20 cod. proc. pen. che stabilisce che il difetto di giurisdizione è rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento.

Come ricordato da Sez. F., nella decisione n. 47928 del 24/08/2017, la verifica della giurisdizione, che precede logicamente ogni altro tipo di indagine rimesso alla cognizione del giudice, ha carattere dinamico, dovendo il difetto di giurisdizione essere rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, ed implica il potere-dovere del giudice di controllare costantemente, per tutto il corso del processo, se i fatti che formano il contenuto dell’imputazione rientrino nell’ambito della propria giurisdizione, dovendo dichiararne il difetto non appena gli elementi di prova raccolti modifichino la struttura e l’impianto originari dell’imputazione facendola esorbitare dalla sfera cognitiva assegnatagli dall’ordinamento (Sez. 5, n. 32372 del 06/04/2017; Sez. l, Sentenza n. 23372 del 15/05/2015; Sez. l, n. 4060 del 08/11/2007).

Non sussiste, pertanto, per la Corte, alcuna preclusione per l’eccezione o il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione, a differenza di quanto previsto dall’art. 21 commi 2 e 3, cod. proc. pen. per la diversa ipotesi della incompetenza derivante dalla connessione.

Sulla base di queste considerazioni era quindi affermato il seguente principio di diritto: “Posto che il riparto di potestà tra giudice ordinario e giudice militare attiene alla giurisdizione e non alla competenza in conformità all’art. 103, terzo comma, della Costituzione, anche il precetto integrativo concernente la connessione tra reati comuni e reati militari, di cui all’art. 131 comma 2, cod. proc. pen., si inquadra nello stesso riparto, con la conseguenza che la sua violazione integra un difetto di giurisdizione, deducibile o rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art. 20 cod. proc. pen.”.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto, con tale pronuncia, si fornisce una risposta al seguente quesito: in caso di connessione tra un reato militare e un reato comune più grave, la questione del riparto di “competenza giurisdizionale” deve essere dedotta prima della conclusione dell’udienza preliminare o, in mancanza di questa, entro il termine di cui all’art. 491, comma l, cod. proc. pen., ovvero è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento?

Difatti, in tale pronuncia, si afferma il principio di diritto secondo il quale, posto che il riparto di potestà tra giudice ordinario e giudice militare attiene alla giurisdizione e non alla competenza in conformità all’art. 103, terzo comma, della Costituzione, anche il precetto integrativo concernente la connessione tra reati comuni e reati militari, di cui all’art. 131 comma 2, cod. proc. pen., si inquadra nello stesso riparto, con la conseguenza che la sua violazione integra un difetto di giurisdizione, deducibile o rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art. 20 cod. proc. pen..

Di conseguenza, alla stregua di questo arresto giurisprudenziale, una violazione di codesto genere può essere dedotta o rilevata anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi della norma procedurale appena citata che, come è noto, dispone quanto segue: “1. Il difetto di giurisdizione è rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento. 2. Se il difetto di giurisdizione è rilevato nel corso delle indagini preliminari, si applicano le disposizioni previste dall’articolo 22 commi 1[1] e 2[2]. Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in ogni stato e grado del processo il giudice pronuncia sentenza e ordina, se del caso, la trasmissione degli atti all’autorità competente”.

Tale provvedimento, di conseguenza, deve essere preso nella dovuta considerazione, al fine di comprendere quando siffatta violazione può essere eccepita.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale sentenza, proprio perché fa chiarezza su siffatta tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo. 

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[1]Ai sensi del quale: “Nel corso delle indagini preliminari il giudice, se riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa, pronuncia ordinanza e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero”.

[2]Secondo cui: “L’ordinanza pronunciata a norma del comma 1 produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto”.

Sentenza collegata

117179-1.pdf 205kB

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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