A seguito della riforma della disciplina sulla contumacia, l’estratto della sentenza emessa nel giudizio abbreviato non deve più essere notificato all’imputato assente

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(Ricorso rigettato)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 442, c. 3; Disp. att. c.p.p., art. 134)

Il fatto

La Corte di appello di Milano dichiarava inammissibile per tardività l’appello proposto dall’imputato contro la sentenza, pronunciata all’esito di giudizio abbreviato, dal Tribunale di Milano adducendo la seguente testuale motivazione: “Premesso che l’imputata è stata condannata con sentenza emessa in data 7 luglio 2017 (con termine ordinario di 15 giorni per il deposito della motivazione) e depositata in data 11 luglio 2017, si rileva la tardività dell’atto di appello presentato in data 21 novembre 2017, con conseguente inammissibilità dello stesso ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all’art. 585 c.p.p., comma 1, lett. b) che pone come termine per la presentazione dell’impugnazione quello di trenta giorni nel caso previsto dall’art. 544 c.p.p., comma 2, ovvero di deposito della motivazione da parte del giudice entro il quindicesimo giorno dalla lettura del dispositivo. Nel caso in esame la presentazione dei motivi di appello è avvenuta ben due mesi oltre la scadenza della suddetto termine”.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa decisione proponeva ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del difensore, deducendosi un unico motivo così formulato: violazione dell’art. 442 c.p.p., comma 3, in relazione all’art. 591 c.p.p. in quanto, a suo avviso, le sentenze emesse a seguito del rito abbreviato devono essere notificate all’imputato che sia stato assente per tutto il corso del giudizio posto che il termine per impugnare decorre dalla notifica dell’avviso di deposito, termine valido sia per il difensore che per l’imputato come previsto dall’art. 585 c.p.p., comma 3 mentre nel caso in esame, invece, l’avviso prescritto dall’art. 442 c.p.p., comma 3, non risulta essere mai stato eseguito e, di conseguenza, poiché al momento della proposizione dell’appello il termine per impugnare non era ancora spirato, erroneamente la Corte di Appello aveva ritenuto l’inammissibilità dell’impugnazione per tardività.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Terza Sezione Penale, assegnataria del ricorso, lo rimetteva alle Sezioni Unite, ravvisando un contrasto giurisprudenziale avente ad oggetto proprio la questione sulla necessità o meno della notifica dell’estratto della sentenza all’imputato assente, condannato a seguito di giudizio abbreviato.

Secondo una prima tesi, dopo la riforma della disciplina del processo in absentia, all’imputato non comparso non è più dovuta la notifica per estratto della sentenza prevista dall’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., in quanto l’imputato è rappresentato dal difensore munito di procura speciale atteso che, essendo applicabili anche al rito abbreviato le disposizioni del rito in absentia (in particolare, l’art. 420-bis c.p.p.), le suddette norme devono ritenersi implicitamente abrogate così come la parallela norma che, per il rito ordinario, all’art. 548 c.p.p., comma 3, prevedeva la notifica dell’estratto della sentenza all’imputato che fosse rimasto contumace durante tutto il processo (Sez. 5, n. 19713 del 18/03/2019; Sez. 5, n. 22831 del 22/03/2019; Sez. 1, n. 7100 del 16/01/2019; Sez. 6, n. 12536 del 16/01/2019; Sez. 1, n. 8011 del 26/10/2018; Sez. 2, n. 57918 del 25/09/2018; Sez. 5, n. 57097 del 27/09/2018; Sez. 1, n. 31049 del 22/05/2018).

Un diverso indirizzo, invece, sostiene che non vi sarebbero elementi per ritenere che la mancata espressa abrogazione dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e dell’art. 134 disp. att. c.p.p. costituisca frutto di una svista o di un mancato coordinamento tra norme succedutesi nel tempo tenuto conto altresì del fatto che, far dipendere una sanzione, produttiva di effetti negativi per l’imputato, da un’interpretazione che ritiene abrogata tacitamente una norma di favore, peraltro per un diritto ad una impugnazione della sentenza di condanna, violerebbe sia il principio del giusto processo – che richiede sempre, per le norme penali e processuali penali, una interpretazione restrittiva e in favor rei – sia quello dell’interpretazione ragionevole, come un sotto-criterio del principio di prevedibilità della norma (Corte EDU, G.c., Grigoriades, c. Grecia 25 novembre 1997, § 38; Sez. 3, n. 29286 del 27/03/2015; Sez. 3, n. 32505 del 19/01/2018).

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

 

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione proposta, evidenziavano come la stessa fosse formulabile nei seguenti termini: “Se, dopo la riforma della disciplina del processo in absentia, debba essere notificato all’imputato assente l’estratto della sentenza ai sensi dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p.”.

Precisato ciò, gli Ermellini ritenevano prima di tutto necessario effettuare una ricognizione della normativa che, relativamente alla disposizione in esame, si è succeduta nel tempo, il che veniva fatto nei seguenti termini: “Con la promulgazione del nuovo codice di rito, venne previsto, per la prima volta nell’ordinamento, l’istituto del giudizio abbreviato. Il suddetto giudizio, a differenza di quello a cognizione ordinaria non prevedeva la dichiarazione di contumacia: infatti, l’originario art. 441 cod. proc. pen. – per lo svolgimento del giudizio abbreviato – rinviava “in quanto applicabili” alle “disposizioni previste per l’udienza preliminare” e, quindi, anche all’art. 420 c.p.p. che, però, non prevedeva la declaratoria di contumacia. Di conseguenza, all’imputato che non fosse “comparso” durante il giudizio abbreviato, non sarebbe stata dovuta la notifica dell’estratto contumaciale prevista dall’art. 548 c.p.p., comma 3, relativamente al giudizio svoltosi secondo il rito ordinario. Sennonché, il legislatore, ben conscio di tale discrasia, intese porvi rimedio prevedendo, anche per il rito abbreviato, una norma parallela a quella dell’art. 548 c.p.p., comma 3, e cioè, da una parte, l’art. 442 c.p.p., comma 3, (“la sentenza è notificata all’imputato che non sia comparso”) e, dall’altra, l’art. 134 disp. att. c.p.p. (“la sentenza emessa nel giudizio abbreviato è notificata per estratto all’imputato non comparso, unitamente all’avviso di deposito della sentenza medesima”). Il motivo di tale scelta si legge nella Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale (§ 6.1.) dove è scritto: “dal momento che la disciplina della contumacia non può trovare applicazione per l’udienza preliminare, ma considerato che quest’ultima ed il correlativo giudizio abbreviato possono ritualmente celebrarsi anche in assenza dell’imputato, è sembrato opportuno prevedere espressamente che la sentenza debba essere notificata all’imputato non comparso”. A sua volta, la giurisprudenza di questa Corte – sulla scia dell’intento legislativo espresso a chiare lettere nella citata Relazione – ritenne che, anche alle sentenze emesse all’esito del giudizio abbreviato in grado di appello in camera di consiglio ex art. 599 c.p.p., fosse dovuta, ex art. 128 c.p.p., la notifica della sentenza all’imputato non comparso.
Infatti, le Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, omissis, Rv. 216239 – ribadendo quanto già in precedenza statuito dalle Sez. U, n. 16 del 15/12/1992, dep. 1993, omissis, Rv. 192806 – a fronte della richiesta del procuratore generale di dichiarare l’inammissibilità del ricorso perché tardivo, in quanto nel giudizio di appello svoltosi in camera di consiglio con le forme previste dall’art. 599 c.p.p. non era applicabile la disposizione di cui all’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att., replicarono osservando: “Posto che l’art. 443 c.p.p., comma 4, stabilisce che, a seguito dell’impugnazione della sentenza pronunciata all’esito del giudizio abbreviato, “il giudizio di appello si svolge con le forme previste dall’art. 599”, nessun producente elemento ermeneutico può essere ricavato, a sostegno dell’eccezione di inammissibilità, dalla circostanza che per il rito camerale di appello non è stata riprodotta una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 442, comma 3, a norma della quale “la sentenza è notificata all’imputato che non sia comparso” (….) Una convincente spiegazione dell’inesistenza nell’art. 599 c.p.p. di una norma analoga a quella dell’art. 442, comma 3, è rinvenibile nel fatto che una disposizione del genere, riferita al procedimento di appello, sarebbe stata del tutto superflua, per la precisa ragione che l’art. 599, comma 1, espressamente richiama le forme del procedimento camerale previste dall’art. 127 e rende, dunque, applicabile sia la disposizione dell’art. 127 c.p.p., comma 7, sia quella dell’art. 128, che, ai fini dell’esercizio del diritto di impugnazione, prescrivono la notifica della decisione alle parti. Tali norme svolgono, pertanto, una funzione di garanzia, finalizzata ad agevolare l’esercizio del diritto di impugnazione, del tutto corrispondente a quella che nel giudizio abbreviato è assicurata dall’art. 442, citato comma 3 sicché deve escludersi che nell’art. 599 esistano lacune e vuoti di disciplina, che differenzino i due procedimenti, dovendo, al contrario, riconoscersi che – pur in mancanza della disposizione dettata per il giudizio abbreviato di primo grado – la sentenza emessa a conclusione del giudizio di appello tenutosi con le forme camerali ex artt. 599 c.p.p. deve essere notificata all’imputato non comparso, a norma dell’art. 127 c.p.p., comma 7 e art. 128 c.p.p.”. (…) Con la L. n. 479 del 1999, l’istituto della contumacia fu esteso anche all’udienza preliminare: infatti, parallelamente all’abrogazione degli artt. 485, 486, 487 e 488 c.p.p. previsti per il rito ordinario, fu introdotto, fra gli altri, l’art. 420-quater intitolato “contumacia dell’imputato”. Quest’ultima norma, per effetto del rinvio contenuto nell’art. 441 c.p.p. (rimasto invariato nel comma 1), si applicò anche al giudizio abbreviato, sicché, l’imputato, anche in quest’ultimo giudizio, (così come nel giudizio a cognizione ordinaria) assunse, alternativamente, lo status di imputato “presente” (ove avesse assistito di persona al processo), “assente” (ove avesse acconsentito, anche se impedito, alla celebrazione del processo, o se detenuto, avesse rifiutato di assistervi: previgente art. 420-quinquies c.p.p.) o “contumace” anche nel caso in cui al difensore fosse stata rilasciata procura speciale per la richiesta di ammissione al rito abbreviato: in terminis, Sez. 2, n. 40443 del 29/10/2008, omissis, Rv. 241873; Sez. 4, n. 26671 del 26/05/2009, omissis, Rv. 244508. La locuzione “non comparso” fu, invece, riservata all’imputato che, dopo essere stato dichiarato presente, si fosse allontanato dall’aula (art. 420-quinquies, nella versione della L. n. 479 del 1999) o non fosse comparso alle udienze successive (art. 420-bis nella versione della L. n. 67 del 2014): in questo caso, l’imputato era considerato presente in quanto rappresentato dal difensore. La declaratoria di contumacia si basava, sostanzialmente, su una presunzione di conoscenza del processo derivante, da una parte, dalla circostanza che l’imputato fosse stato destinatario di formali notifiche regolari e, dall’altra, dalla mancata prova di un impedimento a comparire (art. 420-ter c.p.p.): era estranea, quindi, al suddetto meccanismo, la possibilità che l’imputato, nonostante la regolarità delle notifiche, non fosse, in concreto, a conoscenza del processo a suo carico. Con la riforma, fu soppressa, pertanto, la figura giuridica dell’imputato “non comparso” (art. 442 c.p.p.) o “non presente” (previgente art. 420 c.p.p., comma 4) termini con i quali si indicava l’imputato che, nel giudizio abbreviato e nell’udienza preliminare, non si fosse costituito. (…) L’istituto della contumacia, però, per il presupposto giuridico su cui era basato (presunzione di conoscenza del processo), incorse nelle reiterate censure della Corte EDU che stigmatizzò – per violazione dell’art. 6 CEDU – il citato meccanismo di presunzione perché non consentiva di verificare in concreto se l’imputato fosse stato o meno a conoscenza del processo a suo carico, conoscenza che avrebbe dovuto essere data dallo Stato il quale, peraltro, era libero di porre a fondamento della celebrazione del processo in absentia, anche presunzioni desumibili da fatti che dimostrassero la conoscenza del processo da parte dell’imputato (Corte EDU, Pititto c. Italia, 12/06/2007 § 68). Il meccanismo della contumacia fu, quindi, ripetutamente ritenuto non conforme al “giusto processo”, nonostante i rimedi previsti dagli istituti della rimessione in termini e dell’incidente di esecuzione, in quanto anche questi istituti furono giudicati inidonei a garantire, seppure ex post, al condannato in contumacia di ottenere la possibilità di esercitare i propri diritti nell’ambito di un nuovo processo (Corte EDU Kollcaku c. Italia 08/02/2007; Corte EDU, Sejdovic c. Italia del 10/11/2004; Corte EDU Somogyi c. Italia 18/05/2004). Con la L. n. 67 del 2014, il legislatore intese porre rimedio alla suddetta situazione, abrogando, da una parte, l’istituto della contumacia ed introducendo, dall’altra, quello dell’”assenza dell’imputato” (così la rubrica del nuovo art. 420-bis c.p.p.) che può essere dichiarata: a) quando l’imputato, libero o detenuto, non sia presente all’udienza e, anche se impedito, abbia espressamente rinunciato ad assistervi (comma 1); b) quando risultino una serie di fatti (comma 2) dai quali possa presumersi che l’imputato sia a conoscenza del processo. Una volta che l’imputato sia dichiarato assente è rappresentato dal difensore. È invece considerato presente – ed è, anche in questo caso, rappresentato dal difensore – se, dopo essere comparso si allontana o, se presente ad un’udienza non compare a quelle successive (l’art. 420-bis c.p.p. applica il principio semel praesens semper praesens e riproduce il previgente testo dell’art. 420-quinquies c.p.p.).
Ove, invece, non vi sia la prova della conoscenza del processo, il giudice ne ordina la sospensione (art. 420-quater c.p.p.) e, successivamente, dispone nuove ricerche (art. 420-quinquies c.p.p.).
Questo nuovo meccanismo attinente alla costituzione delle parti, rese del tutto superflua la norma che prevedeva la notifica dell’estratto contumaciale di cui all’art. 548 c.p.p., comma 3, che, quindi, fu abrogata. Infatti, la suddetta norma trovava una sua giustificazione nel processo contumaciale in quanto, essendo questo fondato su una presunzione, aveva una funzione di garanzia essendo tesa a notiziare l’imputato (potenzialmente restato all’oscuro del processo) dell’esito del processo al fine di consentirgli di proporre eventualmente impugnazione. Finalità questa, però, del tutto superflua nel nuovo processo la cui celebrazione può avere luogo solo ove si abbia la prova in positivo che l’imputato ne sia a conoscenza. Le suddette modifiche ebbero riflesso non solo sul giudizio abbreviato celebratosi in primo grado, ma anche sul giudizio abbreviato in grado di appello in relazione al quale si affermò il principio di diritto secondo il quale, in base al combinato disposto dell’art. 443 c.p.p., comma 4 e artt. 599, 127 e 420-quinquies c.p.p., “nel giudizio di appello contro le sentenze pronunciate con rito abbreviato non trova applicazione l’istituto della contumacia dell’imputato che, in caso di assenza, è rappresentato dal suo difensore; con la conseguenza che il termine per impugnare la decisione decorre, anche per l’imputato che non vi abbia presenziato, dalla data della lettura del dispositivo e della motivazione contestuale”: Sez. 6, n. 14830 del 26/02/2014, omissis, Rv. 259502; Sez. 4, n. 41392 del 24/09/2013, omissis, Rv. 256403; Sez. 6, n. 33259 del 14/05/2007, omissis, Rv. 237484. In pratica, questa giurisprudenza, ritenne superato il principio di diritto affermato dalle Sez. U, Tuzzolino, in quanto, con la nuova normativa, l’imputato era rappresentato dal difensore, ex art. 420-quinquies c.p.p., e, quindi, svolgendosi il procedimento con le forme del rito camerale, era divenuto del tutto improprio il richiamo alla normativa sulla contumacia: Sez. 4, n. 10231 del 26/01/2005, omissis, Rv. 230921; Sez. 2, n. 8040 del 09/02/2010, omissis, Rv. 246713; Sez. 2, n. 23749 del 08/05/2015, omissis, Rv. 264228; Sez. 3, n. 49164 del 06/10/2015, B., Rv. 265318””.

Orbene, dopo aver svolto questo excursus normativo [senza tralasciare (come appena visto) anche dei riferimenti giurisprudenziali], i giudici di piazza Cavour affermavano di non condividere la tesi secondo la quale all’imputato dichiarato “assente” dev’essere notificato l’estratto della sentenza.

Difatti, una volta fatto presente come tale orientamento, faccia leva, sostanzialmente, su tre argomenti: a) il primo, di natura letterale, è costituito dalla circostanza secondo la quale la specifica regola dettata dall’art. 442 c.p.p., comma 3, è rimasta inalterata anche a seguito delle successive modifiche apportate prima dalla L. n. 479 del 1999 e, successivamente, dalla L. n. 67 del 2014; b) il secondo, sostiene che la rappresentanza del difensore, da sola, non è idonea a far ritenere non dovuta la notifica, così come avveniva in passato, per il latitante al quale era notificato l’estratto della sentenza. c) il terzo, di natura sistematica, afferma che non si può far dipendere una sanzione produttiva di effetti negativi per l’imputato, sulla base di un’interpretazione che ritiene abrogata tacitamente una norma di favore in quanto si violerebbe il principio del giusto processo in base al quale le norme penali e processuali penali vanno sempre interpretate in modo restrittivo ed in favor rei, secondo quanto desumibile dalla sentenza della Corte EDU, G.C., Grigoriades c. Grecia 25 novembre 1997, esaminando per prima quello letterale, lo si stimava superabile là dove si consideri la ratio legis della notifica dell’estratto contumaciale e l’evoluzione normativa che ha avuto nel corso degli anni l’accertamento della costituzione delle parti.

Si faceva a tal proposito presente come risulti expressis verbis dalla Relazione ministeriale al codice, che la disposizione del combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., si rese necessaria in quanto l’udienza preliminare (e, quindi, il rito abbreviato) non prevedeva la contumacia sicché, al fine di evitare un’evidente disparità di trattamento rispetto all’imputato giudicato in contumacia con il rito ordinario, fu introdotta, anche per l’imputato “non comparso” giudicato con il rito abbreviato, una norma che ricalcava quella prevista dall’art. 548 c.p.p., comma 3 e, dunque, una volta introdotta la contumacia fin dall’udienza preliminare (e, quindi, anche per il giudizio abbreviato), nel codice vennero a trovarsi due norme perfettamente sovrapponibili: da una parte, l’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., e, dall’altra, l’art. 548 c.p.p., comma 3, divenuto applicabile, sicuramente, anch’esso al giudizio abbreviato.

Il problema della compatibilità delle due norme, però, in concreto, si pose rare volte durante il periodo che va dall’entrata in vigore della L. n. 479 del 1999 all’entrata in vigore della L. n. 67 del 2014, e ciò per l’ovvia ed intuitiva ragione che, qualunque norma si ritenesse applicabile all’imputato dichiarato contumace e giudicato con il rito abbreviato, andava comunque notificato l’estratto della sentenza contumaciale in quanto non vi era più alcuna differenza fra imputato contumace giudicato con rito ordinario e imputato contumace giudicato con rito abbreviato.

Il problema, invece, si pose, nel momento in cui la L. n. 67 del 2014 abrogò la contumacia (e, con essa, anche la norma che, all’art. 548, comma 3, disponeva la notifica dell’estratto contumaciale), ma senza nulla disporre ancora una volta, in ordine al combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., che, quindi, essendo rimasto formalmente in vigore, pareva essere ancora applicabile, sebbene al (solo) rito abbreviato.

In realtà, per una corretta impostazione della problematica, il Supremo Consesso riteneva necessario precisare che la questione della compatibilità fra le due suddette norme non andava verificata sulla base dell’attuale assetto normativo che aveva introdotto l’istituto dell’assenza in sostituzione della contumacia ma bisognava retrodatarla al momento in cui, con la L. n. 479 del 1999, venne introdotta la contumacia anche per il giudizio abbreviato posto che è in quel momento che si pose il problema di compatibilità fra due normative perfettamente sovrapponibili, e, quindi, dell’abrogazione tacita dell’art. 442 c.p.p., comma 3.

Ciò posto, veniva altresì fatto presente come il fenomeno abrogativo delle leggi trovi la sua disciplina nell’art. 15 preleggi nell’ambito del quale la dottrina suole distinguere le seguenti tipologie di abrogazione: a) l’abrogazione espressa: si verifica quando una norma successiva espressamente dichiara abrogata una norma precedente; b) l’abrogazione tacita che si verifica quando: b1) la norma successiva si rivela essere incompatibile con quella precedente: in tal caso, parte della dottrina, preferisce parlare di abrogazione implicita; b2) la nuova norma disciplina ex novo una determinata materia sicché si sostituisce alla precedente norma anche nel caso in cui questa non sia del tutto incompatibile con la nuova (cd. abrogazione per rinnovazione della materia): in terminis, in motivazione, Sez. 3, n. 35534 del 23/11/2016, dep. 2017.

Oltre a ciò, veniva evidenziato come l’art. 15 preleggi recepisca il criterio cronologico di soluzione delle antinomie riassumibile nel brocardo lex posterior derogat legi priori e sempre a condizione che si tratti di leggi poste sullo stesso livello gerarchico perché, in caso contrario, vale l’opposto principio secondo il quale lex posterior generalis non derogat priori speciali.

L’effetto principale dell’abrogazione consiste a sua volta nel rendere inapplicabile, per il futuro, la norma abrogata dato che l’abrogazione sortisce lo stesso effetto della legge che, normalmente, non essendo retroattiva (art. 11 preleggi), dispone solo per i fatti verificatesi in un momento successivo (in terminis, in motivazione, Sez. U civ., n. 1735 del 06/02/2003).

Alla stregua di tali principi se ne faceva conseguire come dovesse riconoscersi alla L. n. 479 del 2000 l’effetto di aver abrogato il combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., sicché, anche al rito abbreviato quanto alla notifica dell’estratto contumaciale, si applicò la sola norma di cui all’art. 548 c.p.p., comma 3, visto che, essendo diventato lo status giuridico dell’imputato del rito abbreviato identico a quello dell’imputato del rito ordinario, ad avviso della Corte la previgente normativa era diventata inapplicabile perché, tecnicamente, l’imputato non poteva più essere dichiarato “non comparso” ma solo “contumace” e, quindi, anche ad esso, doveva applicarsi la normativa generale prevista dall’art. 548, comma 3, c.p.p., e non più quella speciale e di settore prevista dalla previgente normativa in quanto la nuova legge sulla contumacia aveva fatto venir meno – relativamente alla costituzione delle parti – “la specialità” del rito abbreviato assimilato, sotto il suddetto profilo, in tutto e per tutto, alla normativa del rito ordinario.

Si verificò, quindi, secondo il Supremo Consesso, un emblematico caso di abrogazione tacita per rinnovazione della materia in quanto la L. n. 479 del 2000 disciplinando, ex novo, l’istituto della contumacia, rese applicabile anche al rito abbreviato il solo l’art. 548 c.p.p., comma 3, che prevedeva quello stesso incombente dell’art. 442 c.p.p., comma 3, visto che il principio della coerenza dell’ordinamento giuridico che postula, in applicazione del principio logico di non contraddizione, l’inesistenza di norme incompatibili fra di loro, non consente che l’alternativa fra l’applicazione di due norme perfettamente sovrapponibili fra di loro possa essere risolta applicando entrambe.

Il suddetto dilemma interpretativo veniva, quindi, sciolto affermando – in adesione alla giurisprudenza formatasi sul punto (Sez. 1, n. 24116 del 27/05/2009; Sez. 6, n. 29356 del 08/06/2006; Sez. 1, n. 36860 del 29/09/2005; Sez. 6, n. 35215 del 19/04/2017) – che, a far data dal 2 gennaio 2000, e cioè dall’entrata in vigore della L. n. 479 del 2000, agli imputati giudicati con il rito abbreviato e dichiarati “contumaci” si applicò, in via esclusiva, la norma di cui all’art. 548 c.p.p., comma 3, e non più quella dell’art. 442 c.p.p., comma 3, essendo stata questa tacitamente abrogata.
Dall’entrata in vigore della L. n. 479 del 2000, l’imputato giudicato con il rito abbreviato e dichiarato “contumace“, seguì, poi, le sorti della successiva vicenda legislativa dell’istituto della contumacia e cioè della sua abrogazione per effetto della L. n. 67 del 2014 con sostituzione dell’istituto dell’assenza: anche nel rito abbreviato (così come nel rito ordinario), infatti, l’imputato, che non intenda partecipare al processo, viene dichiarato “assente” e, quindi, per effetto del nuovo meccanismo del processo in absentia, non è più prevista la notifica dell’estratto della sentenza, così come condivisibilmente affermato dalla giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis Sez. 5, n. 19713 del 18/03/2019).

Oltre a ciò, veniva considerata non sostenibile nemmeno la tesi secondo cui il combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p. sarebbe rimasto in vigore in quanto la L. n. 67 del 2014 si era limitata ad abrogare la sola notifica dell’estratto contumaciale di cui all’art. 548 c.p.p., comma 3, prevista per il rito ordinario, ma non quella prevista dall’art. 442 c.p.p., comma 3, per il rito abbreviato.

Tale argomentazione, ad avviso della Cassazione, incorreva in un errore di prospettiva là dove si consideri che il combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., deve ritenersi abrogato fin dal 2 gennaio 2000 per effetto della L. n. 479 del 2000 e non per effetto della L. n. 67 del 2014.

Piuttosto, sempre ad avviso della Corte, avendo quest’ultima legge, abrogato le disposizioni sulla contumacia (a sua volta abrogativa della precedente normativa), potrebbe ipotizzarsi – per il rito abbreviato – la reviviscenza dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p. (non essendo stati espressamente abrogati) in quanto applicabile all’imputato “non comparso” (rectius: “assente“) dato che, con il termine reviviscenza, si suole indicare quel fenomeno giuridico secondo il quale una norma, che sia stata privata della sua efficacia in conseguenza di un determinato atto giuridico, riprende ad esplicare i propri effetti nel caso in cui quell’atto giuridico venga meno.
Ciò posto, si evidenziava al contempo come il complesso dibattito sull’ammissibilità ed i limiti della reviviscenza avesse subito una svolta a seguito della sentenza della Corte Cost. n. 13 del 2012 (ribadita con la sentenza n. 218 del 2015) che aveva sostanzialmente negato validità alla tesi della reviviscenza perché “avrebbe come effetto il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze imprevedibili per lo stesso legislatore, rappresentativo o referendario, e per le autorità chiamate a interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di certezza del diritto; principio che è essenziale per il sistema delle fonti (….)”.

La Consulta, in particolare, dopo aver premesso – in adesione alla tesi maggioritaria sia in dottrina che in giurisprudenza – che il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale e automatica, aveva chiarito che il suddetto istituto trova applicazione nelle seguenti tre ipotesi: a) quando una norma espressamente abrogatrice di una precedente norma viene annullata da parte del giudice costituzionale: in tali casi, ove dovesse verificarsi un vuoto normativo, la norma abrogata ben potrebbe riespandersi ove ritenuta compatibile con il nuovo assetto normativo determinato dalla dichiarazione di incostituzionalità della disposizione abrogatrice. È l’ipotesi che si è verificata in ambito penale, quando, a seguito della incostituzionalità della L. n. 49 del 2006, dichiarata con sentenza della Corte Cost. n. 32 del 2014, hanno ripreso vigore, in materia di traffico di droghe leggere, i parametri edittali del D.P.R. n. 309 del 1990 (cd. legge Iervolino-Vassalli); b) quando “il ripristino di norme abrogate per via legislativa (avviene) solo come fatto eccezionale e quando ciò sia disposto in modo espresso”: in terminis, Corte Cost. n. 4 del 2014; Cons. Stato, n. 1596 del 21/04/2016; c) quando, nel rapporto tra due discipline delle quali una generale, l’altra speciale, sia abrogata la disciplina speciale: in tal caso “la riespansione della disciplina generale produce i propri effetti sulle fattispecie in precedenza regolate dalla disciplina speciale abrogata”.

Ora, poiché nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso in esame, per la Suprema Corte deve escludersi che vi sia stata la reviviscenza del combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., in quanto la fattispecie in esame rientra proprio in quella ipotesi relativamente alla quale la Corte costituzionale con le sentenze n. 13 del 2012 e n. 218 del 2015 ha escluso che possa verificarsi la reviviscenza della precedente normativa visto che la L. n. 67 del 2014 non è semplicemente abrogativa della precedente L. n. 479 del 1999 ma anch’essa (come la L. n. 479 del 1999) disciplina ex novo l’intera normativa non lasciando, quindi, spazio alcuno alla possibilità di riespansione del combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p. che non solo non avrebbe alcuna ragione d’essere nell’ambito della nuova normativa sull’absentia ma, essendo applicabile al solo rito abbreviato, porrebbe seri problemi di costituzionalità, sotto il profilo della disparità di trattamento, rispetto agli imputati giudicati con il rito ordinario tanto più ove si consideri che la “conoscibilità” del processo – da parte dell’imputato che si avvalga del rito abbreviato – è certa in quanto “l’imputato non comparso resta rappresentato da un difensore investito dei poteri conferitigli da procura speciale, necessaria per accedere al rito alternativo. Per tale ragione il difensore è certamente in contatto con il proprio assistito e può fornirgli tutte le informazioni necessarie sulla definizione del procedimento e sugli adempimenti da porre in essere per potere contestare la decisione sfavorevole mediante proposizione dell’impugnazione”: Sez. 1, n. 31049 del 22/05/2018 e Sez. 2, n. 57918 del 25/09/2018).

In ordine a quest’ultimo argomento, si faceva altresì presente come fosse stato sostenuto che la rappresentanza del difensore, da sola, non è idonea a far ritenere non dovuta la notifica in quanto, anche per il latitante, non è stata mai messa in dubbio, in passato – pur nella rappresentanza del difensore, come nel giudizio abbreviato – ai sensi dell’art. 165 c.p.p., comma 3, la notifica dell’estratto della sentenza.

Pur tuttavia, gli ermellini ritenevano come il suddetto argomento si prestasse ad una obiezione formulata nei seguenti termini: “Il latitante, tecnicamente, è “chi volontariamente si sottrae alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di dimora o a un ordine con cui si dispone la carcerazione” (art. 296 c.p.p.). Il latitante non è sottoposto ad uno statuto speciale in quanto – come tutti gli imputati – è giudicato secondo le regole del rito per il quale opti. La peculiarità della latitanza, è ravvisabile nella circostanza che, per essere dichiarata, la legge (art. 295 c.p.p.) richiede stringenti ricerche (in terminis Sez. U, n. 18822 del 27/03/2014, omissis, Rv. 258792), solo all’esito delle quali è possibile eseguire la notifica “mediante consegna di copia al difensore” che lo rappresenta ad ogni effetto (art. 165 c.p.p.): ex plurimis Sez. 3, n. 26 del 12/12/2018, dep. 2019, omissis, non mass.. In altri termini, il problema per il latitante – stante il suo particolare status consiste solo nell’appurare se le ricerche siano complete (al fine di verificare, ex art. 420-bis c.p.p., comma 2, se “lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo”) e se, quindi, la notifica al difensore possa essere ritenuta valida.  Per il resto, non vi è alcuna ragione per cui anche al latitante non si debbano applicare le regole del giudizio abbreviato in ordine alla costituzione, dovendosi peraltro far notare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte “l’eventuale erronea dichiarazione di latitanza per irritualità delle ricerche non determina una omessa citazione dell’imputato, bensì una nullità a regime intermedio da dedurre prima della pronuncia della sentenza di primo grado, qualora la notificazione del decreto di citazione all’imputato venga eseguita mediante consegna dell’atto al difensore di fiducia, al quale era stato dato mandato anche per la scelta del rito e questi, comparendo in udienza, abbia richiesto il rito abbreviato, senza formulare eccezioni sulla validità della vocatio in ius, in tal modo facendo risultare una situazione idonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato”: Sez. 6, n. 53599 del 10/12/2014, omissis, Rv. 261872”.

Venendo infine a trattare l’ultimo argomento di natura sistematica addotto dalla tesi non condivisa secondo il quale, ove si ritenesse abrogato il combinato disposto dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., si violerebbe il principio CEDU del giusto processo a norma del quale le norme penali e processuali penali vanno sempre interpretate in modo restrittivo e in favor rei, si notava come il principio che si trovava enunciato nella invocata sentenza della Corte EDU, Grigoriades c. Grecia, fosse il seguente: “La Corte ribadisce che, secondo la sua giurisprudenza, la legge nazionale deve essere formulata con sufficiente precisione per consentire alle persone interessate – se necessario con un’adeguata assistenza legale – di prevedere, in modo ragionevole secondo le circostanze, le conseguenze che una data azione può comportare” rilevandosi al contempo come tale criterio ermeneutico fosse rappresentativo della consolidata interpretazione (reiterata, ad es. nelle sentenze Contrada c. Italia del 14/04/2015 e De Tommaso c. Italia del 23/02/2017) che la Corte EDU ha dato dell’art. 7 CEDU e secondo la quale la suddetta norma “(…) non si limita a proibire l’applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato (….). Esso sancisce anche, in maniera più generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene – “nullum crimen, nulla poena sine lege” (….). Di conseguenza la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti (….)”: Corte EDU Contrada c. Italia cit. § 60.

L’art. 7 CEDU tutela, quindi, il principio di diritto sostanziale del nullum crimen, nulla poena sine lege (che si trova enunciato anche nell’art. 25 Cost., comma 2 e nell’art. 2 c.p.) e sancisce, da una parte, il divieto di irretroattività delle leggi penali peggiorative e, dall’altra, l’applicabilità immediata delle leggi penali migliorative (in terminis Corte Cost. n. 236 del 2011) tenuto conto altresì del fatto che d’altra parte è la stessa Corte EDU, nella sentenza Scoppola c. Italia del 17/09/2009, che ha chiarito, expressis verbis, che il suddetto principio non è un principio dell’ordinamento processuale, fermo restando che, di volta in volta, spetta all’interprete stabilire se la legge su cui sorga controversia abbia natura sostanziale o processuale.

È, pertanto, improprio, secondo il Supremo Consesso, veicolare, tout court, in ambito sicuramente processuale principi che, pacificamente, attengono al diritto penale sostanziale.
Nel diritto processuale, la norma cardine del giusto processo è costituita, in realtà, dal principio tempus regit actum che trova il suo riscontro normativo nell’art. 11 preleggi: Sez. U, n. 27919 del 31/03/2011; Sez. U, n. 44895 del 17/07/2014,  ha ribadito che il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali che è regolata dal principio “tempus regit actum“; Sez. 5, n. 35588 del 03/04/2017.

Di conseguenza, essendo il processo sottoposto alla regola del tempus regit actum, deve ritenersi che possa essere emanata anche una legge “peggiorativa” dei diritti processuali dovendo la nuova legge limitarsi solo a rispettare le seguenti tre regole: 1) la nuova norma deve disciplinare il processo dal momento della sua entrata in vigore; 2) gli atti compiuti nel vigore della legge previgente devono restare validi; 3) la nuova disciplina non deve avere effetto retroattivo.

Applicando i suddetti pacifici e consolidati principi alla fattispecie in esame, ad avviso della Corte, si deve, dunque, rilevare che la soluzione che si è data alla questione in esame non viola alcuna delle suddette tre regole perché non è in discussione che l’abrogazione della notifica dell’estratto della sentenza si applica dal 2 gennaio 2000 e cioè dall’entrata in vigore della L. n. 479 del 2000; che gli atti compiuti nel vigore della legge previgente restano validi; che la nuova disciplina, non ha effetto retroattivo.

Ma, al di là di questo dato puramente formale, per la Cassazione andava osservato che l’imputato “assente“, che si avvalga del rito abbreviato, non è stato privato – tout court – del diritto alla notifica della sentenza che aveva sotto la vigenza della L. n. 479 del 1999 ove fosse stato dichiarato “contumace” posto che la tesi qui non condivisa non considera che l’abrogazione di quel diritto è stata controbilanciata dalla nuova normativa con una stringente sequenza processuale (artt. 420-bis, 420-ter, 420-quater e 420-quinquies c.p.p.) che prevede una serie di accertamenti in fatto molto rigorosi prima che si possa procedere in absentia e che rende, pertanto, del tutto superflua la notifica dell’estratto di quella sentenza della quale l’imputato è sicuramente a conoscenza.

Tal che se ne faceva discendere come non fosse ravvisabile l’asserita violazione della garanzia processuale derivante dall’abrogazione tacita dell’art. 442 c.p.p., comma 3, in quanto per la Corte EDU, che interpreta le norme sul giusto processo in un’ottica “sostanzialistica“, ciò che rileva è se vi sia una lesione delle garanzie da parte dell’ordinamento nazionale e non le modalità con le quali quelle garanzie vengono tutelate precisandosi al contempo che, nella presente fattispecie, resta impregiudicata la problematica dell’affidamento incolpevole derivante da un imprevedibile mutamento della giurisprudenza.

La questione, pertanto, secondo la Cassazione, torna al punto di partenza e cioè all’art. 15 preleggi – che espressamente prevede la possibilità di un’interpretazione abrogatrice per via tacita – e si riduce nello stabilire se il coacervo di discipline succedutesi nel tempo consenta o meno un’interpretazione abrogatrice dell’art. 442 c.p.p., comma 3, problema al quale il Supremo Consesso – per le ragioni illustrate – riteneva di dare risposta affermativa giacchè la tesi qui non condivisa non si è mai realmente misurata con la possibilità che l’art. 442 c.p.p., comma 3, fosse stato abrogato, di fatto negando che l’abrogazione tacita abbia dignità nel nostro ordinamento nonostante l’espressa previsione dell’art. 15 preleggi che ha come presupposto proprio la circostanza che una determinata norma (come nella fattispecie in esame), sebbene formalmente in vigore, resti abrogata da una norma successiva con essa incompatibile.

Alla stregua di quanto finora illustrato, veniva enunciato il seguente principio di diritto: “A seguito della riforma della disciplina sulla contumacia, l’estratto della sentenza emessa nel giudizio abbreviato non deve più essere notificato, ai sensi dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., all’imputato assente“.

 

Conclusioni

 

La sentenza in questione è assai interessante in quanto con essa le Sezioni Unite affermano che, a seguito della riforma della disciplina sulla contumacia, l’estratto della sentenza emessa nel giudizio abbreviato non deve più essere notificato, ai sensi dell’art. 442 c.p.p., comma 3 e art. 134 disp. att. c.p.p., all’imputato assente.

Pertanto, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, non è più richiesto che debba essere notificato l’estratto della sentenza emessa nel giudizio abbreviato all’imputato assente.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giurisprudenziale ove in passato, come visto prima, era insorto un contrasto giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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