Il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34-bis, comma 6, del d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159, è impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito

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(Qualificato il ricorso come appello, disposta la trasmissione degli atti alla Corte di appello competente)

(Riferimento normativo: D.lgs. n. 159/2011, art. 34-bis, c. 6)

Il fatto

Il Tribunale di Roma – Sezione specializzata per le misure di prevenzione – rigettava la richiesta di applicazione del controllo giudiziario all’impresa oggetto della società per azioni rappresentata dalla stessa.

R., quale legale rappresentante di I. C. S.p.A., aveva richiesto al competente Tribunale di Roma l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario di azienda, prevista dall’art. 34-bis d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), posto che, soltanto poco tempo prima, l’art. 34-bis cit. era stato aggiunto al citato corpo normativo dall’art. 11 della legge 17 ottobre 2017, n. 161.

Il presupposto di tale richiesta era stato – come previsto dal comma 6 del citato articolo di legge – la precedente emissione, nei confronti dell’impresa in questione, di informazione antimafia interdittiva del prefetto ai sensi dell’art. 84, comma 4, e 91 d.lgs. n. 159/2011 e la conseguente impugnazione, in sede amministrativa, del provvedimento prefettizio: questo era stato adottato in seguito all’accertamento di anomalie nelle vicende organizzative, gestionali e operative della società, con coinvolgimento degli amministratori in fatti di rilievo penale e accertata presenza, tra i dipendenti, di personale appartenente ad associazioni mafiose.

Il Tribunale, col provvedimento sopra citato, aveva rigettato la richiesta in ragione della avvenuta assunzione, alle dipendenze della società in questione, di numerose persone legate ad associazioni di stampo mafioso e della constatazione della implicazione di soggetti in posizioni apicali nella compagine sociale, in patti corruttivi con rappresentanti dei comuni ove l’impresa operava.

In altri termini, ad avviso del Tribunale, non ricorrevano i presupposti per disporre il controllo giudiziario dell’impresa essendo emersa una stabile e, dunque, non occasionale, come invece richiesto della legge, agevolazione di esponenti di appartenenti ad associazione mafiosa (Sacra Corona Unita) quale prezzo della corruzione, tra l’altro, di esponenti della giunta di C. S. M., al fine di ottenere vantaggi illeciti per l’impresa.

Veniva anche affermato dal Tribunale che T.  R., titolare di fatto dell’attività economica, era dedito alla commissione di delitti con fini di lucro essendo stato sottoposto a misura cautelare coercitiva per il reato di corruzione aggravata continuata, analogamente alla figlia C., condannata in primo grado, per il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen., reato poi dichiarato prescritto in appello.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso per cassazione C.  R. deducendo la violazione dell’articolo 34-bis, sia in ragione di violazione di legge che di vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen..

Si sosteneva, sotto il primo profilo, che il Tribunale avrebbe illegittimamente inserito, nel catalogo delle condizioni il cui controllo era ad esso demandato, anche il requisito della agevolazione di soggetti appartenenti alle categorie criminali descritte dall’articolo 34 del d.lgs. n. 159/2011, l’occasionalità di tale agevolazione e la pericolosità del titolare dell’attività economica: condizioni che sarebbero invece rimesse al sindacato esclusivo del tribunale amministrativo regionale, investito dell’impugnazione contro l’interdittiva prefettizia.

Tanto si sarebbe desunto, oltre che dall’autonomia dei due sistemi normativi, quello amministrativo e quello del giudice della prevenzione, anche dal testo del comma 6 dell’articolo 34-bis il quale a sua volta regola l’ipotesi della richiesta di controllo giudiziario proveniente dall’impresa senza prevedere il requisito dell’occasionalità della agevolazione o quello della sussistenza del pericolo concreto di infiltrazioni mafiose, a differenza di quanto accade per l’ipotesi di richiesta proveniente dal pubblico ministero (oppure di misura disposta d’ufficio), regolata dal comma 1 della stessa norma.

Tale interpretazione, ad avviso del ricorrente, sarebbe rafforzata dal comma 2, lett. b) dello stesso art. 34-bis a mente del quale il potere del tribunale è limitato alla nomina del giudice delegato dell’amministratore giudiziario laddove, nel caso di richiesta proveniente dall’ufficio pubblico, il tribunale è titolare anche del potere dispositivo di peculiari obblighi a carico dell’impresa.

Secondo la difesa, in conclusione, la verifica della persistenza del condizionamento mafioso e del livello della agevolazione, nel caso di richiesta dell’impresa, sarebbe posticipata al termine del periodo di controllo giudiziario e sulla base delle relazioni dell’amministratore.

Con il secondo motivo la difesa aveva denunciato il vizio di motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui questo aveva argomentato la sussistenza di una stabile agevolazione a favore di ambienti criminali e dei presupposti per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali nei confronti degli amministratori di I..

Venivano a tal riguardo illustratw le ragioni rappresentate nel ricorso al Tribunale amministrativo, sottoposto anche al giudice della prevenzione, per dimostrare che il rapporto di lavoro con il dipendente infedele era stato risolto e che i dipendenti con pregiudizi penali di varia natura erano consistentemente di meno di quelli evidenziati dal prefetto nella misura interdittiva rispetto alla quale non era stata esercitata alcuna valutazione critica autonoma.

Anche le considerazioni sulla idoneità soggettiva degli amministratori ad essere sottoposti a misure di prevenzione erano reputate dal ricorrente del tutto inidonee a sostenere nel caso di specie l’applicabilità della misura patrimoniale che presuppone la non avvenuta dimostrazione della provenienza dei beni posseduti.

Veniva sottolineato, infine, che il reato, per il quale era stato perseguito T.  R., non rientrava fra quelli richiamati dall’articolo 34 d.lgs. n. 159/2011.

La prima requisitoria svolta dalla Procura generale

Il Procuratore generale aveva sollecitato la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Costui aveva riconosciuto, in particolare, come il provvedimento impugnato fosse ricorribile per cassazione in virtù di quanto previsto dall’articolo 127 cod. proc. pen., norma richiamata espressamente dall’art. 34-bis d.lgs. n. 159/2011, evocando in senso conforme la pronuncia di della Cassazione, Sez. 5, n. 34526 del 2 luglio 2018.

Nel merito veniva chiesto che fosse riconosciuta infondata la tesi difensiva sui limiti dei poteri di accertamento configurabili in capo al tribunale escludendo che potesse giungersi a individuare una sorta di automatismo fra richiesta dell’impresa e conseguente accoglimento di essa fermo restando che, con nota d’udienza, la difesa aveva replicato alle osservazioni del Procuratore generale segnatamente contestando i rilievi sulla non occasionalità della agevolazione di soggetti appartenenti alle categorie descritte dall’articolo 34 d.lgs. cit..

L’ordinanza di rimessione

La Sesta Sezione penale, con ordinanza del 15 maggio 2019, rilevava un contrasto giurisprudenziale in ordine alla impugnabilità del provvedimento del tribunale che abbia rigettato la richiesta di applicazione del controllo giudiziario sollecitato ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011 e aveva rimesso la questione a queste Sezioni Unite.

La seconda requisitoria svolta dalla Procura generale

Con nuova requisitoria, la Procura generale insisteva sulla richiesta di inammissibilità del ricorso, rappresentando peraltro nuovi argomenti a sostegno del sopravvenuto mutamento della posizione dell’Ufficio in ordine al tema della impugnabilità del provvedimento oggetto del ricorso e sostenendo la tesi della radicale inoppugnabilità del provvedimento di rigetto della richiesta di controllo giudiziario.

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione a Loro sottoposta, la circoscrivevano nei seguenti termini: “Se il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34- bis, comma 6, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, sia impugnabile con ricorso per cassazione”.

Premesso ciò, gli Ermellini facevano presente come apparisse utile premettere, alla disamina del quesito, un breve riepilogo della progressione normativa che aveva caratterizzato l’ambito nel quale, da ultimo, con legge 17 ottobre 2017, n. 161, era stato introdotto, nel d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, l’istituto del controllo giudiziario disciplinato dall’art. 34-bis così come appari necessario premettere l’analisi della natura di tale istituto e della ratio della novità legislativa.

Ebbene, analizzando la prima tematica, i giudici di legittimità ordinaria rilevavano come il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione vide la luce, il 6 settembre 2011, con la compiuta disciplina, nell’art. 34, – accanto a quella delle misure di prevenzione patrimoniali già note e sperimentate del sequestro e della confisca – della sola “amministrazione giudiziaria” dei beni connessi ad attività economiche.

Si trattava di una misura di prevenzione patrimoniale che aveva come precursore l’istituto della “sospensione temporanea della amministrazione dei beni“, voluto con d.l. n. 306 del 8 giugno 1992, in tema di criminalità mafiosa (con il proprio art. 24, introdusse gli artt. 3-quater e 3-quinquies legge n. 575 del 31 maggio 1965) e dunque la sospensione temporanea era stata ridisegnata come misura diversa ed alternativa a quella della confisca e qualificata con apposita collocazione nel Capo V del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, dedicato appunto alle “misure di prevenzione diverse dalla confisca“.

Si evidenziava in particolare come questa misura fosse geneticamente sganciata dai presupposti per l’applicazione del sequestro e della confisca tanto da poter essere disposta quando non ricorrono i presupposti per la applicazione di altra misura di prevenzione ed anzi innestata dal rilievo che il libero esercizio di attività economiche anche imprenditoriali, a causa di infiltrazione di delinquenza di tipo mafioso, possa agevolare le attività di sottoposti a misure di prevenzione o soggetti indagati per taluni gravi reati.

A sua volta il legislatore del 2011 ne aveva confermato la possibilità di reflusso, alla scadenza, nel “controllo giudiziario” (art. 34, comma 8), ossia nell’obbligo, che poteva essere imposto a chi aveva subito la misura maggiore, di informare per un certo lasso di tempo, determinate pubbliche autorità, dei movimenti economici e finanziari compiuti o subiti oppure, (art. 34, comma 7) nella confisca dei beni ritenuti frutto o reimpiego di attività illecite.

Si trattava pertanto di una misura, quella della amministrazione giudiziaria, che la giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 49550 del 04/11/2014) aveva qualificato come non presidiata da mezzi di impugnazione, valorizzando il criterio ostativo della tassatività di tali mezzi, per far risaltare che la sola norma del Codice antimafia dedicata alle impugnazioni, e cioè l’art. 27 d.lgs. n. 159/2011, le disciplinava con riferimento ad una serie di istituti tra i quali non figurava quello della amministrazione giudiziaria.

A fronte di ciò, si riteneva al contempo necessario mettere in luce – perché costituisce un significativo precedente utile direttamente alla risoluzione del quesito qui devoluto – che quella stessa giurisprudenza districò contestualmente, col ricorso di fatto alla applicazione analogica, una evidente criticità che il testo di legge presentava in punto di impugnabilità della confisca, nel caso specifico in cui tale misura fosse stata adottata alla scadenza della amministrazione giudiziaria nel senso che mentre la confisca, quale misura adottata in via ordinaria, risultava appellabile e poi ricorribile ai sensi dell’art. 27 cit., per la stessa misura adottata posticipatamente nelle condizioni sopra descritte non era previsto alcun mezzo di impugnazione nel testo originario dell’art. 34 d.lgs. cit..

Ebbene, in relazione a tale stato di cose, quella giurisprudenza aveva ammesso, per via interpretativa, cioè ricorrendo alla interpretazione costituzionalmente conforme, l’appellabilità e poi la ricorribilità anche per tale ultima misura avvalendosi e replicando il ragionamento che aveva portato la Corte costituzionale a dichiarare, sul punto, la illegittimità della norma precursore dell’art. 34 d.lgs. n. 159/2011 e cioè dell’art. 3-quinquies legge n. 575 del 1965, sopra citato.

Altrimenti detto, con la sentenza n. 487 del 20 novembre 1995, il giudice delle leggi, prendendo atto di una certa inamovibilità della giurisprudenza di legittimità nel negare qualsiasi applicazione analogica in tema di mezzi di reclamo concernenti le misure di prevenzione patrimoniale, aveva rilevato la necessità di riequilibrare il sistema, fonte di irragionevole disparità di trattamento in presenza di situazioni assimilabili, ed aveva introdotto, con pronuncia additiva, il doppio grado di impugnazione in relazione alla confisca prevista dall’art. 3-quinquies legge n. 575 del 1965 e ciò in quanto l’art. 3-ter legge cit. prevedeva già la impugnabilità della confisca di cui all’art. 2-ter..

Quando poi il legislatore del 2011 aveva sostanzialmente riprodotto il testo dell’art. 3-quinquies, comma 2, negli originari commi 7 e 8 dell’art. 34 d.lgs. n. 159/2011, senza mostrare di recepire la magistrale rilevazione della Corte costituzionale in punto di necessitata impugnazione anche di tale confisca, la giurisprudenza della Cassazione sopra evocata, dequotando in parte qua la rigidità del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione onde non incappare nella violazione del principio costituzionale della parità di trattamento, non aveva avuto esitazioni a rendere effettivo lo stesso risultato processuale ed aveva patrocinato una interpretazione dell’art. 34 costituzionalmente conforme, riconoscendo la impugnabilità con doppio grado, omessa dal legislatore.

Tale opzione ermeneutica era stata, quasi contemporaneamente, normativizzata con d.lgs. 13 ottobre 2014, n. 153 (il cui art. 5, comma 1, lett. a) aveva appositamente integrato il comma 7 dell’art. 34) ed infine recepita anche dall’art. 10, legge 17 ottobre 2017, n. 161 che aveva interamente riscritto l’art. 34 inserendo, nel relativo comma 6, ultima parte, una previsione di impugnazione col doppio grado di giudizio, ivi riferita, però – come già fatto con la novella del 2014 – non solo alla confisca emessa a seguito della revoca della amministrazione giudiziaria, ma anche alla misura del controllo giudiziario adottabile nello stesso contesto.

Proseguendo questo excursus normativo, la Suprema Corte evidenziava come si fosse poi giunti alla introduzione della disciplina del “controllo giudiziario“.

Con la medesima legge 161, mediante l’art. 11 che aveva inserito nel codice antimafia l’art. 34-bis, era stato compiutamente ridisegnato l’istituto in esame, quello cioè del controllo giudiziario delle aziende, misura non più soltanto servente e funzionale a quella della amministrazione giudiziaria, ma da questa indipendente perché fondata, ab origine, sul rilievo che la possibile agevolazione di persone sottoposte a misure di prevenzione o indagate per gravi reati – comune con la piattaforma operativa della misura ex art. 34 – sia soltanto occasionale.

Si sottolineava a tal riguardo come la misura in questione – a differenza di quella della amministrazione giudiziaria che comporta la temporanea estromissione del proprietario dei beni e della azienda dall’esercizio dei propri poteri in quanto sostituito dal giudice delegato e dall’amministrazione giudiziario – avesse un approccio meno deflagrante poiché implica essenzialmente poteri di controllo in capo al giudice delegato e all’amministratore eventualmente nominato dal tribunale; essa, cioè, è coadiuvante di un nuovo corso della gestione della azienda, finalizzato ad un suo recupero alla libera concorrenza, una volta affrancata dalle infiltrazioni mafiose che ne avevano condizionato l’attività, tenuto conto altresì del fatto che non per questo motivo tale misura è meno cogente per la impresa la quale si vede colpita da una iniziativa dell’Ufficio pubblico cui può resistere, a posteriori, con una istanza di revoca da discutere dinanzi allo stesso tribunale, in udienza camerale ex art. 127 cod. proc. pen..

Tuttavia, osservano le Sezioni Unite, se il prodromo è non la determinazione del Tribunale, ma la informazione antimafia interdittiva del prefetto (comportante la inibizione dei poteri di stipula di contratti e di fruizione di concessioni o erogazioni: art. 94 d.lgs. n. 159/2011), è data facoltà, alla stessa impresa destinataria di interdittiva – che contesti con impugnazione in sede amministrativa la legittimità di tale provvedimento – di richiedere l’ammissione al controllo giudiziario (comma 6 dell’art. 34-bis): una richiesta che viene discussa, ugualmente, con procedura camerale ex art. 127 cod. proc. pen. e che, in caso di accoglimento, prevede la rilevante conseguenza della sospensione degli effetti inibitori di cui all’art. 94 mentre tale richiesta può altrimenti essere rigettata per mancanza dei presupposti o, se accolta, dare poi luogo alla revoca per le stesse ragioni sopravvenute e refluire nella applicazione di altra, e più gravosa misura di prevenzione patrimoniale.

Ciò posto, si stimava necessario, a questo punto della disamina, richiamare l’apporto ermeneutico dovuto a Sez.1, n. 29487, del 07/05/2019 (che aveva risolto un conflitto di competenza), sentenza che aveva ben posto in evidenza come, rispetto ad un pregresso assetto del sistema delle misure di prevenzione volto ad accertare e ad operare – coi mezzi ablativi del sequestro e della confisca – in presenza di una relazione tra situazioni di pericolosità soggettiva e accumulazione ingiustificata di beni, la misura di prevenzione patrimoniale della amministrazione giudiziaria, rinforzata nel 2017 con il potenziamento di quella del controllo giudiziario anche “volontario“, rappresentano una risposta alternativa da parte del legislatore: perché alternativa è la finalità di queste, volte non alla recisione del rapporto col proprietario ma al recupero della realtà aziendale alla libera concorrenza, a seguito di un percorso emendativo.

Una seconda riflessione che, sempre a detta del Supremo Consesso, nasce dalla lettura della detta sentenza, riguardava ancor più approfonditamente la ratio delle citate misure e conseguentemente il percorso accertativo che esse attivano in capo al giudice.

Si notava difatti come non vi fosse alcun dubbio che, con riferimento all’istituto di cui all’art. 34 d.lgs. n. 159 del 2011 e a quello del controllo giudiziario a richiesta della parte pubblica o disposto di ufficio, sia doveroso il preliminare accertamento da parte del giudice delle condizioni oggettive descritte nelle norme di riferimento e cioè il grado di assoggettamento dell’ attività economica alle descritte condizioni di intimidazione mafiosa e la attitudine di esse alla agevolazione di persone pericolose pure indicate nelle fattispecie.

Con riferimento, poi, alla domanda della parte privata, che sia raggiunta da interdittiva antimafia, di accedere al controllo giudiziario, tale accertamento, e in ciò la motivazione della citata sentenza n. 29487 della Prima Sezione promuove prospettive non del tutto sovrapponibili alle conclusioni qui prese, secondo la Cassazione, non scolora del tutto dovendo pur sempre il tribunale adito accertare i presupposti della misura, necessariamente comprensivi della occasionalità della agevolazione dei soggetti pericolosi, come si desume dal rilievo che l’accertamento della insussistenza di tale presupposto ed eventualmente di una situazione più compromessa possono comportare il rigetto della domanda e magari l’accoglimento di quella, di parte avversa, relativa alla più gravosa misura della amministrazione giudiziaria o di altra ablativa.

La peculiarità dell’accertamento del giudice, sia con riferimento alla amministrazione giudiziaria che al controllo giudiziario, ed a maggior ragione in relazione al controllo volontario, ad opinione della Suprema Corte, sta però nel fatto che il fuoco della attenzione e quindi del risultato di analisi deve essere posto non solo su tale pre-requisito quanto piuttosto, valorizzando le caratteristiche strutturali del presupposto verificato, sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni (nel caso della amministrazione, anche vere intromissioni) che il giudice delegato può rivolgere nel guidare la impresa infiltrata; in altri termini, l’accertamento dello stato di condizionamento e di infiltrazione non può essere soltanto funzionale a fotografare lo stato attuale di pericolosità oggettiva in cui versi la realtà aziendale a causa delle relazioni esterne patologiche quanto piuttosto a comprendere e a prevedere le potenzialità che quella realtà ha di affrancarsene seguendo l’iter che la misura alternativa comporta.

Ciò posto, a loro volta la ratio di ciascuna delle descritte iniziative e l’interesse sotteso, sempre ad opinione del Supremo Consesso, variano non di poco a seconda della identità del soggetto promovente (pubblico o privato) e della natura del provvedimento (di accoglimento o di revoca o reiettivo) ma è altrettanto evidente che per nessuna delle descritte situazioni ( applicazione della amministrazione giudiziaria; reiezione della istanza; applicazione del controllo giudiziario su iniziativa della parte pubblica o della impresa; revoca successiva; reiezione della domanda per accertamento di infiltrazioni non occasionali) il legislatore ha inteso disciplinare in modo parcellizzato un mezzo di impugnazione salvo il caso di quello sopra ricordato, ai sensi del comma 6 dell’art. 34 d.lgs. n. 159/2011, che però, come sottolineato, ha una derivazione storico-giuridica ben precisa, originando dalla pronuncia della Corte costituzionale del 1995.

Tal che se ne faceva conseguire come quello che poteva constatarsi positivamente fosse che, mentre per una serie di provvedimenti afferenti le misure patrimoniali del sequestro, della confisca e della cauzione, il legislatore ha previsto all’art. 27 d.lgs. n. 159/2011 (peraltro ampliato con il recente intervento del 2017, legge n. 161) un sistema di posticipata comunicazione alle parti interessate finalizzato all’esercizio del potere di impugnazione secondo la disciplina dell’art. 10 d.lgs. n. 159/2011 (che è la norma fondamentale delle impugnazioni, collocata nel Capo II dedicato alle misure di prevenzione personali), invece, nella riedizione degli artt. 34 e 34-bis effettuata con la legge 161, l’intervento del legislatore sembra essersi concentrato piuttosto sulla previsione di procedure camerali ex art. 127 cod. proc. pen. destinate a garantire, in molti dei casi previsti, la conoscenza ed il contraddittorio anticipati: così dando la sensazione di non occuparsi, o meglio, lasciando libero, in punto di impugnabilità, uno spazio che è possibile ed anzi doveroso occupare, col ricorso al principio generale sotteso al sistema delle impugnazioni delle misure di prevenzione, che è quello elaborato nell’art. 10 citato dal momento che il sistema, col doppio grado di giudizio – il primo dei quali, di merito, ed il secondo per sola violazione di legge – si pone come quello generale e di riferimento a tutela degli interessi perseguiti dal corpo normativo aventi tanto natura pubblicistica, quanto garanzia costituzionale come la libertà di iniziativa economica e la proprietà privata.

Una volta terminata questa disamina di ordine prettamente normativo, i giudici di legittimità ordinaria osservavano come nel descritto contesto andasse analizzato il contrasto giurisprudenziale che era insorto sulla impugnabilità dei provvedimenti regolati dall’art. 34-bis d.lgs. 159 del 2011 e, in particolare, di quello oggetto del ricorso in esame che era di reiezione della domanda di ammissione al controllo giudiziario, avanzata dalla impresa.

Si denotava a tal riguardo come il dibattito si dividesse fra le sentenze che avevano ritenuto ammissibile il solo ricorso per cassazione da parte dei soggetti interessati e quelle che invece avevanomotivato le ragioni della inesistenza, nell’ordinamento, di qualsiasi base legale alla configurazione di un siffatto (od altro) mezzo di impugnazione.

Nel primo gruppo si iscriveva la Sez. 5, n. 34526 del 2/7/2018 che aveva affermato come, in materia di misure di prevenzione, il provvedimento di rigetto della richiesta di controllo giudiziario formulata dall’impresa destinataria dell’informazione antimafia interdittiva, ai sensi dell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n.159 del 2011, sia impugnabile soltanto con ricorso per cassazione in base all’ art. 127, comma 7, cod. proc. pen..

L’argomento letterale ivi sostenuto era quello del richiamo alla procedura camerale di cui all’art. 127 cod. proc. pen. nel corpo del comma 6 dell’art. 34-bis, norma, quella processuale, che contiene al suo interno la previsione della ricorribilità per cassazione del provvedimento emesso all’esito della camera di consiglio mentre l’argomento sistematico era quello della necessità di tutela, imposto dall’art. 111 Cost., di diritti costituzionalmente garantiti come quello sulla libertà di impresa.

Conformi, tra le massimate, sono Sez. 2, n. 18564 del 13/02/2019; Sez. 2, n. 17451 del 14/02/2019; Sez. 2, n. 31280 del 12/04/2019.

Tra le argomentazioni impiegate per addivenire a formulare questo criterio ermeneutico, tali decisioni faceva leva sul principio di tassatività dei mezzi di impugnazione che osterebbe alla previsione di mezzi impugnatori ulteriori e diversi da quelli regolamentati dal legislatore nell’art. 27 d.lgs. n. 159/2011; la prima e terza, altresì, precisavano che il ricorso per cassazione, unico mezzo ammissibile, opererebbe limitatamente alla deduzione della violazione di legge, come previsto in via generale dall’art. 10, comma 3, d.lgs. cit., e ciò in ragione del fatto che una estensione di esso alla motivazione sui presupposti di merito consentirebbe la rivalutazione dei presupposti delle misure interdittive adottate dal prefetto e determinerebbe un’inutile duplicazione del giudizio amministrativo, non coerente con l’assetto della misura.

L’opposto filone interpretativo è quello alla cui testa si poneva la Sez. 6, n. 22889, del 4/4/2019, sentenza che sosteneva la tesi della inoppugnabilità del provvedimento di diniego prendendo le mosse, ancora una volta, dalla applicazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

Si evidenzia, in tale decisione, che il rinvio all’art. 127 cod. proc. pen. contenuto nell’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. n. 159/2011 deve intendersi soltanto riferito alle forme dell’udienza camerale disciplinata da tale norma ma non anche esteso alla previsione del ricorso per cassazione, non espressamente richiamato (in tal senso sono citate Sez. U, n. 17 del 06/11/1992 che avevano sviluppato l’argomento in questione in termini generali).

Peraltro, si osservava in tale pronuncia che il rinvio al ricorso per cassazione previsto dall’art. 127 cod. proc. pen. aprirebbe alla impugnazione per tutti i casi dell’art. 606 cod. proc. pen. perché l’art. 127 non contiene limitazioni e questa sarebbe una distonia rispetto alla impostazione dell’art. 10 d.lgs. n. 159 del 2011 che limita il ricorso in sede di legittimità alla violazione di legge.

Tornando al testo dell’articolo 34-bis, le Sezioni Unite facevano presente come l’orientamento in questione evidenzi che in esso non è contemplato il rinvio alle norme del codice antimafia (artt. 10 e 27) che regolano le impugnazioni e tantomeno è previsto uno specifico mezzo di impugnazione ma si segnalava tutt’al più come, semmai, la previsione di uno specifico mezzo di impugnazione sia stata introdotta, dal legislatore del 2017, soltanto nel comma 7 dell’articolo 34, in tema di amministrazione giudiziaria, serbando un eloquente silenzio con riferimento alla norma susseguente che disciplina il controllo giudiziario.

Conforme era la Sez. 6, n. 26342 del 09/05/2019, che aggiungeva come il richiamo all’art. 111 Cost., operato dall’opposto orientamento per giustificare la ammissibilità del ricorso per cassazione, sarebbe fuorviante atteso che il provvedimento del tribunale non incide sulla libertà personale e non ha carattere di definitività e tantomeno natura di sentenza dato che è sempre rivedibile in forza di elementi sopravvenuti, fino al momento di stabilizzazione degli effetti della misura amministrativa, una volta consolidato giudicato in quella sede.

Quanto alla proclamata finalità di tutela della libertà di impresa, in siffatta sentenza si osservava che essa non può dirsi tutelata dall’art. 34-bis del d.lgs. n. 159/2011 tant’è che l’istituto de quo non forma oggetto di un diritto incondizionato ma può essere richiesto a condizione che l’impresa sia stata raggiunta dalla interdittiva prefettizia e l’abbia impugnata mentre semmai la libertà di impresa è limitata dalla interdittiva prefettizia e dunque la sede di eccellenza per la relativa tutela è quella della giustizia amministrativa.

Nella decisione succitata, invece, si affermava come andassero esclusi in capo al tribunale di prevenzione poteri di controllo dei presupposti della interdittiva antimafia venendo altrimenti ad introdursi nel sistema una duplicazione del controllo sulla legittimità della misura interdittiva e segnatamente sulla sussistenza o meno dei loro presupposti.

La decisione in commento, inoltre, ravvisava anche una finalità pubblicistica volta ad assicurare che l’attività di impresa non sia utilizzata per accrescere lo sviluppo delle associazioni mafiose.

Orbene, una volta finito di illustrare questi due indirizzi ermeneutici, le Sezioni Unite ritenevano come entrambe le opzioni interpretative sostenute presentassero limiti che le rendevano inadatte a fornire al problema una risposta complessiva appagante sul piano logico e sistematico e ritenevano altresì di doversi affidare ad una ricostruzione ad ampio raggio del sistema delle impugnazioni delle misure di prevenzione patrimoniale, ricostruzione che si rendeva autonoma dalla ricerca di una chiarificatrice volontà del legislatore esplicitata all’interno del Codice antimafia: volontà che, semmai, si era espressa di volta in volta con soluzioni limitate al particolare e che in tanto rimaneva un utile strumento di ermeneusi in quanto si riusciva a farla confluire in una visione performante fondata sulla relazione biunivoca tra “interesse meritevole di tutela” agganciato alla prospettiva della parità di trattamento e “mezzo di impugnazione” a garanzia di quella tutela.

Ciò posto, ad avviso della Corte, i limiti che riguardano l’opzione favorevole alla ammissibilità del solo ricorso per cassazione erano rappresentati, in primo luogo, dalla non incisività, ai fini che qui interessano, del richiamo contenuto per due volte, nell’art. 34-bis, alle forme dell’art. 127 cod. proc. pen..

Difatti, secondo la Cassazione, non vi era motivo per discostarsi dall’insegnamento delle Sez. U, Bernini che, con un principio di massima rilevanza nell’ottica dell’ordinato contenimento delle impugnazioni, avevano affermato essere – il richiamo all’art. 127 cod. proc. pen. operato con la formula “secondo le forme previste” – del tutto neutro dal momento che la regolamentazione della procedura camerale e del contraddittorio, che in essa deve essere garantito ai sensi della norma citata, non determina la automatica applicazione del comma 7 di quella norma e quindi del principio di ricorribilità per cassazione, senza limiti, del provvedimento emesso all’esito, nè tantomeno può vincolare riguardo alla ampiezza e alle regole di quella impugnabilità, come dimostra il lampante esempio della impugnazioni in materia di misure cautelari, con procedimento regolato nelle forme dell’art. 127 cit., ma con contestuale previsione di specifiche e differenziate norme sulla ricorribilità per cassazione.

Tal che se ne faceva discendere come l’affermazione della ostatività, ad una opzione diversa, del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione fosse soprattutto suggestiva.

Infatti,ad avviso della Corte, se si sostiene, come fa l’indirizzo in commento, che il provvedimento del tribunale è ricorribile per cassazione ai sensi del comma 7 dell’art. 127 cod. proc. pen., secondo le Sezioni Unite, si fa una affermazione incompatibile con l’operatività del principio di tassatività richiamato, tanto che lo si riferisca “ai casi” di impugnabilità(ex art. 591, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) quanto lo si riferisca ai “mezzi di impugnazione” (art. 568 , comma 1, cod. proc. pen.): per tale indirizzo esiste un provvedimento impugnabile e il mezzo di impugnazione è tipizzato.

Se invece si richiama la tassatività dei mezzi di impugnazione per favorire una lettura rigorosa dell’elenco di provvedimenti appellabili contenuto nell’art. 27 d.lgs. n. 159 del 2011, sempre secondo queste Sezioni, si compie una operazione interpretativa che pone la detta premessa come il risultato che invece deve essere ancora dimostrato: e, cioè, si dà per presupposto che la tipizzazione della impugnazione è avvenuta ai sensi dell’art. 127, comma 7, cod. proc. pen. sicché si omette l’esame di diverse opzioni che pure potrebbero avere il necessario sostegno legislativo e ciò, in primo luogo, perché la giurisprudenza di questa Corte, in sintonia con una certa parte della dottrina, non ha mancato di fare ricorso, nella materia delle impugnazioni che qui interessa, al principio della interpretazione analogica, alla stregua dell’art. 12 preleggi, quando si è trattato di sopperire ad una lacuna o a una deficienza del sistema in relazione ad un caso analogo posto che, in tali situazioni, il divieto di applicazione analogica di cui all’art. 14 susseguente non opera perché il precetto che viene in considerazione (nel caso particolare l’art. 27 d.lgs. n. 159 del 2011) non è strutturato in modo tale da dare luogo ad una eccezione rispetto ad una regola generale e, in secondo luogo, si desume da una serie di indicatori che il detto sostegno si possa rinvenire, appunto, nella previsione dell’art. 10 d.lgs. 159/2011 (che altro non è se non il successore dell’art. 4 legge cit.), concepito come norma generale di impugnazione, anche per il merito, delle misure di prevenzione personale, ma estensibile anche ai provvedimenti in tema di misure di prevenzione patrimoniale che rechino un vulnus a posizioni garantite costituzionalmente, analoghe ad altre presidiate dal mezzo di impugnazione.

D’altra parte, l’evocazione della regola generale sulla impugnazione con ricorso, di cui all’art. 111, comma 7, Cost., per le Sezioni Unite, è un fuor d’opera se si considera che i provvedimenti dei quali si discute non attengono alla materia della libertà personale e non hanno il connotato della definitività proprio delle sentenze essendo in primo luogo temporanei e, in secondo luogo, rivedibili e aggiornabili in base al mutamento della situazione di fatto così come ugualmente impropria si rivela per gli Ermellini essere la presa di posizione, di parte della giurisprudenza in commento, sulla necessaria delimitazione dei motivi di ricorso per cassazione alla sola violazione di legge posto che l’argomento sistematico utilizzato, e cioè il riferimento alla analoga previsione contenuta nell’art. 10, comma 3, d.lgs. 159/2011, finisce per attribuire a tale precetto proprio quella valenza di norma generale e di sistema che si vuole contemporaneamente disconoscere.

Rilevati i profili di criticità di questo approdo ermeneutico, i limiti dell’opposto orientamento, invece, venivano ricondotti in relazione alla ritenuta possibilità di individuare una volontà certa del legislatore nell’escludere i provvedimenti in materia di controllo giudiziario dal novero di quelli impugnabili con qualsiasi modalità.

Certo, è noto il brocardo lex ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit ma nel caso di specie, più che un legislatore volutamente silenzioso, si è avuto un legislatore che ha parlato in maniera occasionale e poco coerente offrendo la tangibile sensazione che alcune fattispecie “analoghe” possano essergli sfuggite e dunque, ad esempio, è da escludere che l’art. 27 d.lgs. 159/2011, contenente un elenco di provvedimenti impugnabili con l’appello anche per il merito, tracci un perimetro chiuso visto che ciò che rivela è l’analisi storico-giuridica del vigente art. 34, comma 6, ultima parte, d.lgs. cit.: una norma che, come già ricordato, prevede la stessa impugnabilità descritta dall’art. 27 anche per i provvedimenti di revoca della amministrazione giudiziaria, con disposizione del controllo giudiziario o della confisca fermo restando che tale precetto non è stato introdotto per la prima volta – come invece sostenuto in talune sentenze – con legge 161 del 2017 (allorché è stato riscritto e sostituito l’intero art. 34) nel senso che non è stato cioè introdotto con la stessa legge che ha anche rimodulato il catalogo dei provvedimenti impugnabili ai sensi dell’art. 27 d.lgs. n. 159/2011 e dunque, alla luce di ciò, ad avviso della Corte, cade uno dei principali argomenti su cui era stata basata l’affermazione che il legislatore del 2017, avendo ripreso la materia dei provvedimenti in tema di misure patrimoniali impugnabili, avrebbe espresso una volontà ben circoscritta nella relativa individuazione atteso che, piuttosto, la previsione sulla impugnabilità riportata in tale vigente testo aveva fatto la sua prima comparsa a margine dell’originario testo dell’art. 34, e segnatamente in calce all’allora comma 7 di tale norma, appositamente interpolato dall’art. 5, comma 1, lett. a) del d. Igs. 13 ottobre 2014, n. 153; in quella occasione, cioè, l’intervento legislativo era stato assolutamente chirurgico ed aveva inteso – nel 2014, quando ancora non era stato creato l’autonomo istituto del controllo giudiziario – semplicemente emendare la dimenticanza addebitabile al legislatore del 2011 che non aveva fatto tesoro dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 487 del 1995 sopra citata.

Il fatto è che, secondo le Sezioni Unite, l’intervento sull’originario art. 34, comma 7, d.lgs. n. 159/2011 aveva creato un nuovo scompenso, sul terreno dei “casi analoghi“, perché, prevedendo l’appellabilità della confisca emessa all’atto della revoca della amministrazione giudiziaria, vi aveva aggiunto, per simmetria, anche l’appellabilità del controllo giudiziario che rappresentava, con la confisca, l’altro possibile sbocco della situazione conclusa con la revoca; una volta cioè che, con la successiva legge n. 161 del 2017, il testo dell’art. 34, comma 7, era rifluito nel nuovo art. 34, comma 6, e che, contestualmente era stato disciplinato autonomamente l’istituto del controllo giudiziario introducendo il nuovo art. 34-bis, era balzata all’evidenza l’incongruenza dell’accostamento di una previsione differenziata della impugnabilità di decisioni su oggetti del tutto assimilabili: il controllo giudiziario apparirebbe, cioè, appellabile se emesso all’esito della procedura della amministrazione giudiziaria e non impugnabile se emesso in modo autonomo da quella e, se tale accostamento è irragionevole, illogico sarebbe anche inferirne una scelta volontaria da parte del legislatore: doverosa è l’emenda con una interpretazione analogica, volta a ricomporre la parità di trattamento.

Decisivo rilievo è dunque, ad avviso della Corte, quello della irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe derivante da un assetto normativo che assoggetta il provvedimento applicativo della misura del controllo giudiziario alla impugnabilità con appello, e poi con ricorso, soltanto in una ipotesi residuale e non in quella maggiore che, a differenza della prima, non è nemmeno preceduta dal collaudo quantomeno sulla tenuta delle comuni premesse e dalla possibilità di revoca della misura della amministrazione giudiziaria.

Tal che se ne faceva conseguire come dovesse ritenersi ammissibile, per colmare tale ingiustificato scompenso, il ricorso al sistema impugnatorio derivante dal combinato disposto dell’art. 27 e dell’art. 10 d.lgs. n. 159 del 2011, con riferimento al provvedimento dispositivo del controllo giudiziario, la cui applicazione analogica deve investire parimenti anche i provvedimenti diversi sul tema e segnatamente quello reiettivo della domanda della parte privata e ciò, innanzitutto, perché si creerebbe, diversamente, una ingiustificata disparità di trattamento nella tutela degli opposti interessi perseguiti da ciascuno dei rispettivi soggetti legittimati (parte pubblica o tribunale e parte privata) ed in secondo luogo perché non appare condivisibile l’assunto di uno degli orientamenti in esame secondo cui la parte privata non sarebbe, nel caso descritto, titolare di un interesse perseguibile dinanzi alla giurisdizione della prevenzione poiché la limitazione alla libertà di impresa sarebbe avvenuta ad opera del solo provvedimento prefettizio aggredibile nella sola sede giudiziaria amministrativa.

In realtà, sebbene sia indubbio che il tribunale non abbia potere di sindacato sulla legittimità della interdittiva antimafia adottata dal prefetto, per la evidente autonomia dei mandati delle due giurisdizioni, è anche vero, secondo la Corte, che l’intera gamma delle situazioni richiamate dall’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. 159/2011 è devoluta alla sua cognizione, dovendosi esso esprimere non solo sulla applicabilità del controllo giudiziario “di cui alla lett. b) del comma 2” dell’articolo citato – cioè quello che prevede la nomina del giudice delegato e dell’amministratore giudiziario con poteri di controllo – ma anche di verificare il ricorso dei relativi presupposti – e cioè la occasionalità della agevolazione ai soggetti mafiosi e non ivi previsti, il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose e la sua intensità – e saggiare la sussistenza delle condizioni per applicare uno o più degli obblighi informativi ed anche gestionali previsti dal comma 3 dell’art. 34-bis.

E’ dunque necessario approntare una serie di controlli e accertamenti penetranti sulla vita e sulla qualità della gestione della impresa che si affianca alla denuncia di infiltrazione mafiosa operata dal prefetto e che nondimeno la parte privata può avere interesse a contrastare anche con elementi di fatto acquisiti successivamente alla udienza camerale anticipata pure per non rimanere acquiescente rispetto a conclusioni che la potrebbero esporre alla adozione di misure di prevenzione patrimoniali diverse e più incisive.

A ulteriore conferma di tale assunto vi era il testo originario dell’art. 27 d.lgs. n. 159/2011 divenuto da ultimo oggetto dell’intervento del legislatore del 2017.

A tale intervento, sempre secondo le Sezioni Unite, non andava riconosciuta la valenza di avere delineato un elenco tassativo quanto piuttosto la finalità di perseguire un tendenziale completamento del catalogo di provvedimenti impugnabili in base al criterio del caso analogo, nel senso che si è ampliato e integrato il novero dei provvedimenti in tema di sequestro, confisca e cauzione impugnabili in maniera omogenea, trattandosi di provvedimenti volti a realizzare situazioni ablative assimilabili e dunque da presidiare con identico mezzo di impugnazione fermo restando che una ingiustificata lacuna era stata, quasi contestualmente, denunciata da Sez. U, n. 20215 del 23/02/2017, posto che tale sentenza era giunta alla conclusione secondo cui, analogamente a quanto già previsto dall’art. 27 d.lgs. cit. in tema di appellabilità del provvedimento di revoca del sequestro, anche per il decreto di rigetto della richiesta del pubblico ministero di applicazione della confisca non preceduta dal sequestro anticipatorio, di cui agli artt. 20 e 22 d.lgs. n. 159 del 2011, nonostante la assenza della menzione di tale provvedimento nel testo allora vigente dell’art. 27 d.lgs. cit., si impone la impugnazione mediante appello (e non mediante il solo ricorso per cassazione) e la ragione di tale conclusione era indicata nella necessità di evitare irragionevoli conseguenze e, per converso, di riconoscere la assimilabilità sostanziale delle due situazioni, dati i comuni effetti che ne derivano in termini di insussistenza del vincolo sui beni.

A prescindere da ogni rilievo sull’effettivo completamento di quel catalogo, l’insegnamento utile delle Sezioni Unite era quello di avere fatto ricorso alla qualificazione come “irrazionale” della opzione, in un testo normativo, di previsioni disomogenee quanto alla impugnabilità di provvedimenti assimilabili negli effetti e di avere, pur senza evocare il principio della applicazione analogica, operato rilevando una svista del legislatore che aveva dato luogo ad una vera e propria lacuna normativa da colmare in virtù dei principi generali che regolano il sistema dell’impugnazione dei provvedimenti in materia di misure di prevenzione personale.

La conclusione a cui le Sezioni Unite giungevano alla luce di quanto sin qui esposto era che le decisioni del tribunale sulle richieste in tema di controllo giudiziario, al pari di quelle sulla ammissione alla amministrazione giudiziaria, legate con le prime in un unico sotto-sistema, debbano andare soggette al mezzo di impugnazione generale previsto dall’art. 10 d.lgs. n. 159/2011, come già testimoniato, per le altre misure patrimoniali, dal richiamo contenuto nell’art. 27 e nell’art. 34, comma 6, ultima parte e come del resto reso necessario dal dovere di sopperire a ingiustificate aporie normative, pur in presenza di effetti incisivi del tutto assimilabili su beni e interessi omogenei tutelati dall’ordinamento.

Si affermava pertanto il seguente principio di diritto: “Il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito“.

Alla luce di tale arresto giurisprudenziale,  la refluenza della decisione adottata sul caso di specie comportava per la Cassazione la necessaria nuova qualificazione, come appello, del mezzo di impugnazione proposto nella forma del ricorso posto che, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., l’effetto della scelta errata del mezzo di impugnazione non è, di regola, la inammissibilità di questo, essendo a tal fine non sanzionabile la qualificazione operata dalla parte, bensì la investitura del giudice competente previa individuazione del mezzo corretto (Sez. U, n. 45371 del 31/10/2001)

Conclusioni

La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, viene postulato che il provvedimento con cui il tribunale competente per le misure di prevenzione neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto ex art. 34-bis, comma 6, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, è impugnabile con ricorso alla corte di appello anche per il merito.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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