Il concetto di “abuso di autorità” nel reato di violenza sessuale

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La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza emessa dalle Sezioni Unite in data 16.07.2020, n. 27326, depositata in data 01.10.2020, ha posto fine al precedente contrasto giurisprudenziale relativo al concetto di “abuso di autorità” di cui all’art. 609 bis co. 1 c.p., affermando che deve essere interpretato come una forma di abuso che “presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.

Normativa di riferimento: Art. 609 bis co. 1 c.p.

Il fatto.

La pronuncia delle Sezioni Unite, oggetto della presente trattazione, trae origine da una serie di condotte, poste in essere, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, da un insegnante di inglese nei confronti di due alunne minori di 14 anni, costrette a subire e a compiere su di lui atti di natura sessuale.

A fronte del capo di imputazione che individuava nella condotta dell’imputato l’ipotesi di reato di cui agli artt. 609 bis, 609 ter n.1 e 81 co. 2 c.p., in primo grado, il G.U.P. del Tribunale di Enna, all’esito di un giudizio abbreviato condizionato, pronunciava sentenza di condanna dell’imputato per il reato di cui agli artt. 609 quater e 81 co. 2 c.p., qualificando il fatto di reato in termini di lieve entità, tenuto conto del modesto grado di violenza ed offensività rinvenuto nei comportamenti accertati.

In secondo grado, la Corte d’Appello di Caltanissetta ribadiva la colpevolezza dell’imputato, riqualificando, a sua volta, i fatti delittuosi ai sensi degli artt. 609 bis e 609 ter n. 1 e 81 co. 2 c.p., con conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio.

L’imputato proponeva ricorso in Cassazione, lamentando, tra l’altro, la violazione degli artt. 609 bis e 609 quater c.p. per essersi la Corte d’Appello di Caltanissetta discostata dall’orientamento giurisprudenziale fatto proprio dal Giudice di prime cure, secondo cui l’abuso di autorità di cui all’art. 609 bis c.p. presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, in mancanza della quale deve trovare applicazione la fattispecie di reato di cui all’art. 609 quater c.p.

L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite.

La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, investita del ricorso, preso atto del contrasto giurisprudenziale in materia, rimetteva la questione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con ordinanza n. 2888 del 2020, nella quale sono stati richiamati i contrapposti orientamenti giurisprudenziali in merito al significato da attribuire al concetto di “abuso di autorità” ai sensi dell’art. 609 bis c.p.

Secondo il primo orientamento, il concetto di “abuso di autorità” ai sensi dell’art. 609 bis c.p. presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, in mancanza della quale la condotta del soggetto agente deve essere valutata ai sensi dell’art. 609 quater c.p.

A detta del secondo orientamento, invece, l’“abuso di autorità”, quale modalità di consumazione del reato, si configura in ogni caso in cui si registra un potere di supremazia, anche di natura privatistica, di cui il soggetto agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.

La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite è la seguente: “Se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui all’art. 609 bis co. 1 c.p. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali”.

 

Le origini del contrasto giurisprudenziale.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, prima di risolvere il contrasto giurisprudenziale, hanno ripercorso l’iter giurisprudenziale che ha condotto alla formazione dei due orientamenti contrapposti in merito al reato di violenza sessuale cosiddetta “costrittiva” ovvero compiuto con abuso di autorità.

Il primo orientamento trae origine dalla sentenza delle Sezioni Unite del 31.05.2000, n. 13, secondo cui l’abuso di autorità ai sensi dell’art. 609 bis co. 1 c.p. presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, escludendone, nel caso di specie la configurabilità, nel caso di un insegnante privato che aveva compiuto atti sessuali con un minore di 16 anni a lui affidato per ragioni di istruzione ed educazione, ritenendo conseguentemente corretta la pronuncia del Giudice di primo grado che aveva qualificato il fatto ai sensi dell’art. 609 quater c.p.

Nella pronuncia in questione il concetto di abuso di autorità era ricondotto alla nozione di pubblico ufficiale di cui all’art. 520 c.p., riconoscendo la forza di coartazione derivante dall’esercizio distorto dei poteri connessi con la funzione preminente esercitata dal titolare della posizione sovraordinata1.

Successivamente, con la pronuncia n. 32513 del 2002, relativa ad un caso di abuso sessuale perpetrato da un insegnante a danno di una minorenne frequentante un corso di formazione professionale, è stato affermato che la posizione autoritativa ai sensi dell’art. 609 bis co. 1 c.p. deve essere tenuta distinta sia dall’ipotesi di cui all’art. 609 bis co. 2 n. 1 c.p., fattispecie caratterizzata dall’induzione all’atto sessuale di persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica sia dall’ipotesi di cui all’art. 609 quater co. 1 n. 2 c.p., fattispecie in cui assume rilevanza il rapporto esistente fra il minore infrasedicenne e l’ascendente o altri soggetti in rapporto qualificato con la persona offesa.

La distinzione operata dalla Corte di Cassazione si basava sulla circostanza secondo cui, nell’ipotesi di abuso di autorità, vi è l’elemento della costrizione, elemento non ravvisabile né nell’ipotesi di cui all’art. 609 bis c.p., laddove si riscontra un consenso viziato dalle condizioni di inferiorità della vittima, né nell’ipotesi di cui all’art. 609 quater co. 1 n. 2 c.p. laddove pur essendo ravvisabile il consenso da parte del minore, esso risulta però invalido a causa del rapporto sussistente con l’autore del reato.

Successivamente all’entrata in vigore della legge n. 38 del 2006, con cui è stato inserito un nuovo comma dopo il primo all’art. 609 quater c.p.2, il quale ha introdotto un’ipotesi di atti sessuali con minorenni residuale rispetto all’ipotesi dell’art. 609 bis co. 1 c.p., parte della dottrina ha concluso che, trattandosi di un elemento sistematico, qualora l’abuso di autorità venga riferito anche ad ipotesi di poteri di natura privatistica, verrebbe meno la possibilità di distinguere l’ipotesi di reato di rapporto sessuale con abuso di potere parentale o tutorio rispetto all’ipotesi di reato di cui all’art. 609 quater co. 2 c.p.

L’unica interpretazione idonea a salvaguardare la coerenza normativa sarebbe pertanto quella che attribuisce carattere pubblicistico all’autorità considerata dall’art. 609 bis c.p. e carattere privatistico all’autorità di cui all’art. 609 quater c.p.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2283 del 2007, ha ulteriormente precisato che, intendendo come autorità ogni posizione sovraordinata pubblicistica o privatistica, l’art. 609 quater co. 2 c.p. resterebbe praticamente privo di effetti poiché presuppone espressamente l’inapplicabilità delle ipotesi previste ai sensi dell’art. 609 bis c.p., tra le quali rientra anche quella degli atti sessuali commessi con abuso di autorità.

La successiva giurisprudenza, ribadendo il carattere formale e pubblicistico della natura autoritativa dell’agente, ha precisato che l’abuso di autorità consiste nella strumentalizzazione del proprio potere, realizzato attraverso una subordinazione psicologica tale per cui la vittima viene costretta al rapporto sessuale, risolvendosi in una vera e propria costrizione che non può essere desunta in via meramente presuntiva sulla base della posizione autoritativa ricoperta dal soggetto agente3.

Il secondo orientamento, uniformandosi alla dottrina prevalente, propende per un concetto di abuso di autorità comprensivo anche di relazioni di natura privatistica in cui l’autore del reato riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa.

Tale orientamento è stato per la prima volta fatto proprio dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2119 del 2008, in cui è stato affermato che la convivenza dell’imputato con la madre del minore fosse un valido presupposto dell’abuso di autorità, senza necessità che fosse stato manifestato un esplicito dissenso.

Successivamente, con la sentenza n. 23873 del 2009, discostandosi dall’orientamento giurisprudenziale consolidato, è stato affermato che nell’abuso di autorità rientra ogni forma di strumentalizzazione del rapporto di supremazia, senza distinzioni tra autorità pubblica e privata, utilizzando come parametro di riferimento l’art. 61 n. 11 c.p.

Un raffronto tra le diverse posizioni è stato effettuato nella pronuncia n. 19419 del 2012 in un caso di abuso di autorità caratterizzato da uno stato di soggezione e di supremazia perpetrato dall’imputato a danno della cognata in una situazione di particolare degrado famigliare, sentenza nella quale è stata posta l’attenzione sul contenuto dell’art. 61 n. 11 c.p., quale aggravante che si riferisce indifferentemente all’abuso di autorità o di relazioni domestiche, di ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità, risultando riferibile tanto all’autorità pubblica quanto a quella privata.

Nella medesima pronuncia è stato evidenziato come, qualora il legislatore intenda considerare una posizione autoritativa di tipo pubblicistico, essa venga esplicitata, come accade nel caso dell’art. 608 c.p., il quale fa specifico riferimento alla qualifica di pubblico ufficiale, menzione che, benché fosse presente nell’abrogato art. 520 c.p., non è stata ripetuta nella formulazione dell’art. 609 bis c.p., con l’evidente fine di sanzionare qualsiasi persona che, dotata di autorità pubblica o privata, abusi della sua posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

Successivamente, con la sentenza n. 49990 del 2014, è stato affermato che, oltre all’uso di una diversa terminologia, considerato che l’art. 609 bis c.p. contiene il concetto di “abuso di autorità” mentre l’art. 609 quater c.p. contiene quello di “abuso di poteri”, il delitto di atti sessuali con minorenne, il quale richiede una più diretta ed effettiva strumentalizzazione della posizione rivestita dal soggetto agente, si caratterizza per l’assenza di costrizione a differenza del reato di violenza sessuale, per la cui configurazione è necessaria una forma di costrizione della persona offesa.

Ponendo l’accento sulla diversa natura del bene giuridico tutelato rispetto alla previgente disciplina, ovvero non più la moralità pubblica e il buon costume ma bensì la libertà personale, bene che prescinde dalla rilevanza pubblicistica della posizione di autorità e dalla natura di reato comune della violenza sessuale, la giurisprudenza più recente ha affermato che la presenza di una clausola di riserva nell’art. 609 quater c.p. è di per sé idonea a delimitarne l’ambito di operatività rispetto all’art. 609 bis c.p.

Inoltre, tenuto conto che l’art. 609 bis c.p. descrive la modalità di condotta come “abuso di autorità”, esso considera la strumentalizzazione della dimensione soggettiva dell’autorità, mentre ai sensi dell’art. 609 quater c.p., riferendosi all’”abuso dei poteri”, rileva la strumentalizzazione della dimensione oggettiva e funzionale dei poteri connessi alla posizione del soggetto agente4.

La decisione delle Sezioni Unite.

Riportati gli orientamenti giurisprudenziali contrapposti, le Sezioni Unite si soffermano sul significato da attribuire alla locuzione “abuso di autorità.

La differente formulazione dei primi due commi dell’art. 609 bis c.p. evidenzia come, nella violenza sessuale “costrittiva”, il soggetto passivo pone in essere o subisce un evento non voluto poiché ne viene annullata o limitata la capacità di azione e di reazione coartandone la capacità di autodeterminazione, mentre, nella violenza sessuale “induttiva”, l’agente persuade la persona offesa a sottostare ad atti che, diversamente, non avrebbe compiuto ovvero a subirli strumentalizzandone la vulnerabilità e riducendola al rango di un mezzo per il soddisfacimento della propria sessualità.

In entrambi i casi l’autore del reato incide sul processo formativo della volontà della persona offesa, attraverso una forma diretta di compressione, nel primo caso, e indirettamente fino ad impedire ogni diversa opzione, secondo le proprie intenzioni, nel secondo caso.

Trattasi di due situazioni che devono essere mantenute distinte, tenuto conto che l’abuso di autorità può dirsi configurato solo laddove determini una vera e propria sopraffazione della volontà della persona offesa sotto forma di costrizione e non di mera induzione.  

Inoltre, la condizione di sopraffazione in cui si trova la persona offesa, in caso di abuso di autorità, consiste in una forma di sudditanza materiale o psicologica, ma non psichica ovvero di origine patologica in senso stretto, circostanza che consente di distinguere l’abuso di autorità dalla minaccia funzionale alla costrizione di cui all’art. 609 bis c.p.

Nonostante la distinzione tra le diverse fattispecie sia labile, essa risponde all’esigenza di ampliare l’ambito di operatività dell’art. 609 bis co. 1 c.p., al fine di ricomprendervi situazioni non riconducibili alla violenza o alla minaccia.

Se infatti la minaccia determina un’efficacia intimidatoria diretta sul soggetto passivo costretto a compiere o subire l’atto sessuale, la coartazione che deriva dall’abuso di autorità è propria della soggezione esistente tra autore e vittima del reato, la quale è determinata dal ruolo autoritativo che il primo esercita sul secondo.

Tale soggezione determina delle condizioni tali per cui alla persona offesa non restano valide alternative rispetto al compimento o all’accettazione dell’atto sessuale e rappresenta la conseguenza immediata e diretta della strumentalizzazione di una posizione di supremazia vantata dall’agente a danno della persona offesa.

Sulla base delle considerazioni sopra esposte, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione giungono ad affermare che non si ravvisano ragioni utili per uniformarsi all’interpretazione giurisprudenziale maggiormente restrittiva del concetto di abuso di autorità.

Fondamentale in detta ricostruzione è quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 13 del 2000, occasione in cui, dopo aver dato atto dell’assenza di costrizione fisica da parte del soggetto agente nei confronti della persona offesa, la Suprema Corte ha affermato che l’abuso di autorità ai sensi dell’art. 609 bis c.p. coincide con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 520 c.p., norma che presuppone una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, orientamento a cui si sono uniformate le sentenze successive.

Sulla base di detta pronuncia, le Sezioni Unite sono giunte ad affermare l’irrilevanza delle norme penali abrogate dalla l. n. 66 del 1996.

La collocazione del delitto di violenza sessuale tra i reati contro la libertà personale e la natura di reato comune sono infatti elementi che mostrano l’intento del legislatore di ampliare l’ambito di operatività della fattispecie, svincolando l’art. 609 bis c.p. dai riferimenti alla figura del pubblico ufficiale di cui all’abrogato art. 520 c.p.5.

Le Sezioni Unite rilevano inoltre che ogni qual volta la legge abbia inteso riferirsi a soggetti che rivestono una posizione autoritativa di natura formale lo ha fatto espressamente, a differenza di quanto accaduto con altre disposizioni in cui ha inteso il concetto di abuso di autorità in senso più ampio, comprendendo in esso anche posizioni di preminenza o supremazia non necessariamente di natura pubblicistica.

L’interpretazione maggiormente restrittiva del concetto di abuso di autorità diviene inoltre irrilevante, non solo per la presenza della clausola di riserva e per la diversa formulazione che si riferisce non all’abuso di autorità ma bensì all’abuso di poteri, ma anche in riferimento alla diversa conformazione della condotta sanzionata, la quale non richiede la costrizione del minore, ritenuto in ogni caso incapace di esprimere un valido consenso in ragione dell’età o del rapporto che lo lega al soggetto attivo.

Il bene giuridico tutelato dalla norma non è evidentemente costituito dalla libertà di autodeterminazione del minore ma bensì dalla sua integrità psico fisica nella prospettiva di un corretto sviluppo della propria sessualità6.

Tali considerazioni trovano conferma nella circostanza secondo cui l’autorità ha natura relazionale e presuppone un rapporto tra più soggetti, caratterizzato dal fatto che, colui che riconosce l’autorità di chi la esercita subisce, senza capacità di reagire, gli atti che ne derivano. Pertanto, non può validamente sostenersi che il riconoscimento dell’autorità debba avere esclusivamente natura formale e pubblicistica.

L’interpretazione formalistica si porrebbe infatti in netto contrasto con l’esigenza di massima tutela della libertà sessuale, perseguita dal legislatore, oltre ad escludere l’applicazione della fattispecie di cui all’art. 609 bis co. 1 c.p. in situazioni derivanti da rapporti di natura privatistica o di mero fatto, come nel caso ci rapporti di lavoro dipendente o di situazioni di supremazia riscontrabili in ambito sportivo, religioso, professionale ed all’interno di determinate comunità, associazioni o gruppi di individui.

Privilegiando la tesi più restrittiva, la prevaricazione esercitata dall’agente sulla persona offesa sarebbe penalmente rilevante solo nel caso in cui la condotta del soggetto agente fosse riconducibile alla minaccia o all’abuso delle condizioni di inferiorità psichica, restandone esclusa qualora il compimento dell’atto sessuale con soggetto non consenziente avvenga in assenza dei presupposti caratterizzanti le suddette forme di coartazione o induzione.

Esclusa pertanto la natura formale e pubblicistica dell’autorità di cui l’agente abusa, la Suprema Corte ha spostato la sua riflessione sulla natura dell’autorità privata, verificando se l’autorità “privata” sia solo quella che deriva dalla legge o anche quella derivante da un’autorità di fatto.

La tesi corretta è evidentemente la seconda. Infatti, tenuto conto che a rilevare è la coartazione della volontà della vittima posta in essere da una posizione di preminenza, la specifica qualità del soggetto agente resta in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione e prescinde dall’origine di detta posizione di supremazia.

Il riconoscimento della validità dell’interpretazione più ampia del concetto di abuso di autorità non incide inoltre sul principio di tipicità.

La volontà di assicurare la massima tutela a coloro che vengono indotti o costretti a compiere o a subire atti sessuali era la ratio perseguita dal legislatore del 1996, ragion per cui una nozione più ampia del concetto di autorità è del tutto coerente con i fini perseguiti dalla normativa attualmente in vigore.

 

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si soffermano infine sugli oneri probatori da assolvere, ai fini della dimostrazione della sussistenza del reato, affermando che l’esistenza oggettiva del rapporto autoritario deve essere dimostrata in modo inequivocabile, attraverso un’analisi concreta della dinamica dei fatti idonea a mostrare un rapporto di soggezione effettivamente intercorrente tra l’agente e la vittima del reato.

Contestualmente occorre dimostrare l’utilizzazione del potere, tenuto conto della correlazione esistente tra l’abuso di autorità e le conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della persona offesa, in quanto una condotta che dovesse estrinsecarsi con modalità diverse andrebbe necessariamente ricondotta all’ipotesi della minaccia o dell’induzione.

Affinché il reato risulti configurato occorre pertanto dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto di un’autorità tra autore del reato e vittima, diverso dalla mera costrizione fisica e dalle ipotesi di minaccia ed induzione, ma anche l’abuso di tale posizione di supremazia ad opera dell’agente, al fine di costringere la persona offesa a compiere o subire un atto sessuale al quale non avrebbe consentito in altro contesto, dovendosi escludere la possibilità di desumere la costruzione in via meramente presuntiva sulla base della posizione autoritativa del soggetto agente.

Quanto affermato consente di dare rilevanza, per la configurabilità del reato, alla valenza coercitiva dell’abuso di autorità tanto nel caso in cui la posizione di preminenza dell’agente sia venuta meno, permanendo tuttavia una condizione di soggezione psicologica derivante dall’autorità da questi già esercitata, quanto nel caso di relazione di dipendenza indiretta tra autore e vittima del reato, nell’ipotesi in cui il soggetto agente, abusando della sua posizione di autorità, concorre con un terzo che compie materialmente l’atto non voluto dalla persona offesa.

La Suprema Corte giunge pertanto ad affermare il seguente principio di diritto: “L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609 bis comma primo, cod. pen. presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.

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Avv. Maria Laura Pesando

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