La circostanza attenuante del lucro è compatibile con la fattispecie prevista dall’art. 73 co. 5, del d.P.R. n. 309/1990

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 Annullamento con rinvio)

Il fatto

Il Tribunale di Torino in composizione monocratica – ad esito di giudizio abbreviato conseguente alla trasformazione ex art. 452, comma 2, cod. proc. pen. del rito direttissimo disposto nei confronti dell’imputato a seguito del suo arresto in flagranza – lo riteneva responsabile del reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 in riferimento alla cessione di 2,2 grammi di hashish per il corrispettivo di 10 Euro, condannandolo alla pena di tre mesi di reclusione e 500 Euro di multa.

Avverso detta sentenza proponeva appello l’imputato, tramite il suo difensore, lamentando il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. ed il trattamento sanzionatorio irrogato ritenuto eccessivo chiedendo, pertanto, il riconoscimento di tale attenuante e la sua applicazione sulla pena rideterminata nel minimo edittale.

A sua volta la Corte d’appello di Torino confermava la decisione impugnata.

In relazione allo specifico aspetto del riconoscimento dell’attenuante in questione, la Corte d’appello, dando atto dell’esistenza di un orientamento contrapposto, aveva consapevolmente aderito a quello contrario all’applicabilità dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 4, cod. pen. alla fattispecie di spaccio di stupefacente di cui al comma quinto dell’articolo 73 condividendo l’argomentazione, posta alla base di tale opzione interpretativa, secondo la quale un eventuale riconoscimento dell’attenuante – che si fonda sulla ridotta rilevanza economica della violazione – si risolverebbe in una duplice valutazione dei medesimi elementi già considerati per l’inquadramento del fatto nella citata ipotesi delittuosa con conseguente indebita duplicazione dei benefici sanzionatori.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

L’imputato, tramite il proprio difensore, proponeva ricorso per cassazione deducendo, con un unico motivo, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 127, 605 cod. proc. pen., 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 e 62, n. 4, cod. pen..

In particolare, dopo essere stata evidenziata l’esistenza di due diversi orientamenti formatisi sul tema nella giurisprudenza di legittimità, il ricorrente insisteva sull’applicabilità dell’attenuante del lucro di speciale tenuità al contestato reato di cessione di sostanze stupefacenti di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990 avente ad oggetto una assai ridotta quantità di droga leggera (2,2 grammi di hashish) per un corrispettivo di 10 Euro chiedendosi, in subordine, l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite per dirimere il rilevato contrasto giurisprudenziale.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Quarta Sezione della Corte di cassazione, cui il ricorso era stato assegnato, ne rimetteva la trattazione alle Sezioni Unite rilevando l’esistenza del segnalato contrasto giurisprudenziale in merito alla applicabilità della circostanza attenuante del conseguimento del lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. al reato di cessione di sostanze stupefacenti e alla compatibilità di detta attenuante con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione, procedevano alla sua delimitazione nei seguenti termini: “se la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità, di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., sia applicabile ai reati in materia di stupefacenti, e, in caso affermativo, se sia compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990”.

Premesso ciò, veniva notato come la questione prospettata nell’ordinanza della Quarta Sezione si componesse di due nuclei problematici collegati tra loro ossia: 1) applicabilità della circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità, di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. ai reati in materia di stupefacenti; 2) profilo della questione riguarda la compatibilità dell’attenuante in esame con l’autonoma fattispecie “di lieve entità” prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.

Detto questo, si faceva presente come correttamente la Sezione rimettente avesse registrato la sussistenza di un contrasto interpretativo in ordine a tali profili.

In particolare, secondo l’orientamento più risalente, la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. non sarebbe applicabile ai reati in materia di stupefacenti, né sarebbe compatibile con la fattispecie prevista dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.

Con riferimento al primo dei profili indicati, la Corte di cassazione (Sez. 6, n. 7830 del 30/03/1999) era pervenuta alla soluzione negativa sulla base di considerazioni, rimaste peraltro isolate, secondo le quali, nonostante il generico riferimento operato dall’art. 62, n. 4, cod. pen. ai “delitti determinati da motivi di lucro”, l’evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità deve sempre essere riferito a fatti di reato offensivi del patrimonio nei quali non rientrano i reati in materia di sostanze stupefacenti che sono invece «lesivi dei valori costituzionali attinenti alla salute pubblica, alla sicurezza ed all’ordine pubblico, alla salvaguardia del sociale».

Altre decisioni si inscrivono nell’indirizzo negativo seguendo un differente percorso argomentativo. Pur ammettendo l’astratta riferibilità dell’art. 62, n. 4, cod. pen. anche a reati diversi da quelli contro il patrimonio ma determinati da motivi di lucro, esse, difatti, escludono l’applicabilità dell’attenuante ai reati in materia di stupefacenti per l’impossibilità di configurare un evento dannoso di speciale tenuità là dove i beni tutelati abbiano rango costituzionale; in particolare, sulla premessa che, a seguito della riforma operata dalla legge 7 febbraio 1990 n. 19, per la configurabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. devono concorrere i due elementi dell’aver agito per conseguire, o l’aver comunque conseguito, un lucro di speciale tenuità e dell’essere l’evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità, quelle decisioni sostengono che nei reati in materia di stupefacenti l’evento non potrebbe essere in alcun caso qualificato in termini di “speciale tenuità“, sia perché le condotte contemplate e sanzionate dal Testo Unico sugli stupefacenti sono lesive dei valori costituzionali attinenti alla salute pubblica, alla salvaguardia del sociale, alla sicurezza dell’ordine pubblico, di fronte ai quali resterebbe del tutto irrilevante la ridotta valenza del lucro conseguito, sia perché occorre tener conto non dei soli danni immediati ma anche di quelli, non immediati, pur sempre però ricollegabili all’uso delle sostanze stupefacenti (Sez. 4, n. 3621 del 26/02/1993,; Sez. 6, n. 41758 del 13/10/2009; Sez. 6, n. 23821 del 27/02/2013; Sez. 6, n. 9722 del 29/01/2014; Sez. 3, n. 36371 del 09/04/2019).

Ciò posto, con riferimento al secondo profilo della questione sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, si evidenziava come plurime pronunce avessero poi, più particolarmente, affermato l’incompatibilità della circostanza attenuante comune in esame con l’autonoma fattispecie di reato prevista dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Sez. 1, n. 36408 del 26/06/2013; Sez. 3, n. 46447 del 10/10/2017; Sez. 4, n. 32513 del 16/04/2019; Sez. 3, n. 36371 del 09/04/2019, omissis) essendo stato messo in evidenza, in tali decisioni, che, al ricorrere della speciale tenuità del lucro, perseguito o effettivamente conseguito, e dell’evento dannoso o pericoloso, si verificherebbe sempre la coincidenza dei presupposti fattuali dell’attenuante con quelli che determinano il riconoscimento della fattispecie di “lieve entità” di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990 sicché la concessione dell’attenuante determinerebbe una duplice valutazione degli stessi elementi e una conseguente, indebita duplicazione dei benefici sanzionatori.

A fronte di tale orientamento, si registrava la sussistenza di un altro approdo interpretativo che, invece, ammette l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. ai reati in materia di stupefacenti e, in particolare, ai fatti “di lieve entità” di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990.

Nel dettaglio, si rilevava come tale orientamento positivo avesse trovato la sua prima affermazione in Sez. 6, n. 20937 del 18/01/2011 che, contrapponendosi consapevolmente alla giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. era concedibile unicamente per i reati contro il patrimonio, aveva ritenuto tale attenuante applicabile anche ai reati in materia di stupefacenti.

Con tale decisione la Corte di cassazione aveva in primo luogo chiarito che, a seguito delle modifiche recate dalla legge n. 19 del 7 febbraio 1990 al testo dell’art. 62, n. 4, cod. pen., l’attenuante in esame è configurabile per ogni tipo di delitto purché commesso per motivi di lucro a prescindere dalla natura dell’offesa prodotta e dal bene protetto dalla norma incriminatrice atteso che ritenere ex lege presuntivamente esclusa tale attenuante per alcune categorie di fattispecie criminose, quali quelle riguardanti le sostanze stupefacenti, considerandola circoscritta ai soli reati offensivi del patrimonio, secondo questo filone interpretativo, sarebbe contrario al chiaro tenore letterale della nuova disposizione ed avrebbe di fatto vanificato la portata della modifica normativa rilevandosi al contempo che l’introduzione del comma 5 dell’art. 73, d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 imponeva una rimeditazione delle decisioni della Corte di legittimità affermative di una assiomatica esclusione dei reati in materia di stupefacenti dal possibile novero dei reati connotati da un evento di “speciale” tenuità, posto che proprio con la nuova previsione lo stesso legislatore aveva ritenuto possibile qualificare in termini di “lieve entità” anche i reati in tema di stupefacenti.

La decisione, pronunciata allorché la lieve entità dei fatti di cui al testé citato quinto comma costituiva un’attenuante speciale rispetto ai reati previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Sez. U., n. 9148 del 31/5/1991), affermava altresì: a) la compatibilità di detta attenuante con quella di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. posto che la prima si riferisce all’azione e all’oggetto materiale del reato, globalmente e unitariamente vagliati, mentre la seconda attiene unicamente al lucro e all’evento dannoso o pericoloso che siano connotati da speciale tenuità; b) che l’attenuante comune ex art. 62, n. 4, cod. pen. era stata ritenuta compatibile con le attenuanti speciali da “particolare tenuità del fatto” di cui agli artt. 648, comma 2, cod. pen. (Sez. 4, n. 25321 del 6/5/2004; Sez. 2, 16.10.2007 n. 43046) e 323-bis cod. pen. – relative, al pari della diminuente prevista all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, a reati non annoverabili tra quelli posti a tutela del patrimonio (Sez. 6, n. 2620 del 9/12/1996); c) che quelle attenuanti speciali si riferiscono al fatto di reato nella sua globalità – e quindi ai tradizionali elementi della condotta, dell’elemento psicologico e dell’evento, complessivamente considerati – mentre la prima attiene unicamente agli elementi del lucro e del danno, ciascuno dei quali deve essere connotato da speciale tenuità.

Detto questo, veniva inoltre fatto presente come i principi affermati nella sentenza n. 20937 del 2011, in merito alla generale compatibilità tra l’attenuante ex art. 62, n. 4, cod. pen. e i delitti in materia di stupefacenti, fossero stati ripresi da una successiva sentenza della Sesta Sezione che, agli argomenti già spesi a supporto della tesi affermativa, affiancava nuove argomentazioni desunte dal mutato quadro normativo di riferimento (Sez. 6, n. 5812 del 24/11/2016, dep. 2017).

Nel dettaglio, questa decisione contestava in primo luogo l’argomentazione, posta a base dell’opposto indirizzo interpretativo, secondo cui, in caso di violazione della disciplina penale degli stupefacenti, sarebbe impossibile il verificarsi di un evento dannoso o pericoloso “tenue“; questo enunciato, difatti, «predicato in maniera tanto assoluta quanto apodittica», sarebbe «normativamente contraddetto dal chiaro disposto dell’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90, il quale riconosce espressamente la possibilità che un fatto punibile ai sensi del citato art. 73 sia caratterizzato da minima offensività dei beni protetti, pure certamente primari e costituzionalmente garantiti» sicché il contrario indirizzo giurisprudenziale «si porrebbe […] in contrasto non solo col chiaro tenore letterale dell’art. 62, n. 4, seconda parte, cod. pen., il quale prevede l’applicabilità dell’attenuante in questione a tutti i delitti determinati da motivi di lucro, ma anche col citato art. 73, comma 5».

La Sesta Sezione osservava poi che l’assoluta impossibilità di un evento dannoso o pericoloso di lieve entità per i reati in materia di stupefacenti «si rivela […] viepiù insostenibile a seguito dell’introduzione della generale causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. Posto infatti che la pena edittale prevista per l’ipotesi lieve di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90 rientra nei limiti di cui al primo comma dell’art. 131-bis e che gli elementi oggettivi di esclusione della particolare tenuità dell’offesa sono specificamente (e tassativamente) descritti nel secondo comma della medesima disposizione senza che tra essi figuri un qualsivoglia riferimento alla “categoria” dei delitti in tema di stupefacenti, deve ritenersi che la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. possa applicarsi alle condotte rientranti nella fattispecie di lieve entità» sicché «anche per tale via risulta confermata la possibilità che i delitti in materia di stupefacenti di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 siano caratterizzati da minima offensività, tale da determinare alternativamente, previa scrupolosa verifica degli elementi indicati nelle norme testé citate, la qualificazione del fatto in termini di lieve entità ex art. 73, comma 5 D.P.R. 309/90, ovvero la sua non punibilità ex art. 131 bis cod. pen.».

In definitiva, secondo tale pronunciamento, nell’attuale assetto normativo, totalmente differente da quello in cui iniziò ad affermarsi la tesi negativa, i delitti in materia di stupefacenti di cui all’art. 73 d.P.R. 309 del 1990, non solo possono essere caratterizzati da minima offensività, tale da determinare la qualificazione del fatto in termini di lieve entità ex art. 73, comma 5, ma potrebbero risultare addirittura non punibili in ragione della particolare tenuità del fatto, né può essere condiviso l’argomento secondo il quale il riconoscimento dell’attenuante del lucro di speciale tenuità prevista all’art. 62, n. 4, seconda parte, cod. pen. comporterebbe, in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90, un’ingiustificata duplicazione di benefici sanzionatori atteso che la trasformazione dell’attenuante speciale prevista dal testo originario dell’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90 in autonoma fattispecie di reato, operata dal d.l. n. 146 del 23.12.2013 convertito con modifiche dalla L. n. 10/2014, fa sì che a tale autonoma fattispecie delittuosa corrisponda ora una specifica cornice edittale.

Da ciò si giungeva alla conclusione secondo la quale deve escludersi che l’attenuante comune in esame, destinata ad incidere sull’ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, possa determinare un’indebita duplicazione di benefici sanzionatori e ciò è tanto più vero in quanto quell’attenuante richiede per la sua applicazione l’esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell’offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5, vale a dire l’elemento consistente nell’essere il delitto determinato da motivi di lucro e nell’avere l’agente perseguito, o effettivamente conseguito, un lucro di speciale tenuità».

A fronte di ciò, veniva dunque osservato come tale prospettiva ermeneutica si discosti significativamente dalla giurisprudenza innanzi esaminata giacché fonda la proposta soluzione positiva principalmente sulla trasformazione dell’attenuante speciale prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 in fattispecie autonoma di reato e, pertanto, la presenza nell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. dell’elemento specializzante relativo alla “speciale tenuità” del lucro e del danno diviene argomento secondario e rafforzativo di quello principale.

Detto questo, si evidenziava come plurime decisioni abbiano totalmente condiviso il filone interpretativo da ultimo descritto (tra le altre, Sez. 6, n. 24533 del 15/03/2017; Sez. 6, n. 36868 del 23/06/2017; Sez. 6, n. 11363 del 31/01/2018; Sez. 4, n. 5031 del 15/01/2019; Sez. 4, n. 38381 del 21/05/2019; Sez. 2, n. 51174 del 01/10/2019).

Orbene, una volta conclusa la disamina di questi due indirizzi nomofilattici, le Sezioni Unite ritenevano condivisibile la soluzione prospettata dall’indirizzo giurisprudenziale più recente secondo il quale la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. è applicabile ai reati in materia di stupefacenti in presenza di un evento dannoso o pericoloso connotato anch’esso da speciale tenuità ed è compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità, prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990.

Si osservava a tal proposito come sull’applicabilità dell’attenuante in esame anche ai reati in materia di stupefacenti convergessero dati testuali, teleologici e sistematici rilevandosi in primo luogo che, prima dell’entrata in vigore della legge 7 febbraio 1990, n. 19, l’attenuante comune di cui all’art. 62, n. 4 cod. pen. era prevista nel caso di speciale tenuità del danno cagionato alla persona offesa ed era applicabile solo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio.

La novella testé citata, in particolare, aveva aggiunto nella medesima disposizione un’ulteriore diminuente, applicabile a tutti i delitti determinati da motivi di lucro alla duplice condizione che sia il lucro perseguito od effettivamente conseguito dal reo, sia l’evento dannoso o pericoloso siano caratterizzati da speciale tenuità.

La Relazione illustrativa del disegno di legge dal quale origina il descritto intervento normativo, presentato dal Ministro della Giustizia alla Camera dei Deputati il 19 ottobre 1987 e rubricato “Modifiche in tema di circostanze attenuanti, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti”, invero, espressamente riportava la nuova attenuante alla opportunità, per motivi di equità, di riformulare l’art. 62, n. 4 cod. pen. in modo simmetrico all’art. 61, n. 7 cod. pen., che già prevedeva l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità non solo per i reati contro il patrimonio, ma anche per quelli determinati da motivi di lucro.

Nel proporre tale allineamento, il Governo segnalava che «peraltro, attribuendosi rilievo ai motivi del reato, non è parso congruo eccepire, come delimitazione oggettiva dell’operatività dell’attenuante, il parametro del danno patrimoniale di speciale tenuità arrecato alla persona offesa, che ne avrebbe contenuto la portata in margini eccessivamente ristretti e generalmente riferibili ai soli delitti che tutelano, esclusivamente o in via cumulativa, il patrimonio», e fosse invece opportuno «prevedere che il danno (o il pericolo) di speciale tenuità che viene in rilievo non è quello patrimoniale bensì quello criminale», sicché, «così delineata, la diminuente viene a costituire un valido elemento a disposizione del giudice per una più equa correlazione della pena alla effettiva lesività della condotta criminosa».

In definitiva, facevano presente le Sezioni Unite, per consentire la piena attuazione del principio di proporzionalità della pena, alla struttura dell’attenuante di nuovo conio – riferita tanto al perseguimento o all’effettivo conseguimento di un lucro di speciale tenuità che alla produzione di un danno criminale (e non solo patrimoniale) di pari intensità e grado – non si accompagnava – a differenza di quella preesistente, relativa ai soli delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio – alcuna selezione di categorie di reati operata in via astratta in relazione al bene giuridico protetto e senza considerare le specifiche caratteristiche del caso concreto.

Ciò posto, veniva in secondo luogo evidenziato come l’inquadramento sistematico della disposizione in esame offrisse ulteriori conferme all’analisi testuale e teleologica.

Si notava a tal proposito come ogni violazione della disciplina penale degli stupefacenti – cagionando la lesione o la messa in pericolo di beni giuridici di primaria importanza e costituzionalmente protetti, quali la salute della persona e la sicurezza pubblica – comporti necessariamente, per sua natura, un evento dannoso o pericoloso, diretto o mediato, di cui sia impossibile la qualificazione in termini di tenuità è, prim’ancora che affermazione indimostrata, un assunto smentito da plurimi indici normativi venendo in primo luogo in rilievo il quinto comma dell’art. 73 d.P.R. 309 del 199, il quale prevede che una condotta punibile ai sensi dello stesso articolo possa connotarsi quale fatto “di lieve entità” atteso che, ove la semplice individuazione del coacervo dei beni giuridici protetti dalle disposizioni penali in tema di stupefacenti fosse sufficiente, sempre e comunque, ad escludere la lieve entità dell’offesa in concreto ad essi arrecata nel caso di specie, quell’ipotesi delittuosa non sarebbe mai suscettibile di integrazione dal momento che l’esistenza di quella fattispecie dimostra, al contrario – tanto sulla base della pertinente disciplina giuridica che della quotidiana esperienza giudiziaria – che anche per i delitti in materia di stupefacenti è senz’altro configurabile una lesione o messa in pericolo dei beni giuridici protetti caratterizzata da lieve entità.

Orbene, per gli Ermellini, questa conclusione trova ulteriori riscontri sistematici nell’art. 131-bis cod. pen. che a sua volta prevede la «non punibilità del fatto quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale» dato che l’istituto della non punibilità per particolare tenuità dell’offesa non connette alla mera individuazione del bene giuridico protetto alcun rilievo ai fini del giudizio sull’utilità e necessità della pena mentre, al contrario, il legislatore ha affidato la selezione delle fattispecie alle quali è applicabile quella causa di non punibilità alla considerazione della gravità del reato, desunta dalla pena edittale, e della non abitualità del comportamento; mentre nessuno degli altri indicatori idonei ad escludere la particolare tenuità dell’offesa elencati al secondo comma dello stesso art. 131-bis ha diretto e generale riguardo al tipo di bene giuridico protetto.

Quindi, poiché la fattispecie delittuosa di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990 rientra nei limiti di applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen., appare evidente, per il Supremo    Consesso, che il legislatore ha ritenuto la violazione di quel precetto penale suscettibile di produrre un’offesa ai beni giuridici tutelati qualificabile in termini di particolare tenuità andando essa, in tal caso, esente da pena e, conseguentemente, risulta smentito, sotto ulteriore e autonomo profilo, l’assunto – posto a base dell’orientamento che nega l’applicabilità ai reati in materia di stupefacenti dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. – secondo cui ogni violazione della disciplina penale degli stupefacenti comporti necessariamente un evento dannoso o pericoloso di cui sia impossibile la qualificazione in termini di tenuità.

A fronte di tali considerazioni giuridiche, i giudici di piazza Cavour notavano però come l’irrilevanza dell’astratta valutazione del tipo di bene protetto, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, consentisse tuttavia ulteriori, e più generali, valutazioni visto che le Sezioni Unite avevano più volte richiamato la costituzionalizzazione del principio di offensività, operata attraverso la lettura integrata di diverse norme della legge fondamentale, ribadendo che l’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente, e apprezzabilmente, offensivi (Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013; Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016) e, in tale prospettiva, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto» sicché tipicità e offensività convergono sul piano ermeneutico dovendosi considerare fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non effettivamente offensivi dell’interesse protetto.

Inoltre, sulla scia di tali rilievi, le Sezioni Unite avevano altresì affermato che ai fini della configurabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità dell’offesa – pure per sua natura riferita a fatti certamente offensivi e perciò pienamente riconducibili alla fattispecie legale – «non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica», ma «è la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore».

In definitiva, per la Suprema Corte, mentre l’esistenza nel caso concreto di un’effettiva, specifica offesa del bene giuridico protetto – qualunque esso sia – rappresenta condizione indefettibile per l’applicazione della fattispecie astratta, l’intensità e il grado di quell’offesa costituiscono il presupposto del giudizio di utilità e necessità della relativa pena a prescindere dalla natura dell’interesse tutelato e, dunque, in entrambi i casi, seppure a fini diversi, assume decisivo rilievo la connotazione storica del fatto e l’accertamento, nel caso concreto, dell’esistenza, o meno, di un’apprezzabile offesa del bene giuridico protetto che sia eventualmente caratterizzata da particolare tenuità e, pertanto, non si dà tipologia di reato in cui sia inibita ontologicamente l’applicazione dell’istituto di cui al citato art. 131-bis tenuto conto altresì del fatto che il legislatore ha espressamente, e significativamente, disposto che tale istituto trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante (art. 131-bis, comma 3, cod. pen.) e, di conseguenza, anche in presenza di un danno di speciale tenuità, l’applicazione dell’art. 131-bis è pur sempre legata anche alla considerazione degli ulteriori indicatori a quello scopo rilevanti, afferenti alla condotta ed alla colpevolezza mentre, per converso, quando ha voluto evitare che la graduazione del reato espressa in una circostanza aggravante ragguagliata all’entità della lesione sia travolta da elementi di giudizio di segno opposto afferenti agli altri indicatori previsti dalla legge, il legislatore lo ha fatto esplicitamente: l’offesa non può essere ritenuta connotata da particolare tenuità quando la condotta ha cagionato, quale conseguenza non voluta, la morte o lesioni gravissime (art. 131-bis, comma 2, cod. pen.).

Come rileva conclusivamente la sentenza n. 13681 del 2016, risultava così accolta “in tutto e per tutto” la concezione gradualistica del reato nitidamente scolpita nell’insegnamento della risalente, ma sempre autorevole dottrina secondo cui: «nella ricerca sul grado si esamina un fatto nelle eccezionali accidentalità del suo concreto modo di essere e nella individualità criminosa nella quale si estrinseca» e, nel rispetto della legge, tale giudizio non può che essere rimesso al magistrato «perché l’uomo deve essere condannato secondo la verità e non secondo le presunzioni».

Da una parte, quindi, la tenuità del danno o del pericolo cagionati al bene giuridico protetto può – e deve – essere considerata – se, come nell’art. 62, n. 4, cod. pen., normativamente previsto – sia per attenuare la pena, che, eventualmente, ai sensi ed alle condizioni dell’art. 131-bis cod. pen., per escluderne la necessità, dall’altra, la relativa verifica dovrà avere ad oggetto, in entrambi i casi, non già l’astratta considerazione della natura giuridica del bene protetto, bensì il grado di effettiva offensività del fatto nel caso concreto e ciò trova così conferma, in termini rinnovati e più estesi, la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, a seguito della nuova formulazione dell’art. 62 n. 4 cod. pen., recata dall’art. 2 legge 7 febbraio 1990, n. 19, la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità è applicabile ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela purché la speciale tenuità riguardi congiuntamente l’entità del lucro (conseguendo o conseguito) e dell’evento dannoso o pericoloso (ex multis, con riferimento a diverse fattispecie delittuose e categorie di delitti, Sez. 6, n. 7905 del 20/05/1997, dep. 1998; Sez. 5, n. 43342 del 19/10/2005; Sez. 3, n. 2685 del 12/10/2011; Sez. 5, n. 26807 del 19/03/2013; Sez. 5, n. 44829 del 12/06/2014; Sez. 5, n. 36790 del 22/06/2015; Sez. 5, n. 27874 del 27/01/2016,).

Pertanto, come l’offensività della condotta costituisce un presupposto generale per la rilevanza penale del fatto qualunque sia il reato ascritto all’imputato, così la circostanza attenuante in esame attraversa tutti i reati commessi a scopo di lucro sicché, una volta verificato che il delitto è stato commesso a fini di lucro, per il Supremo Consesso, il giudice di merito deve valutare, in concreto, la ricorrenza, o meno, della speciale tenuità riferita sia al lucro perseguito o conseguito dall’autore del reato, sia all’evento dannoso o pericoloso causato nel caso di specie mentre, al contrario, il teorizzare in via generale la non applicabilità dell’attenuante a categorie di reati individuate in ragione dell’astratta riferibilità a un dato bene giuridico affermando che, anche ad ipotizzare la speciale tenuità del lucro conseguibile dall’imputato, «non sarebbe comunque mai soddisfatta la seconda condizione prevista dall’art. 62, n. 4, cod. pen. e cioè la speciale tenuità del danno o del pericolo conseguente all’azione», comporta null’altro che la generalizzata esclusione – sempre e comunque – dell’applicabilità dell’attenuante in esame, sulla base di considerazioni sganciate dalla concreta connotazione storica del fatto e in contrasto con la rilevata finalità del legislatore di estendere l’applicabilità dell’attenuante a tutti i delitti determinati da motivi di lucro potendo in concreto verificarsi che l’evento dannoso o pericoloso conseguente a un delitto commesso per motivi di lucro – indipendentemente dalla natura giuridica del bene protetto, e quindi anche, come del resto normativamente previsto, in materia di stupefacenti – presenti una gradualità non necessariamente superiore alla soglia della “speciale tenuità“, tanto da essere generalmente ipotizzabile, in disparte dell’oggetto giuridico tutelato, l’esenzione da pena conseguente, ex art. 131-bis cod. pen., alla particolare tenuità del fatto fermo restando però che, in ossequio al tenore letterale dell’art. 62 n. 4 cod. pen., che l’attenuante in parola è applicabile solo ai delitti,essendo essa incompatibile con le fattispecie di natura contravvenzionale (Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014, dep. 2015; Sez. 3, n. 23872 del 08/04/2009).

Di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, veniva data risposta affermativa anche al secondo quesito oggetto di contrasto relativo alla compatibilità della circostanza attenuante in esame con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 non ritenendosi condivisibile l’argomento secondo il quale il riconoscimento dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità prevista all’art. 62, n. 4, seconda parte, cod. pen. comporterebbe, in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90, la duplice valutazione del medesimo elemento e, conseguentemente, un’ingiustificata duplicazione di benefici sanzionatori.

In particolare, una volta fatto presente che, inizialmente catalogato dalla giurisprudenza di legittimità come circostanza attenuante (Sez. U, n. 9148 del 31/5/1991; Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010), l’istituto previsto dal testo originario dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309 del 1990 era stato trasformato in autonoma fattispecie di reato dal decreto-legge 23.12.2013, n. 146, convertito con modifiche dalla legge n. 10 del 21 febbraio 2014 (in questo senso, tra le altre, da ultimo, Sez. 6, n. 9892 del 28/01/2014; Sez. 4, n. 36078 del 06/07/2017; Sez. 7, n. 22398 del 26/01/2018), si osservava come tale novella rispondesse peraltro all’esigenza, da più parti segnalata, di riconoscere, a fronte del severo regime sanzionatorio previsto dalle altre norme incriminatrici contenute nel citato art. 73, diverse tipologie di condotte caratterizzate da specifiche e più adeguate previsioni edittali in funzione della loro ridotta offensività, nella consapevolezza del carattere variegato e mutevole del corrispondente fenomeno criminale e nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente al principio costituzionale di proporzionalità della pena, evitando automatismi decisori nell’adeguamento della pena al fatto (vedi, Corte cost., sentenza n. 251 del 15/11/2012 che, prima del descritto intervento normativo, aveva dichiarato incostituzionale l’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata descritta all’art. 99, comma 4, cod. pen.).

Orbene, tenuto conto del contesto normativo appena descritto, le Sezioni Unite ritenevano in primo luogo fondato il rilievo – espresso nelle argomentazioni più recentemente portate a sostegno dell’orientamento giurisprudenziale che ammette la compatibilità dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità coll’ipotesi delittuosa del fatto di lieve entità – secondo il quale la trasformazione dell’attenuante speciale originariamente prevista all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 in ipotesi di reato autonomo, come tale dotata di specifica cornice edittale, fa sì che l’attenuante comune in esame sia ormai destinata ad incidere sull’ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte sicché, in tal caso non si verifica, come paventato dall’opposto indirizzo interpretativo, alcun cumulo di benefici sanzionatori tra loro concorrenti anche perchè tale conclusione, per gli Ermellini, appariva del resto perfettamente in linea con la ratio dell’operata trasformazione normativa espressamente volta a dare consistenza ai principi costituzionali di proporzionalità e adeguatezza della pena in materia di stupefacenti conformando il sistema penale di settore alla multiforme varietà delle relative condotte e del loro effettivo disvalore ed emancipando il giudice, in tale ambito, da rigidi meccanismi di determinazione del trattamento sanzionatorio posto che l’accoglimento della opposta tesi, preclusiva dell’applicazione dell’attenuante, comporterebbe un rigido limite nella modulazione della pena al fatto storico e comporterebbe inoltre che, anche in presenza di un lucro e di un’offesa di speciale tenuità, l’imputato non possa beneficiare di un eventuale – e specificamente motivato – giudizio di bilanciamento con le aggravanti che fossero state contestate in relazione alla fattispecie di cui al citato art. 73, comma 5.

A ciò si aggiungeva l’ulteriore considerazione in base alla quale, ove il legislatore ha voluto affermare l’incompatibilità di una specifica attenuante con la nuova fattispecie delittuosa, lo ha fatto con espressa disposizione dato che, in sede di conversione del decreto legge n. 146 del 2013, la legge n. 10 del 2014 ha  modificato l’articolo 19, comma 5, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, di cui al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, stabilendo che la diminuente della minore età non opera per i delitti di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 ai fini della determinazione del limite di pena rilevante in ordine all’applicazione delle misure cautelari diverse dalla custodia in carcere nei confronti degli imputati minorenni mentre, al contrario, al momento della trasformazione dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 in fattispecie autonoma di reato, non è stata espressamente esclusa la compatibilità con la nuova ipotesi delittuosa dell’attenuante comune di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen. risultando anche per questa via confermata, in applicazione della regola ermeneutica condensata nel brocardo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, la preclusione dell’interpretazione restrittiva.

Del resto, secondo i giudici di piazza Cavour, il fatto che il riconoscimento dell’attenuante del lucro e dell’offesa di speciale tenuità comporti, in caso di condanna per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90, la duplice valutazione del medesimo elemento costituisce assunto smentito dalla diversità dei presupposti necessari per l’integrazione del fatto di lieve entità rispetto a quelli conformativi dell’attenuante comune in esame visto che, mentre la valutazione della “lieve entità” del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 è relativa alla condotta – avuto riguardo ai mezzi, alla modalità e alle circostanze dell’azione – e all’oggetto materiale del reato – in relazione alla qualità e quantità delle sostanze -, la verifica della “speciale tenuità“, rilevante per il riconoscimento dell’attenuante di cui alla seconda parte dell’art. 62, n. 4 cod. pen., attiene ai motivi a delinquere (lucro perseguito), al profitto (lucro conseguito) e all’evento (dannoso o pericoloso) del reato trattandosi, contrariamente all’asserzione posta a fondamento della tesi restrittiva, di valutazioni focalizzate su elementi tra loro ontologicamente distinti ancorché in astratto suscettibili di convergere nell’accertamento del complessivo disvalore del fatto storico tenuto conto altresì del fatto che, inoltre, in ogni caso, si tratta di valutazioni di diversa natura e diverso grado, ossia: la prima, attinente alla “lieve entità del fatto“, è unitaria e complessiva e non scandita da un ordine gerarchico degli elementi allo scopo rilevanti per ciascuno dei quali è possibile un giudizio di parziale o totale compensazione (così, da ultimo, con riferimento alla nuova fattispecie autonoma di reato, Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018); la seconda, relativa alla “speciale tenuità” del lucro e dell’offesa, indica due temi specifici e distinti suscettibili di opposte conclusioni nel medesimo caso di specie e ancorati ad un parametro di maggiore intensità e pregnanza rispetto a quello rilevante per l’integrazione della fattispecie “lieve” sicché, anche sotto questo profilo, trova conferma l’indirizzo interpretativo secondo cui l’attenuante «richiede per la sua applicazione l’esistenza di un elemento ulteriore rispetto alla tenuità dell’offesa (comune alle due norme considerate) e come tale specializzante rispetto al “fatto lieve” di cui all’art. 73, comma 5» ossia un elemento «consistente nell’essere il delitto determinato da motivi di lucro e nell’avere l’agente perseguito, o effettivamente conseguito, un lucro di speciale tenuità».

Ebbene, esclusa l’incompatibilità logica e normativa tra la fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e l’attenuante del lucro/offesa di speciale tenuità, il riconoscimento di tale attenuante nel caso concreto, per il Supremo Consesso, resta tuttavia affidato ad una puntuale ed esaustiva verifica della quale il giudice di merito deve offrire adeguata giustificazione e che dia consistenza sia all’entità del lucro perseguito o effettivamente conseguito dall’agente che alla gravità dell’evento dannoso o pericoloso prodotto dalla condotta considerata fermo restando come tale ultimo elemento debba riferirsi alla nozione di evento in senso giuridico posto che esso è idoneo a comprendere qualsiasi offesa penalmente rilevante purché essa, come concretamente accertata, si riveli di tale particolare modestia da risultare “proporzionata” alla tenuità del vantaggio patrimoniale che l’autore del fatto si proponeva di conseguire o ha in effetti conseguito.

In conclusione, veniva dunque affermato il seguente principio di diritto: “La circostanza attenuante del lucro e dell’evento di speciale tenuità è applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, compresi i delitti in materia di stupefacenti, ed è compatibile con la fattispecie di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990“.

Alla luce delle precedenti considerazioni, si rendeva pertanto necessario l’annullamento della sentenza impugnata che aveva negato al ricorrente il riconoscimento dell’invocata attenuante sulla base di una predicata ma invero non esistente, generale incompatibilità con la fattispecie di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 ed in assenza di qualsivoglia verifica in ordine alla eventuale ricorrenza, nel caso concreto, di un lucro e di un evento dannoso o pericoloso di speciale tenuità, con specifico riferimento ai connotati del fatto accertato relativo alla cessione di 2,2 grammi di hashish per un corrispettivo di 10 Euro.

Conclusioni

La decisione in oggetto è assai interessante nella parte in cui, componendosi un pregresso contrasto giurisprudenziale, viene formulato il principio di diritto secondo il quale la circostanza attenuante del lucro e dell’evento di speciale tenuità è applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, compresi i delitti in materia di stupefacenti, ed è compatibile con la fattispecie di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.

Tal che ne consegue che ben può essere applicata questa attenuante comune ove sia commesso il reato previsto da questa norma di cotale decreto presidenziale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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