L’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della mancata applicazione del medesimo beneficio della sospensione condizionale della pena se non lo ha richiesto nel corso del giudizio di appello

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(Ricorso rigettato)

(Riferimenti normativi: C.p.p. art. 597)

Il fatto

 S., con sentenza del 7 marzo 2013 emessa dal Tribunale monocratico di Castrovillari all’esito di giudizio abbreviato condizionato, veniva dichiarato responsabile del delitto previsto dall’art. 73, commi 1 e 1 -bis, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 per avere illecitamente detenuto sostanza stupefacente del tipo marijuana del peso complessivo di grammi 166, non destinata all’uso esclusivamente personale, e, con le attenuanti generiche e la riduzione per il rito, veniva condannato alla pena di tre anni di reclusione ed euro dodicimila di multa, con interdizione temporanea dai pubblici uffici, confisca e distruzione della sostanza stupefacente in sequestro.

Tale decisione, impugnata dall’imputato, era stata parzialmente riformata dalla Corte di appello di Catanzaro, giusta sentenza dell’8 maggio 2017, ferma la dichiarata responsabilità di S. per il delitto, così come contestato, con riduzione del trattamento sanzionatorio ad anni uno e giorni venti di reclusione ed euro quattromila di multa e revoca della pena accessoria, in considerazione della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, determinante la reviviscenza dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nel testo antecedente le modifiche introdotte dall’art. 4-bis d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49, che poneva limiti edittali di pena più miti per le droghe cosiddette leggere, come quella sequestrata all’imputato.

 I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 Avverso quest’ultima sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato tramite il difensore il quale deduceva i seguenti motivi di ricorso: 1) l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 125, comma 3, e 438 cod. proc. pen., 24 e 111 Cost., 73, commi 1 e 1 -bis, d.P.R. n. 309 del 1990, e il vizio di motivazione posto che illegittimamente il Tribunale aveva utilizzato, nella decisione di condanna, gli esiti delle analisi chimiche, attestanti il numero di dosi singole (738) ricavabili dalla sostanza stupefacente (marijuana) sequestrata, benché il referto degli esami, eseguiti a cura di esperti della polizia scientifica di Reggio Calabria, non fosse stato presente nel fascicolo processuale al momento della richiesta del giudizio abbreviato mentre, ad avviso del ricorrente, la Corte di appello aveva respinto tale eccezione con motivazione del tutto inadeguata essendosi limitata a richiamare la generica disponibilità del Tribunale e del Pubblico Ministero a fornire i chiarimenti richiesti dall’imputato circa il documento di analisi denunciato come assente in atti dato che tali chiarimenti non erano stati mai forniti dalle Autorità adite con la conseguente vanificazione della prova generica in punto di natura stupefacente ed entità delle pretese dosi ricavabili dalla sostanza sequestrata, non surrogabile dagli altri atti richiamati dalla Corte territoriale, inclusi nel fascicolo processuale, quali il verbale di sequestro e gli esiti delle immediate analisi eseguite dall’operatore di polizia scientifica presso il Commissariato di Castrovillari; 2) l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 125, comma 3, e 438 cod. proc. pen., 24 e 111 Cost., 73, commi 1 e 1 -bis, d.P.R. n. 309 del 1990, e il vizio di motivazione posto che la condanna sarebbe stata fondata sul mero dato ponderale della sostanza detenuta e su una motivazione insufficiente ed errata così come inidonee, a sostenere la finalità di cessione a terzi della manjuana sequestrata, sarebbero stati i seguenti elementi, valorizzati, invece, nella sentenza impugnata: il trasporto della sostanza nell’autovettura guidata dall’imputato, controllato mentre era diretto a Roma, avendo lo stesso dichiarato di aver acquistato la marijuana a Castrovillari, da dove proveniva, per la maggiore convenienza del prezzo ivi praticato; l’impossibilità di consumare personalmente tutta la sostanza sequestrata fondata sull’errato presupposto del suo deterioramento mentre il decorso del tempo ne avrebbe accresciuto, secondo il ricorrente, l’effetto drogante mentre al contrario, ad avviso del ricorrente, non era stata apprezzata l’assenza di elementi rivelatori della finalità di cessione a terzi, in ragione del mancato rinvenimento di elenchi di potenziali clienti, di strumenti di misurazione e confezionamento di dosi da destinare al commercio, di denaro illegittimamente acquisito; 3) l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 125, comma 3, e 438 cod. proc. pen., 24 e 111 Cost., 73, commi 1, 1-bis e 5, d.P.R. n. 309 del 1990, 133, 133-bis, 62-bis e 69 cod. pen. e il vizio di motivazione visto che la Corte territoriale avrebbe erroneamente escluso la qualificazione del fatto in termini di lieve entità omettendo la valutazione della modesta rilevanza oggettiva della violazione e della positiva personalità e condotta dell’imputato, unitariamente deponenti a favore della fattispecie meno grave; 4) l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 125, comma 3, e 438 cod. proc. pen., 24 e 111 Cost., 73, commi 1, 1 -bis e 5, d.P.R. n. 309 del 1990, 133, 133-bis, 62-bis e 69 cod. pen., e il vizio di motivazione atteso che, nonostante la sussistenza di tutte le condizioni per l’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, come ridotta in appello per la ripristinata disciplina sanzionatoria più favorevole, nessuna motivazione era stata resa con riguardo al riconoscimento del detto beneficio, affatto ignorato nella sentenza impugnata.

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La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

 

La Terza Sezione della Corte, investita del ricorso, dopo aver incidentalmente scrutinato i primi tre motivi, ritenendoli inammissibili, aveva rimesso gli atti alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., rilevando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sull’obbligo del giudice di appello di motivare, comunque, la mancata applicazione di ufficio della sospensione condizionale della pena.

In particolare, la Sezione rimettente aveva rilevato come un primo indirizzo interpretativo assuma che il giudice di appello non è tenuto a concedere di ufficio la sospensione condizionale della pena né a motivare specificamente sul punto, quando l’interessato si limiti, nell’atto di impugnazione e in sede di discussione, ad un generico e assertivo richiamo dei benefici di legge, senza indicare alcun elemento di fatto potenzialmente idoneo a fondare l’accoglimento della richiesta (Sez. 7, n. 16746 del 13/01/2015, omissis, Rv. 263361; Sez. 4, n. 1513 del 03/12/2013, omissis, Rv. 258487; Sez. 4, n. 43113 del 18/09/2012, omissis, Rv. 253641; Sez. 6, n. 30201 del 27/06/2011, omissis, Rv. 256560; Sez. 6, n. 7960 del 26/01/2004, omissis, Rv. 228468; Sez. 5, n. 41126 del 24/09/2001, omissis, Rv. 220254, in tema di circostanze attenuanti generiche).

Secondo un altro orientamento, invece, il giudice di appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., qualora ricorrano le condizioni previste dalla legge per l’applicazione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, tanto più quando una delle parti (anche il pubblico ministero nell’interesse dell’imputato) ne abbia fatto esplicita richiesta, con riferimento a dati di fatto astrattamente idonei al suo accoglimento e, di conseguenza, la legittimazione e l’interesse dell’imputato a dolersi, in sede di legittimità, del mancato esercizio di tale potere-dovere da parte del giudice di appello, purché siano indicati dal ricorrente gli elementi di fatto in base ai quali il giudice avrebbe potuto ragionevolmente e fondatamente esercitarlo (Sez. 3, n. 47828 del 12/10/2017, omissis, Rv. 271815; Sez. 3, n. 3856 del 4/11/2015, omissis, Rv. 266138; Sez. 5, n. 2094 del 23/10/2009, omissis, Rv. 245924; Sez. 5, n. 37461 del 20/09/2005, omissis, Rv. 232323; Sez. 6, n. 32966 del 13/07/2001, omissis, Rv. 220729).

Si rilevava a tal proposito come le due letture giurisprudenziali convergessero sulla necessità della astratta ricorrenza delle condizioni di applicazione della sospensione condizionale della pena e, dunque, sulla sussistenza del concreto interesse dell’imputato a lamentarsi dell’omessa motivazione; ove tali condizioni non sussistano (e, comunque, non siano nemmeno dedotte in sede di legittimità), il giudice di appello non è tenuto a giustificare l’omesso esercizio delle prerogative che l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. gli assegna di ufficio mentre, al contrario, se le condizioni per l’applicazione del beneficio sussistono, è comunque necessario, secondo alcune pronunce, l’impulso proveniente dall’imputato ai fini dell’esercizio del potere di applicare d’ufficio la sospensione condizionale della pena con conseguente obbligo di motivare la decisione solo in presenza di pertinente richiesta; secondo altre, invece, tale impulso non è richiesto sicché il giudice di appello è obbligato a motivare comunque le ragioni della propria decisione, qualunque essa sia, e l’omessa motivazione sul punto è censurabile con ricorso per cassazione.

Nel caso in esame, osservava la Sezione rimettente, il beneficio era astrattamente concedibile, pur in assenza di richiesta o sollecitazione da parte dell’imputato, e l’assenza di motivazione del giudice di appello, circa il mancato esercizio del suo potere di ufficio, rende rilevante la soluzione del contrasto rappresentato.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

 

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione, delimitavano il contrasto giurisprudenziale nei seguenti termini: “se il giudice dell’appello deve rendere conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena in assenza di specifica richiesta”.

Premesso ciò, gli ermellini osservavano come, secondo una prevalente e consolidata lettura, il potere riconosciuto al giudice di appello dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. di applicare, anche di ufficio, i benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. e una o più circostanze attenuanti si pone come eccezionale e discrezionale rispetto al principio generale, dettato dal primo comma dello stesso art. 597, secondo il quale l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti e, conseguentemente, il mancato esercizio di tale potere – limitato alle sole ipotesi di rilevabilità dagli atti delle condizioni e degli elementi che consentono l’applicazione dei benefici o di una o più attenuanti, senza che siano necessarie ulteriori indagini (Sez. 2, n. 6458 del 21/01/1991, omissis, Rv. 187618) – non è censurabile in cassazione, né è configurabile un obbligo di motivazione, in assenza di una specifica richiesta, oltre che nei motivi di appello, nel corso del giudizio di secondo grado (così, Sez. 1, n. 8558 del 02/05/1997, omissis, Rv. 208572); e ciò anche nel caso di condanna dell’imputato, già assolto in primo grado, su impugnazione del pubblico ministero (Sez. 3, n. 7911 del 12/08/1993, omissis, Rv. 194662) tanto perché «l’obbligo di motivazione da parte del giudice di appello sussiste soltanto in relazione a quanto dedotto con l’atto di impugnazione o, se si tratta del mancato esercizio di un potere esercitabile di ufficio – come quello relativo alla concessione di benefici ai sensi del comma 5 dell’art. 597 cod. proc. pen. – anche in relazione a quanto dedotto e richiesto in sede di discussione. Peraltro, perché sussista l’obbligo della motivazione, è necessario che la richiesta non sia generica (come nella dizione: “applicazione di tutti i benefici di legge”), ma in qualche modo giustificata con riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della richiesta stessa» (Sez. 5, n. 1099 del 26/11/1997, dep. 1998, omissis, Rv. 209683).

Chiarito ciò, si faceva altresì presente come fosse stato specularmente ritenuto fondato il ricorso per cassazione in riferimento alla mancata applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., a norma dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., riconoscendo «la legittimazione e l’interesse dell’imputato a dolersi, in sede di legittimità, del mancato esercizio del potere-dovere» del giudice poiché il ricorrente, nel corso del giudizio di appello, pur non avendo proposto motivo sul punto, aveva tuttavia specificatamente indicato gli elementi a fondamento della richiesta, ossia l’assenza di precedenti penali e la modesta entità del fatto criminoso (così, Sez. 2, n. 8418 del 02/06/1998, omissis, Rv. 211189) rilevandosi al contempo come le ragioni di tale orientamento della giurisprudenza sul tema di interesse, con riferimento proprio ad un caso di mancato esercizio del potere di applicare di ufficio la sospensione condizionale della pena a favore di imputato, tra l’altro infraventunenne, fossero state più diffusamente esposte nella sentenza della Sezione Seconda, n. 15930 del 19/02/2016, omissis, Rv. 266563, che a sua volta aveva ritenuto infondato il motivo di ricorso inerente alla omessa applicazione del beneficio poiché «è pur vero che il giudice di appello è titolare del potere di applicare d’ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena ex art. 597, comma 5, cod. proc. pen., ma si tratta di un potere eccezionale e discrezionale […] per cui la parte che ha un autonomo potere di chiedere l’applicazione del beneficio, non è legittimata ad impugnare la sentenza d’appello a motivo del mancato esercizio di tale potere, se non abbia formulato […] la corrispondente richiesta; né può costituire motivo di ricorso per cassazione, ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen., l’omessa motivazione circa il mancato esercizio, ex officio, di tale potere. Infatti l’obbligo di motivazione del giudice di appello sussiste soltanto in relazione a quanto dedotto con l’atto di impugnazione o, se si tratta del mancato esercizio di un potere d’ufficio […], anche a quanto dedotto e richiesto in sede di discussione dovendo la parte manifestare un interesse concreto all’applicazione del beneficio. Peraltro, perché sussista l’obbligo di motivazione è necessario che la richiesta non sia generica i ma in qualche modo giustificata con riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della richiesta stessa» (in senso sostanzialmente conforme alla interpretazione prevalente v., Sez. 3, n. 23228 del 12/04/2012, omissis, Rv. 253057; Sez. 6, n. 6880 del 27/01/2010, omissis, Rv. 246139; Sez. 6, n. 22120 del 29/04/2009, omissis, Rv. 243946; Sez. 6, n. 7960 del 26/01/2004, omissis, Rv. 228468; Sez. 3, n. 21273 del 18/03/2003, omissis, Rv. 224850; Sez. 5, n. 41126 del 24/09/2001, omissis, Rv. 220254).

Si evidenziava invece come fosse risultato non esplicitato il principio di diritto affermato nella sentenza delle Sezioni Unite, n. 10495 del 09/10/1996, omissis, Rv. 206175, «in tema di non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale», là dove si sostiene lapidariamente che «il giudice di secondo grado, in assenza di richiesta dell’impugnante, non ha alcun dovere di motivare il mancato esercizio del potere discrezionale, conferitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., di applicare d’ufficio il beneficio, né tale mancato esercizio può costituire motivo di ricorso per cassazione».

Enunciato ciò, si denotava come la tesi favorevole alla possibilità che vi possa essere un’interesse del ricorrente all’applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena che potrebbe anche non sussistere nel caso concreto, rendendo paradossalmente impugnabile il positivo esercizio da parte del giudice di appello, senza alcuna richiesta di parte, del potere ufficioso di applicazione, fosse rinvenibile nelle sentenze della Sez. 6, n. 30201 del 27/06/2011, omissis, Rv. 256560, e della Sez. 3, n. 28690 del 09/02/2017, omissis, Rv. 270587, quest’ultima richiamante anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite (n. 6563 del 16/03/1994, omissis, Rv. 197535), che aveva riconosciuto l’interesse dell’imputato ad impugnare l’applicazione (non richiesta) della sospensione condizionale della pena «tutte le volte in cui il provvedimento di concessione del beneficio sia idoneo a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa».

A fronte di ciò, si faceva però presente come una diversa lettura dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. potesse prendere avvio dalla sentenza della Sez. 6, n. 32966 del 13/07/2001, omissis, Rv. 220729, relativa ad un caso di riforma di pronuncia assolutoria con condanna degli imputati in appello, senza applicazione dei benefici, sebbene il pubblico ministero appellante, nella discussione orale, ritenendo sussistenti le condizioni previste dalla legge, avesse richiesto l’applicazione dei benefici di legge atteso che la suddetta decisione prendeva esplicita posizione dissenziente dalla precedente giurisprudenza circa l’assenza di obbligo di motivazione, in capo al giudice di appello, che, pur ricorrendone le condizioni, in mancanza di espressa richiesta dell’imputato, non eserciti il suo potere ufficioso di applicazione dei benefici, confutando sia l’automatico nesso – affermato o presupposto dalla giurisprudenza prevalente – tra discrezionalità e assenza di obbligo di motivazione, sulla base della considerazione che un potere discrezionale non è un dovere; sia la funzione esclusivamente endoprocessuale attribuita alla motivazione, correlata alle richieste rivolte al giudice dalla parte potenzialmente interessata all’esercizio del potere ufficioso.

Secondo la sentenza in esame, rilevava la Corte nella pronuncia in commento, sarebbe stato aperto un varco nella giurisprudenza già consolidata in senso contrario nel senso che «solo in presenza della motivazione è possibile il controllo di legalità sull’esercizio del potere del giudice sia all’interno del processo (funzione e valore endoprocessuale della motivazione come garanzia interna), sia all’esterno di esso (valore e funzione extraprocessuale della motivazione come condizione di controllo democratico e come fattore di pubblicità e di responsabilità)» sostenendosi al riguardo che in mancanza della richiesta dei benefici da parte dei difensori degli imputati – nella specie erano entrambi incensurati, di età avanzata e condannati a pene lievi – ritenere che non sussista l’obbligo di motivare sul mancato esercizio del potere-dovere di concedere i benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. «implica l’adesione ad una concezione della giurisdizione fortemente potestativa e riduttivamente formale, anziché garantistica e conforme al principio costituzionalizzato dall’art. 111, sesto comma, Cost., che nella motivazione della decisione giudiziaria individua il valore e il connotato specifico del potere giurisdizionale».

Tal che se ne faceva conseguire come il giudice di appello debba, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere, attribuitogli dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., tanto più quando una delle parti (anche il pubblico ministero nell’interesse dell’imputato) ne abbia fatto esplicita richiesta; pertanto sussiste la legittimazione e l’interesse dell’imputato di dolersi, in sede di legittimità, del mancato esercizio di tale potere dovere del giudice di appello purché egli indichi gli elementi di fatto in base a cui il giudice avrebbe potuto ragionevolmente e fondatamente esercitare il suo potere dovere deducendosi al contempo come altre sentenze successive si fossero iscritte nello stesso filone interpretativo: in particolare, Sez. 6, n. 12839 del 10/02/2005, omissis, Rv. 231431 (di annullamento con rinvio di sentenza di condanna, in riforma di giudizio assolutorio di primo grado, senza esercizio del potere del giudice di appello di applicare la sospensione condizionale della pena, “in assenza di specifiche deduzioni” di entrambe le parti, privata e pubblica); Sez. 5, n. 37461 del 20/09/2005, omissis, Rv. 232323 (nella quale si afferma il medesimo principio, dandosi atto peraltro che il beneficio era stato espressamente richiesto dalla difesa in sede di conclusioni rassegnate in udienza); Sez. 5, n. 40865 del 25/09/2007, omissis, Rv. 238187 (in un caso di condanna in primo grado a pena pecuniaria per reato erroneamente ritenuto di competenza del giudice di pace, riformata in appello, su impugnazione del pubblico ministero, con condanna a pena detentiva non sospesa, pur ricorrendone in astratto le condizioni, in assenza di specifiche deduzioni delle parti); Sez. 6, n. 3917 del 08/01/2009, omissis, Rv. 242527 (fattispecie di condanna in appello su impugnazione del pubblico ministero senza esercizio del potere ufficioso di applicare i doppi benefici di legge, in mancanza di qualsiasi – subordinata – deduzione di parte a fronte di una richiesta difensiva di mera conferma della decisione assolutoria del primo giudice); Sez. 5, n. 2094 del 23/10/2009, dep. 2010, omissis, Rv. 245924 (caso di pena ridotta in appello in misura compatibile con il beneficio della sospensione, non preso in considerazione dal giudice, a fronte dell’appello dell’imputato che aveva genericamente chiesto, insieme ad una diversa qualificazione dei reati, la riduzione della pena al minimo “con i doppi benefici di legge”); Sez. 6, n. 14758 del 27/03/2013, V.G., Rv. 254690 e Sez. 5, n. 5581 del 08/10/2014, dep. 2015, omissis, Rv. 264215 (entrambe in fattispecie di riforma della pronuncia assolutoria, su appello del pubblico ministero, senza esercizio del potere ufficioso di applicazione della sospensione condizionale della pena, astrattamente concedibile, in assenza di specifica deduzione dell’imputato che non aveva avuto ragione di dolersi della pronuncia di primo grado).

Esaminando queste pronunce, le Sezioni Unite mettevano in risalto il fatto che le sentenze valorizzanti il potere-dovere del giudice di appello di motivare l’esercizio positivo o negativo del potere ufficioso di applicare benefici o attenuanti, indipendentemente da specifica richiesta di parte, riguardavano specialmente i casi di reformatio in peius della sentenza di primo grado, in accoglimento di impugnazione del pubblico ministero, poiché in tale ipotesi il giudice di secondo grado, «trovandosi di fronte a una richiesta di radicale riforma di una pronuncia ampiamente favorevole al prevenuto, nel momento in cui addiviene alla decisione di accoglierla, non poteva non dare specifico conto del grado di estensione di tale accoglimento e, quindi, sotto tale profilo, spiegare perché esso non sia contenuto, ove ne sussistano i presupposti legali, nei limiti di una condanna condizionalmente sospesa» (così, Sez. 6, n. 12839 del 2005, omissis, cit.).

Terminato questo excursus giurisprudenziale, i giudici di legittimità ordinaria ritenevano di dover dare al quesito proposto una risposta articolata che necessariamente comprendesse tutti i casi previsti dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., dall’applicazione della sospensione condizionale della pena (art. 163 cod. pen.) e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (art. 175 cod. pen.), al riconoscimento di una o più attenuanti (artt. 62, 62-bis, cod. pen.), con effettuazione del giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 cod. pen., “quando occorre”, ossia subordinatamente all’applicazione di ufficio da parte del giudice di appello di nuove circostanze attenuanti, tali da imporre, nuovamente o per la prima volta (se in precedenza erano state applicate solo circostanze aggravanti), il giudizio di comparazione (Sez. U, n. 7346 del 16/03/1994, omissis, Rv. 197700).

Nel far ciò, si stimava opportuno, in via preliminare, delimitare l’ambito della questione dibattuta.

A tal riguardo si evidenziava come ad essa fossero ovviamente estranei i casi in cui il giudice di primo o di secondo grado, anche di ufficio, abbia vagliato l’applicazione dei benefici e, segnatamente, della sospensione condizionale della pena, riconoscendola o escludendola con conseguente facoltà della parte interessata di impugnare specificamente il corrispondente punto della decisione nel rispetto delle disposizioni generali in materia di impugnazioni e, quanto al ricorso per cassazione, negli stretti limiti in cui tale mezzo è ammesso.

Da ciò se ne faceva discendere come il quesito proposto investa esclusivamente il mancato esercizio del detto potere ufficioso nel giudizio di appello e le conseguenze da esso discendenti in termini di tutela dell’interesse delle parti al suo effettivo esercizio essendo pacifico che il difetto di esercizio di esso in primo grado è denunciabile con specifico motivo di appello e, ove ciò non avvenga, non preclude il potere del secondo giudice di esercitarlo, appunto, di ufficio a norma dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen..

Premesso ciò, e una volta ribadito che tale potere costituisce una deroga al principio devolutivo che conosce altre, non poche, eccezioni (tra cui il difetto di giurisdizione, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento; l’incompetenza per materia, anch’essa rilevabile in ogni stato e grado del processo, salvo quanto previsto dagli artt. 21, comma 3, e 23, comma 2 cod. proc. pen.; la dichiarazione immediata di cause di non punibilità, indipendentemente dall’oggetto dell’impugnazione e, dunque, anche quando, per addivenire al proscioglimento, sia necessario l’esame di punti della sentenza non appellati; l’errore di persona relativo all’imputato; la morte del reo; la declaratoria di nullità assolute e di quelle di tipo intermedio rilevabili di ufficio nei limiti dell’art. 180 cod. proc. pen.; l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge; la sentenza di proscioglimento nel caso di procedimento iniziato in violazione del divieto di bis in idem; la questione di legittimità costituzionale che “può essere sollevata di ufficio dall’autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio”; la violazione del principio di legalità della pena; l’applicazione della legge più favorevole), i giudici di piazza Cavour sottolineavano che la peculiarità della deroga prevista dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. al principio devolutivo enunciato dal comma 1 dello stesso articolo, secondo il quale l’ambito della cognizione del giudice di appello è limitato ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, risiede proprio nella sua eccezionalità che si coniuga con la discrezionalità del giudice nell’ordinare i benefici previsti dagli artt. 163, 164 e 175 cod. pen. avuto riguardo, in entrambi i casi, alle circostanze indicate nell’art. 133 cod. pen., e con lo scrutinio di merito postulato dal riconoscimento di nuove circostanze attenuanti – comuni, generiche, ad effetto speciale (artt. 62, 62-bis e 63, terzo comma, cod. pen.) – con eventuale giudizio di comparazione; e ciò diversamente dalle altre eccezioni al medesimo principio devolutivo, già sopra compendiate, che sono invece imposte dal rilievo ordinamentale e inderogabile delle norme da osservare.

Posto ciò, si evidenziava come tale discrezionalità, che rimanda ad un “potere” non vincolato al suo esercizio diventa un “dovere” del giudice di appello, da esercitare indipendentemente da specifiche deduzioni di parte, secondo una parte della giurisprudenza citata, in presenza di particolari condizioni, ravvisate nella sopravvenuta attualità dei presupposti di applicazione dei benefici di legge, non sussistenti nel primo giudizio, o perché definito con sentenza di proscioglimento (non doversi procedere, assoluzione), riformata in appello, su impugnazione del pubblico ministero, con pronuncia di condanna; oppure per la qualità di pena irrogata incompatibile con la sospensione condizionale della pena (art. 60 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274), con ritenuta competenza del tribunale, nel giudizio di appello, e conseguente irrogazione di pena per cui è, invece, ammesso il beneficio; o ancora per la misura edittale della sanzione al tempo della prima decisione, eccedente i limiti di ammissibilità della sospensione condizionale della pena, con sopravvenuto mutamento in melius della norma sanzionatoria, tale da consentire, in appello, l’applicazione del beneficio (cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 32966 del 2001, omissis, cit.).

Una volta terminata la disamina di questa norma procedurale, La Corte stimava come fosse corretto riconoscere l’esercizio del potere del giudice di appello, in tema di applicazione dei benefici di legge (o di una o più attenuanti), come un “dovere“, in presenza di elementi di fatto che ne consentano ragionevolmente l’esercizio, tanto più se divenuti attuali proprio nel giudizio di appello fermo restando che se è vero che tale potere-dovere, essendo espressamente attribuito al giudice, “di ufficio“, dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., non postula, per definizione, la necessaria iniziativa o sollecitazione di parte, espressa in una richiesta specifica anche solo in sede di conclusioni nel giudizio di appello, è altrettanto vero che l’esercizio di esso va correlato sia al suo fondamento normativo che lo pone come “eccezione” al generale principio devolutivo che governa il giudizio di appello, sia al contenuto “discrezionale” del suo oggetto che postula, ai fini dell’applicazione dei benefici come del riconoscimento di attenuanti, valutazioni di puro merito.

Orbene, ad avviso della Corte, lo stretto nesso tra ufficiosità, eccezionalità e discrezionalità del potere dovere attribuito al giudice di appello esclude che il suo mancato esercizio possa configurare un vizio deducibile in cassazione; in particolare, la non decisione sul punto non costituisce violazione di norma penale sostanziale (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) e, neppure, violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.) tale non essendo l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen.; soprattutto la “non decisione“, in appello, sui benefici di legge non è denunciabile come vizio di motivazione per mancanza (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.) laddove la parte – che avrebbe potuto sollecitarne l’esercizio, in relazione ai possibili sviluppi del processo di secondo grado ancorché preceduto da giudizio assolutorio o incompatibile con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena- non abbia richiesto, senza averne fatto (o potuto fare) motivo di impugnazione, l’applicazione del beneficio nel corso del medesimo giudizio di appello.

Difatti, secondo il Supremo Consesso, il vizio di motivazione denunciabile con ricorso per cassazione – diverso dal caso, estraneo a quello in esame, di assenza grafica o mera apparenza di motivazione integrante violazione di legge processuale espressamente sanzionata a pena di nullità dall’art. 606, comma 1, lett. c), in relazione all’art. 125, comma 3, cod. proc. pen. – rimanda al contenuto della motivazione come delineato dall’art. 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., norma che, sia nel testo vigente al tempo dell’emissione della sentenza impugnata -prima dell’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017, n. 103, che ha ampliato il contenuto della suddetta lettera e) – , sia nel testo attuale, non prevede che «la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata» debba aver riguardo anche alla possibile applicazione dei benefici di legge strutturando piuttosto la motivazione in chiave dialettica con l’espresso richiamo all’indicazione delle prove poste a base della decisione e all’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice non abbia ritenuto attendibili le prove contrarie (così il testo dell’art. 546, comma 1, lett. e), nel testo vigente al tempo della sentenza impugnata).

Tal che se ne faceva conseguire come il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale “non decisione“, non possa costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall’imputato nel giudizio di primo grado posto che, in caso di reformatio in peius, il giudice di appello «ha l’obbligo di confutare in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione di assoluzione e di valutare le ulteriori argomentazioni non sviluppate in tale decisione ma comunque dedotte dall’imputato dopo la stessa e prima della sentenza di appello, pronunciandosi altresì su violazioni di legge intervenute nel giudizio di primo grado in danno dell’imputato e da questi non dedotte per carenza di interesse in appello, nonché sulle richieste subordinate avanzate dall’imputato stesso in sede di discussione nel giudizio di primo grado» (così, Sez. 6, n. 22120 del 29/04/2009, omissis, Rv. 243946), ivi inclusa l’istanza di applicazione dei benefici di legge e, segnatamente, della sospensione condizionale della pena.

Oltre a ciò, si faceva altresì presente come la soluzione indicata apparisse coerente con il sistema di processo di parti del codice di rito e rispettosa, in particolare, della struttura del beneficio in esame che postula un interesse del potenziale destinatario non sempre favorevole alla sua applicazione, e ciò anche alla luce delle sentenze delle Sezioni Unite della Corte che, già nel vigore del precedente codice di rito come di quello attuale, avevano riconosciuto «il diritto dell’imputato di impugnare il provvedimento con cui gli sia stata concessa la sospensione condizionale della pena e di ottenere la revoca di tale beneficio qualora da esso possa derivargli anziché un vantaggio la lesione di un diritto o di un interesse giuridico» (Sez. U, n. 12234 del 23/11/1985, omissis, Rv. 171394); «la sospensione condizionale, infatti, non può risolversi in un pregiudizio per l’imputato in termini di compromissione del carattere personalistico e rieducativo della pena», fermo restando che «il pregiudizio addotto dall’interessato in tanto è rilevante in quanto non attenga a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico, ma concerna interessi giuridicamente apprezzabili in quanto correlati alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella “individualizzazione” della pena e nella sua finalizzazione alla reintegrazione sociale del condannato» (così Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, omissis, Rv. 197535).

La Suprema Corte, pertanto, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, formulava il seguente principio di diritto: “Fermo il dovere del giudice di appello di motivare il mancato esercizio del suo potere di ufficio di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena, in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, specialmente se sopravvenute al giudizio di primo grado, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della mancata applicazione del medesimo beneficio se non lo ha richiesto nel corso del giudizio di appello“.

Posto ciò, da questo principio di diritto la Corte di Cassazione ne faceva derivare l’infondatezza del quarto motivo con cui il ricorrente aveva lamentato l’assenza di ogni motivazione sulla mancata applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena visto che deve escludersi ogni ipotesi di violazione di legge o di difetto di motivazione, sia per il mancato esercizio del potere del giudice di appello di applicare di ufficio la sospensione, sia per la omessa giustificazione al riguardo, in quanto l’imputato, nel corso del giudizio di secondo grado, non avevs fatto alcuna richiesta in ordine al beneficio previsto dall’art. 163 cod. pen.

Gli altri motivi, a loro volta, venivano dichiarati inammissibili.

 

Conclusioni

 

Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite hanno postulato che, fermo il dovere del giudice di appello di motivare il mancato esercizio del suo potere di ufficio di applicare il beneficio della sospensione condizionale della pena, in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, specialmente se sopravvenute al giudizio di primo grado, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della mancata applicazione del medesimo beneficio se non lo ha richiesto nel corso del giudizio di appello.

Pertanto, in virtù di questo arresto giurisprudenziale, è necessario che il mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena debba essere oggetto di specifica doglianza da parte dell’imputato non potendo costui, per il tramite del suo difensore, ricorrere per Cassazione lamentandosi di tale mancato riconoscimento senza che ciò sia stato fatto nei precedenti gradi di giudizio.

Alla luce di quanto statuito in tale decisione, dunque, deve essere cura del difensore chiedere il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena nel giudizio di appello, non potendo farsi ciò per la prima volta innanzi alla Corte di Cassazione.

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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