Quali i limiti ed i poteri del giudice di appello in caso di applicazione illegale, e di favore, della pena per l’imputato, in assenza di impugnazione della parte pubblica?

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La – problematica – interazione reciproca tra principio devolutivo e divieto di reformatio in peius

Nota a commento della Ordinanza n° 27711/2020 della Corte di Cassazione, Prima Seconda Penale, emessa all’udienza del 30.9.2020 e depositata il 6.10.2020.

Introduzione. Il caso concreto e la ordinanza di rimessione della questione.

L’ordinanza n° 27711/2020 della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite una nuova questione, che verrà decisa alla udienza del 17.12.2020, di notevole interesse.

Prima di analizzare, più ampiamente, la tematica e le questioni, più generali, che la fattispecie processuale pone e sottende (la reciproca interazione tra il principio devolutivo e il divieto di reformatio in peius in caso di pena illegale di favore per l’imputato, ulteriormente complicata dall’obbligo, previsto dall’art. 597 4° co. c.p.p. di ridurre corrispondentemente la pena in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato su circostanze o reati concorrenti), occorre analizzare il caso sottoposto a giudizio.

Il Sig. T.A. è stato condannato, dal giudice di primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di mesi 2 di arresto per la contravvenzione di cui all’art. 699 c.p., per aver portato fuori dalla propria abitazione un coltello a serramanico con una lama della lunghezza di 11 cm.

Avverso detta sentenza ha proposto appello il solo imputato, che ha posto il tema della qualificazione giuridica attribuita al fatto – ritenuto integrare l’art. 4 L. 110/1975 – richiedendo l’applicazione della attenuante della lieve entità e che, in via subordinata, ha chiesto la riduzione della pena eccependo che il giudice di primo grado gli aveva comunque applicato una pena illegale per un reato contravvenzionale quale quello ritenuto in sentenza operando una riduzione della pena inflitta, per il rito abbreviato, soltanto di un terzo e non invece della metà come previsto dalla legge.

La Corte d’Appello, investita delle suddette questioni, ha ritenuto di dover attribuire al fatto una qualificazione giuridica diversa (rispetto a quella ritenuta nella sentenza di primo grado), inquadrandolo ai sensi dell’art. 4 L. 110/1975, ma ha escluso di doverlo ritenere particolarmente tenue.

Venendo al tema della illegalità della pena applicata dal primo giudice (con una riduzione di un terzo, anziché della metà, come per legge, per il rito abbreviato), la Corte di Appello ha convenuto con la difesa sulla fondatezza del motivo proposto sul punto.

Tuttavia, la Corte Distrettuale ha ritenuto di dover confermare la pena applicata dal primo giudice – senza ridurre, quindi, la pena in accoglimento del motivo dell’imputato – in quanto la riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 4 L. 110/1975, pur con la riduzione nella misura massima prevista ex lege per il giudizio abbreviato, avrebbe comportato l’applicazione di una pena più grave per quantità rispetto a quella inflitta in prime cure (che si connota per la sua illegalità di favore per l’imputato, in quanto la sentenza, pur ritenendo il fatto sussumibile nella cornice edittale di cui all’art. 669 comma 2 c.p., aveva finito per applicare la pena, illegale, prevista dal comma 1 del medesimo articolo, errando, per di più, nel non ridurla della metà anziché di un terzo per il rito abbreviato come eccepito dalla difesa).

Contro questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la difesa dell’imputato, lamentando vizio di violazione di legge e di motivazione, nella parte in cui la Corte d’Appello, operando una indebita commistione tra motivi e pur ritenendo fondato quello proposto dalla difesa, non ha ridotto la pena applicata nella misura prevista dalla legge, della metà, in caso di condanna all’esito di giudizio abbreviato per un reato contravvenzionale.

Il quesito è stato, pertanto, posto alle SS.UU. dalla Sezione Remittente nei seguenti termini:

“Se il giudice d’appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con rito abbreviato per reato contravvenzionale e condannato a pena ridotta di un terzo invece che della metà, debba disporre l’applicazione della diminuente nella misura di legge anche quando la pena inflitta dal giudice di primo grado sia illegale perché in violazione delle previsioni edittali e di favore per l’imputato”.

In attesa della decisione delle SS.UU., non sembra inutile interrogarsi sul significato e sulla portata dei quesiti posti, in modo da tentare di individuare le possibili soluzioni agli stessi e verificare la loro tenuta dal punto di vista giuridico.

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Le questioni controverse: i “nodi al pettine” delle SS.UU. Penali.

Volendo semplificare all’estremo, le questioni controverse poste dall’ordinanza di rimessione, che reciprocamente interagiscono e si intrecciano tra di loro, sono due:

1) Quali sono i poteri del giudice di appello in caso di applicazione di pena illegale di favore per l’imputato che non sia stata impugnata dalla parte pubblica?

2) Quali sono i limiti ed i poteri della Corte di Appello dettati dalla reciproca interazione di principi quali quello devolutivo – destinato ad operare o meno e fino a che punto in caso di mancata impugnazione del capo o punto della sentenza relativo al trattamento sanzionatorio “illegale” a favore dell’imputato ad opera della parte pubblica – ed il divieto di reformatio in peius, specialmente quando l’appello dell’imputato lamenti l’omessa e/o non integrale applicazione di una diminuente fissa nella misura di legge sulla pena – già di per sé – illegale nel suo favor e che debba invece essere applicata in caso di accoglimento dell’appello della difesa, ex art. 597 4° co. c.p.p. ?

La prima questione pone il tema (ampio) dei limiti alla modificabilità della pena illegale applicata all’imputato da parte del giudice di appello, in ossequio al principio devolutivo, in assenza di impugnazione della parte contro-interessata.

Se, infatti, non vi è dubbio che non vi siano limiti alla modificabilità della pena illegale sfavorevole all’imputato – che sia tale ab origine o per fatti sopravvenuti (l’ordinanza di rimessione da ampio conto della consolidata giurisprudenza di legittimità che non pone limiti alla possibilità di un intervento correttivo sulla pena “illegale” che sia sfavorevole all’imputato, tanto nel giudizio di legittimità pur in presenza di ricorso inammissibile ma tempestivo, quanto in sede esecutiva, ricordando la rilevabilità dell’ufficio della questione e richiamando le ragioni che rendono necessario un intervento correttivo sulla dosimetria della pena che la riconduca alla misura legale al fine di garantirne l’equità ed assicurarne la funzione rieducativa) – la possibilità di intervenire sulla pena illegale di favore per l’imputato, specialmente in assenza di impugnazione del pubblico ministero, modificandola, è oggetto di maggiori discussioni.

Da un lato vi è un orientamento che, valorizzando la mancata proposizione dell’appello da parte del P.M. del capo o punto della sentenza che abbia applicato la pena “illegale” di favore per l’imputato, nega la possibilità di una modifica peggiorativa – anche se ciò dovesse comportare la sua riconduzione alla misura legale – sulla pena per non essersi prodotto quell’effetto devolutivo che è necessario presupposto di una impugnazione esistente ed ammissibile e la cui mancanza preclude alla Corte d’appello l’esame della questione che non rientra perciò nei suoi poteri e non è di natura officiosa ed adducendo anche la circostanza che ciò comporterebbe comunque la violazione del divieto di reformatio in peius, finendo per concludere che anche la pena illegale di favore per l’imputato (se una attenuante non è stata applicata nella misura di legge nella sentenza impugnata e tale diniego è stato impugnato dall’imputato con l’appello) possa – e debba – invece essere ulteriormente ridotta in melius in caso di accoglimento dell’appello della difesa da parte della Corte di appello che lo abbia ritenuto fondato ex art. 597 comma 4 c.p.p.

Dall’altro, vi è un orientamento che invece nega la possibilità di un ulteriore intervento correttivo, migliorativo, sulla pena illegale, di favore, già concessa all’imputato, anche in assenza di impugnazione del P.M. e pur in presenza di un appello proposto dal solo imputato (che lamenti l’illegalità, sotto altro profilo, della misura della pena per l’applicazione di una diminuente in misura inferiore a quella di legge) e che sia fondato sotto tale profilo, in quanto la presenza di un errore sulla misura legale della pena a favore dell’imputato precedentemente commesso non autorizzerebbe ad “amplificare” tale errore commettendone un altro e non imporrebbe la riduzione di una pena già illegale di per sé per la sua natura indebitamente vantaggiosa per il condannato.

La seconda questione pone il tema (ulteriore ma connesso al precedente) della reciproca interazione tra il principio devolutivo e l’effetto che produce la proposizione dell’impugnazione, ammissibile e specifica, nella individuazione dei poteri della corte di appello e nella definizione dei limiti del suo (legittimo) intervento sulle statuizioni decisorie della sentenza di primo grado, da un parte, ed il divieto di reformatio in peius di cui all’art. 597 comma 3 c.p.p., quando appellante sia il solo imputato, e l’obbligo di riduzione della pena in misura corrispondente in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato in relazione a circostanze ex art. 597 comma 4 c.p.p., dall’altra.

La questione si complica ancora di più quando l’accoglimento dell’appello dell’imputato abbia ad oggetto non  circostanze soggette ad una valutazione discrezionale (nella loro applicazione) da parte del giudice della impugnazione o ad un giudizio di bilanciamento che comunque implica l’esercizio di un potere di natura valutativa da parte del giudice ma che, invece ed al contrario, devono essere applicate in misura fissa ed automatica per essere la loro “quantità di riduzione” espressamente prevista dalla legge (come ad esempio, nel caso in esame, in cui si controverte della applicazione della diminuente del rito abbreviato che è prevista, in misura fissa, per le contravvenzioni, nella metà).

Questi sono i temi in discussione, che verranno proposti all’attenzione delle SS.UU., di portata ben più ampia e generale, al di là della cornice fattuale (indubbiamente singolare) all’interno della quale si inscrivono e che, a ben vedere, non lascia facilmente prevedere come il processo penale de quo sarà deciso dal giudice di legittimità per la molteplicità di sviste commesse, appunto, dal giudice di primo grado nella sentenza; errori che potrebbero finire per condizionare la decisione delle SS.UU. nella individuazione e creazione del principio di diritto su temi, già di per sé, così complessi e articolati e caratterizzati da una reciproca e difficoltosa interazione “di base”.

Valutazioni conclusive (necessariamente provvisorie).

Non resta a questo punto che attendere la decisione delle SS.UU. Penali, alla udienza del 17.12.2020, affinché sciolga i dubbi sopra espressi.

Tuttavia, è possibile (ed anche opportuno) tentare di anticipare una possibile soluzione al quesito, sulla base di un ragionamento logico giuridico che tenga conto dei diversi istituti in rilievo nel caso in esame ed in fattispecie analoghe a quella sottoposta a giudizio (effetto e principio devolutivo, da un lato, divieto di reformatio in peius ed obbligo di riduzione della pena in misura corrispondente all’accoglimento dell’appello dell’imputato su circostanze, dall’altro).

In presenza di una pena di favore, anche se illegale, per l’imputato, non vi sono (ad avviso dello scrivente) convincenti ragioni giuridiche che possano consentire un intervento correttivo, ufficioso, della Corte di appello, anche quand’anche esso fosse finalizzato a ripristinare la misura legale della pena e a ricondurla nella cornice edittale prevista dalla norma incriminatrice.

L’ostacolo a un simile intervento officioso deriva, ancor prima che dal divieto di reformatio in peius di cui all’art. 597 comma 3 cpp (che preclude l’applicazione di una pena di specie o quantità più grave di quella irrogata dal primo giudice quando appellante è il solo imputato), dal principio ed effetto devolutivo che si deve attribuire all’appello ai sensi e per gli effetti dell’art. 597 comma 1 cpp.

Infatti, proprio perché l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, se ne deve dedurre che se non viene presentato appello da parte del P.M. avverso il punto o capo della decisione che applica la pena illegale di favore per l’imputato non può esservi devoluzione della relativa questione alla Corte di appello che non ha, dunque, poteri di intervento correttivi e modificativi sulla pena applicata dal primo giudice.

Questa è la logica conclusione che si impone dalla applicazione del principio secondo cui tantum devolutum quantum appellatum.

Non c’è spazio, dunque, per una soluzione diversa della questione, se non volendo snaturare la natura e forma del giudizio di appello, la cui instaurazione è legata alla predisposizione di un atto (quale l’appello)  che si presta ad essere definito come una critica alle statuizioni rese da un precedente giudice che con essa dialoga e censura; una critica vincolata e “vincolante” sia per la parte processuale che lo propone e per chi vi contraddice, da un lato, sia per la Corte, dall’altro, essendo evidente che l’appello fissa (se rispettoso dei requisiti di ammissibilità e specificità che esso deve, necessariamente, possedere onde consentire l’effettiva instaurazione del rapporto processuale e la maturazione di eventuali cause estintive del reato) anche i limiti di intervento e i conseguenti poteri modificativi/correttivi della Corte di Appello che su di esso è chiamata a pronunciarsi.

Pertanto, è il principio devolutivo dell’appello – prima ancora che il divieto di reformatio in peius – che dovrebbe precludere qualunque intervento manipolatorio officioso della Corte di appello sulla pena di favore applicata all’imputato, anche quando essa sia stata determinata in misura inferiore a quella prevista dalla previsione edittale e, quindi, sia da considerarsi, a stretto rigore, “illegale”, quando non vi sia stato appello della parte pubblica che non può che essere ritenuta la parte contro-interessata e che è pertanto onerata di reagire al fine di sollevare la questione e “devolverla” alla Corte di Appello, alla quale – coerentemente – sarebbe altrimenti preclusa di esaminarla.

Diversa dovrebbe essere, invece, la soluzione da dare all’altro quesito, e cioè se il principio devolutivo imponga (e renda obbligatoria, in base all’art. 597 comma 4 c.p.p.) la riduzione della pena applicata quando si debba accogliere l’appello dell’imputato su una circostanza che sia stata omessa o applicata in misura inferiore a quella prevista dalla legge dal giudice di primo grado, anche quando quest’ultimo abbia comunque applicato una pena illegale di favore al prevenuto.

Se l’accoglimento dell’appello, infatti, riguarda una circostanza che va applicata in misura fissa ed automatica, senza che residuino poteri discrezionali e valutativi del giudice (come quella per il rito abbreviato), l’accoglimento dell’appello dell’imputato – ad avviso dello scrivente – comporterebbe l’obbligo di ridurre la pena in misura corrispondente pur quando la sua applicazione sia stata di favore per l’imputato ed inferiore alla misura legale.

Gli argomenti utilizzati dall’indirizzo giurisprudenziale citato nella ordinanza di rimessione – per negare la vincolatività o, comunque, l’obbligatorietà della riduzione della pena in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato sulla circostanza, in caso di illegalità della pena finale determinata – non appaiono convincenti nella misura in cui, con la scusa di voler impedire un ulteriore errore rispetto ad una pena che presenta già i caratteri di illegalità favorevole per il prevenuto amplificandone gli effetti in modo ingiusto, realizzano una violazione di legge, in specie dell’art. 597 comma 4 c.p.p., negando una riduzione di pena all’imputato a cui lo stesso, invece, ha diritto per legge.

In altre parole, tale soluzione non risulta soddisfacente proprio perché, prendendo spunto dalla illegalità del trattamento sanzionatorio di favore di cui ha già beneficiato l’imputato per negare la riduzione di pena che gli spetta per l’accoglimento del motivo di appello proposto, realizza, essa stessa, una violazione di legge, di fronte alla quale appare discutibile che la Corte di Appello non possa intervenire, anche di fronte ad un trattamento sanzionatorio che sia illegalmente favorevole “in partenza”, andando ad eseguire una correzione rientrante nei suoi limiti e poteri per essere stato alla stessa devoluto con la proposizione di un motivo ammissibile e specifico e che, invece e diversamente ragionando, dovrebbe ignorare e non esaminare incorrendo nel vizio di omessa pronuncia o di violazione di legge essa stessa.

Pertanto, nel caso di specie, dovrebbe (ad avviso dell’autore) concludersi per l’impossibilità di modificare il trattamento sanzionatorio illegale di favore applicato all’imputato, quando il pubblico ministero non abbia proposto appello, affermando, al contempo, il dovere per il giudice di appello di ridurre in misura corrispondente la pena ancorchè favorevolmente illegale nella sua misura finale quando debba essere accolto l’appello proposto dal solo imputato su una circostanza da applicarsi in modo automatico e fisso (come la diminuente per il rito abbreviato) e non soggetta a valutazioni discrezionali o a giudizio di bilanciamento da parte del giudicante.

In tale ultimo caso, infatti – di circostanze la cui applicazione è soggetta invece a valutazioni discrezionali o a un giudizio di bilanciamento – ci sembra che l’accoglimento dell’appello dell’imputato sul punto non possa comportare (sempre e comunque) l’obbligo di ridurre la pena, illegalmente di favore in partenza, in misura corrispondente ex art. 597 comma 4 c.p.p., potendo, ad esempio, legittimamente il giudice di appello – motivando correttamente e non in modo illogico e contraddittorio il suo convincimento – riconoscere la circostanza attenuante negata dal primo giudice e confermare il giudizio di equivalenza già espresso in precedenza senza ridurre, dunque, la pena finale, con il solo ed ovvio limite del rispetto del divieto di reformatio in peius (la cui violazione comporterebbe, invece, una evidente violazione di legge).

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Avv. Dainelli Riccardo

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