Licenziamento orale: onere della prova e come dimostrarlo

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     Indice

  1. Il caso di specie
  2. La decisione della Corte di Appello
  3. Il parere della Cassazione

1. Il caso di specie

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26407/2022, ha risolto il caso che vedeva contrapposti una dipendente, licenziata in forma orale e la società che rifiutata le prestazioni lavorative della medesima.

Una lavoratrice veniva licenziata, senza forma scritta, con accertamento della titolarità del rapporto di lavoro subordinato in capo al datore di lavoro originario. Il datore di lavoro rifiutava l’attività lavorativa della dipendente e pone in essere un licenziamento senza, però, esplicitarlo in forma scritta. Conseguentemente, la lavoratrice licenziata ha proposto ricorso nei confronti del datore di lavoro.


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Con un approccio per quesiti e problemi, si offre una panoramica della normativa in tema di licenziamenti nei rapporti di lavoro privato, le cui disposizioni si sono stratificate e sovrapposte nel tempo in relazione alla natura e alle dimensioni occupazionali del datore di lavoro, al settore, alla qualifica, alla data di assunzione, alla data di licenziamento, al tipo di rapporto, creando un sistema difficilmente intellegibile per l’operatore. Verrà illustrato come distinguere il licenziamento dalle ipotesi affini, quale forma deve rivestire e per quali motivi si può legittimamente licenziare, con quale procedura e con quale tempistica; come impugnare un licenziamento, attraverso quali adempimenti da compiere prima del giudizio e come evitare le decadenze di legge, come impostare un ricorso avverso un licenziamento illegittimo e quali sono le caratteristiche del rito da seguire. Saranno passati in rassegna i principali vizi che possono affliggere l’atto espulsivo, indicato con quali mezzi dimostrarne la sussistenza, come si riparte l’onere della prova, e, in parallelo, quale tutela è stata accordata dal legislatore al lavoratore nelle diverse e sofferte fasi evolutive della disciplina della materia (legge n. 604/1966, legge n. 300/1970, legge n. 92/2012, D.Lgs. n. 23/2015,D.L. n. 87/2018 ed altre): in particolare, in quali casi viene accordata la reintegra nel posto di lavoro e in quali casi è disposto il risarcimento del danno, nonché le diverse modalità per la sua quantificazione. Per ciascun argomento verrà dato conto dello stato della giurisprudenza sulle principali problematiche solle- vate dalla normativa, anche con riferimento al diritto dell’Unione Europea.Maria Giulia Cosentino Magistrato ordinario, prima ancora avvocato, funzionario del Ministero delle Finanze, borsista al primo corso concorso per dirigenti pubblici della S.N.A.; oggi giudice del lavoro presso la Corte d’Appello di Roma e dal 2016 giudice tributario componente della Commissione Tributaria Provinciale di Roma. Fra il 2012 e il 2016 è stata componente del Comitato Pari Opportunità del Distretto e della Commissione per gli esami di Stato per il conseguimento del titolo di Avvocato. Dopo l’ingresso in magistratura, dal 2001 al 2004 è stata giudice civile a La Spezia; dal 2004 al 2010, fuori ruolo, ha ricoperto l’incarico di giurista esperto per la semplificazione normativa ed amministrativa presso il Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri; dal 2008 al 2010, anche Vice Capo del Settore Legislativo per il Ministro per l’Attuazione del Programma di Governo; dal 2010 al 2017 giudice del lavoro presso il Tribunale di Roma. Autrice di numerose pubblicazioni in tema di diritto del lavoro; diritto del pubblico impiego; pari opportunità nella pubblica amministrazione; semplificazione normativa; diritto dell’ambiente e dell’energia.

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2. La decisione della Corte di Appello

I giudici di secondo grado, analizzando in primo luogo la vicenda legata al licenziamento sprovvisto della necessaria forma scritta, si riallacciano a quanto già evidenziato dal Tribunale atteso che, dinanzi ad una formale offerta della prestazione lavorativa ad opera della ricorrente, l’azienda non ha permesso alla medesima di proseguire il lavoro alle proprie dipendenze e nemmeno ha risolto il rapporto di lavoro mediante una comunicazione scritta. Successivamente, viene escluso che la condotta della lavoratrice, in fatto, fosse equivalente alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di impiego con la società, rilevando, altresì, che anche la percezione del TFR e la nuova occupazione lavorativa non costituivano elementi integranti un mutuo consenso per una risoluzione tacita consensuale. Infine, i giudici di Appello ritengono non necessaria l’impugnazione del licenziamento orale, statuizione avversata dalla società in Cassazione.

3. Il parere della Cassazione

I Giudici di Piazza Cavour statuisce, in primis, che il lavoratore che impugna il licenziamento, allegandone l’intimazione senza l’osservanza della forma scritta, ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della propria pretesa, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo bastevole la prova della mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Avanzando con la disamina, La Corte di Appello non ha considerato la prova del recesso sulla base della mera cessazione dell’attività lavorativa. Quest’ultima è stata desunta dal comportamento concludente della società che, dinanzi alla richiesta della lavoratrice di proseguire ad operare alle sue dipendenze, non lo ha consentito, escludendo anche che dalla condotta della dipendente potesse desumersi la volontà di dimettersi.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro.

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Avvocato Rosario Bello

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