Quando sussiste l’aggravante di cui all’art. 80, comma primo, lett. g) Testo unico stupefacenti

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[Riferimento normativo: d.P.R., 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, co. 1, lett. g)]

Indice:

Il fatto

La Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma di una sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città – che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato l’imputato responsabile del reato di cui all’art. 73, comma 5, e 80, comma 1 lett. g) del d.P.R. n. 309/1990 e lo aveva condannato alla pena di anni tre di reclusione ed euro 4.000 di multa, con l’interdizione dai pubblici uffici e la confisca e distruzione di quanto in sequestro -, accogliendo l’appello del Procuratore generale, applicava a costui la misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato italiano a pena espiata, confermando nel resto. 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato il quale deduceva i seguenti motivi: 1) vizio di motivazione in relazione all’affermazione di responsabilità ed erronea applicazione degli artt. 192 e 530, comma 2, cod. proc. pen.; 2) vizio di motivazione in relazione alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma 1 lett. g) del d.P.R n. 309/1990; 3) vizio di motivazione in relazione al motivo di gravame avente ad oggetto la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche e l’eccessività della misura della pena; 4) vizio di motivazione in relazione all’erronea valutazione della pericolosità sociale dell’imputato e violazione degli artt. 8 CEDU, 29 Cost e 133 cod. pen..


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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il primo motivo di ricorso, ad avviso della Suprema Corte, aveva ad oggetto doglianze non proponibili in sede di legittimità.

Difatti, secondo gli Ermellini, il ricorrente, attraverso una formale denuncia di vizio di motivazione, richiedeva sostanzialmente una rivisitazione, (reputata) non consentita in sede di legittimità ordinaria, delle risultanze processuali posto che, nel motivo in esame, erano esposte censure considerate consistenti in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità, ricostruzione e valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Sez. 1, 16.11.2006, n. 42369; sez. 6, 3.10.2006, n. 36546; Sez. 3, 27.9.2006, n. 37006), rilevandosi al contempo come dovesse essere ribadito che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. introdotte dalla L. n. 46 del 2006, art. 8, non è consentito dedurre il “travisamento del fatto“, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6, n. 27429 del 04/07/2006; Sez. 5, n. 39048/2007; Sez. 6, n. 25255 del 2012) ed in particolare di operare la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Sez. 6, 26.4.2006, n. 22256).

Orbene, a fronte di ciò, si osservava oltre tutto come la Corte di Cassazione debba circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con “atti del processo“, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa, tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4, 08/04/2010 n. 15081; Sez. 6 n. 38698 del 26/09/2006; Sez.5, n. 6754 del 07/10/2014).

Ciò posto, il secondo motivo di ricorso era stimato manifestamente infondato poiché, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, i Giudici di merito avevano correttamente ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma 1, lettera g), d.P.R. 309/1990 (“se l’offerta o la cessione è effettuata all’interno o in prossimità di scuole di ogni ordine o grado, comunità giovanili, caserme, carceri, ospedali, strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti”) in considerazione del fatto che, secondo le risultanze istruttorie, le plurime cessioni di sostanza stupefacenti contestate erano avvenute nel parcheggio di un pronto soccorso di unì ospedale.

Orbene, secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione, per la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma primo, lett. g), d.P.R.. 9 ottobre 1990, n. 309, è sufficiente che l’offerta o la cessione della sostanza stupefacente si sia verificata all’interno o in prossimità dei luoghi indicati dalla norma, non essendo necessario che essa sia effettuata nei confronti di specifiche categorie di soggetti (Sez 6, n. 1666 del 11/12/2019; Sez. 4, n. 21884 del 06/04/2017), tenuto conto altresì del fatto come sia stato anche precisato, sempre in sede nomofilattica, che la finalità della disposizione va individuata nell’esigenza di tutelare e preservare dal fenomeno della diffusione degli stupefacenti comunità notoriamente più aggredibili, perché frequentate da persone potenzialmente a rischio di fronte al pericolo droga, o per la giovane età o per particolari condizioni soggettive (in tal senso Sez. 4, n. 3786 del 19/01/2016) dal momento che la disposizione de qua è volta a sanzionare con maggior rigore l’aver cagionato una particolare condizione di pericolo, integrata dall’esercizio di attività di cessione di stupefacente in situazioni di prossimità a determinate categorie di soggetti che frequentano dette strutture (Sez. 4, n. 21884 del 06/04/2017); in altri termini, l’intento del legislatore è quello di reprimere più severamente le condotte di diffusione della droga all’interno o in prossimità di insediamenti in cui sono ordinariamente presenti, almeno in via potenziale e secondo l’id quod plerumque accídit, numerosi soggetti “deboli” o comunque maggiormente esposti al rischio di essere attratti dal consumo di sostanze stupefacenti (Sez. 3, n. 39162 del 21/09/2021) e, quindi, per la sussistenza della circostanza aggravante di cui trattasi, è necessaria l’effettiva offerta o cessione della sostanza stupefacente all’interno o in prossimità dei luoghi indicati dalla norma, dovendosi escludere che essa possa riferirsi ad una condotta di mera detenzione (cfr. Sez. 4, n. 3786 del 19/01/2016; Sez. 6, ord. n. 28316 del 03/06/2003).

Oltre a ciò, era inoltre fatto presente che il requisito della “prossimità” ad uno dei luoghi indicati dalla norma in cui deve avvenire l’offerta o la cessione della sostanza stupefacente attiene alla contiguità fisica e al posizionamento topografico dell’agente dedito allo spaccio in un luogo che consente l’immediato accesso alle droghe alle persone che lo frequentano (cfr. Sez. 4, n. 51957 del 24/11/2016); in particolare, il requisito della “prossimità” ad uno dei luoghi indicati dalla norma in cui deve avvenire l’offerta o la cessione della sostanza stupefacente, attiene a quelle aree esterne rispetto alle strutture tipizzate (scuole, comunità giovanili, caserme ecc. ecc.) che devono essere ubicate nelle loro immediate vicinanze, configurandosi un rapporto di relazione immediata tra i luoghi indicati e le aree di prossimità (Sez. 6, n. 27458 del 14/02/2017), a nulla invece rilevando che l’offerta o la cessione della sostanza sia effettuata nei confronti di specifiche categorie di soggetti, essendo sufficiente, in coerenza con la ratio dell’aggravante basata sul maggior rischio innescato dalla condotta del reo, che l’offerta o la cessione della sostanza si sia verificata all’interno o in prossimità dei luoghi indicati dalla norma (Sez. 6, n.1666 del 11/12/2019).

Orbene, declinando siffatti criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, era notato come le condotte contestate si riferissero a cessioni di sostanza stupefacente e la maggiore offensività delle condotte era integrata dal dato oggettivo costituito dalla scelta, come luogo di spaccio, di un’area pertinenziale di un ospedale, luogo rientrante fra quelli indicati all’art. 80, comma 1, lettera g) d.P.R. n. 309/1990 e che si caratterizzava per essere frequentato da una pluralità di soggetti maggiormente esposti al rischio di essere attratti dal consumo di sostanze stupefacenti, potenzialmente destinatari delle cessioni.

Terminata la disamina di tale doglianza, anche il terzo motivo di ricorso era stimato manifestamente infondato.

Secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, invero, l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, oggetto di un giudizio dì fatto, non costituisce un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle circostanze in parola; l’obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica, infatti, la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (Sez.1, n. 3529 del 22/09/1993; Sez. 2, n. 38383 del 10.7.2009; Sez.3, n. 44071 del 25/09/2014).

Inoltre, secondo giurisprudenza consolidata, il giudice nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti in quanto è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione, individuando, tra gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010; sez. 2, 11 ottobre 2004, n. 2285), fermo restando che, se l’obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre, la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non può, purchè congrua e non contraddittoria, essere sindacata in Cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato.

Ebbene, per gli Ermellini, nella fattispecie in esame, la Corte territoriale, con motivazione (stimata) congrua e logica, aveva negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a cagione dei precedenti penali e delle modalità della condotta, caratterizzata dal protrarsi dell’attività delittuosa e dal coinvolgimento di molti soggetti, e si era, quindi, ritenuto elemento ostativo preponderante la personalità negativa dell’imputato, quale emergente dalle modalità della condotta e dal certificato penale (cfr in merito alla sufficienza dei precedenti penali dell’imputato quale elemento preponderante ostativo alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016; Sez.1, n. 12787 del 05/12/1995), tenuto conto altresì del fatto che, sempre ad avviso della Suprema Corte, la sentenza impugnata aveva fatto un corretto uso dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., ritenuti sufficienti dalla giurisprudenza della Cassazione, per la congrua motivazione in termini di determinazione della pena, rilevandosi al contempo come la Corte territoriale avesse ritenuto la pena irrogata adeguata alla gravità del reato, congruamente e logicamente argomentato anche in ordine all’entità dell’aumento operato sulla pena base ai sensi dell’art. 81 cpv cod. pen., richiamando il rilevante numero delle cessioni e l’intensità del dolo, dimostrativi della elevata capacità a delinquere dell’imputato.

Da ultimo, il quarto motivo di ricorso era reputato anch’esso manifestamente infondato atteso che la Corte territoriale, valutando gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., aveva applicato all’imputato la misura di sicurezza di cui all’art. 86 d.P.R. n. 309/1990, fondando la valutazione di pericolosità di costui sulla dimostrata incapacità, ripetuta e prolungata, del predetto di rispettare il precetto penale (desunta dai precedenti penali e di polizia) e sulla natura e gravità dei fatti commessi (condotta protrattasi per parecchi mesi, su un territorio sul quale egli agiva quale testato venditore, previ accordi telefonici e con utilizzo di proprio autoveicolo per la consegna in luogo pubblico dello stupefacente, in precedenza confezionato nella propria abitazione), stimandosi contempo tali elementi in grado di avere un valore dimostrativo della pericolosità sociale dell’imputato nonché, nella prospettiva del bilanciamento tra l’interesse generale alla sicurezza sociale e l’interesse del singolo alla vita familiare, preminenti rispetto allo stato personale-familiare dello stesso.

La motivazione era pertanto valutata come congrua e logica ed in linea con i principi di diritto affermati dalla Cassazione in subiecta materia, considerato oltre tutto che il giudice, prima di procedere all’espulsione dallo Stato dello straniero, per il quale sia intervenuta sentenza di condanna per uno dei reati indicati nell’art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è tenuto ad accertare in concreto, con adeguata motivazione, la sussistenza della pericolosità sociale del condannato (Sez. F, n.35432 del 14/08/2013; Sez.4, n. 43459 del 29/09/2015; Sez.3, n.30289 del 20/04/2021), tenuto conto altresì del fatto che, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, è necessario non solo il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, in conformità all’art. 8 CEDU in relazione all’art. 117 Cost., ma anche l’esame comparativo della condizione familiare dell’imputato, ove ritualmente prospettata, con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 cod. pen., in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale ed interesse del singolo alla vita familiare (Sez. 4, n. 52137 del 17/10/2017; Sez. 4, n. 50379 del 25/11/2014).

Il ricorrente, invece, per la Corte di legittimità, neppure confrontandosi criticamente con le specifiche argomentazioni dei Giudici di appello, si dilungava, a suo avviso, in considerazioni in punto di fatto non proponibili in sede di legittimità.

Il ricorso proposto, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, era dichiarato inammissibile. 

Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito quando sussiste l’aggravante di cui all’art. 80, comma primo, lett. g), d.P.R.. 9 ottobre 1990, n. 309 che, come è noto, prevede un incremento della pena da un terzo alla metà “se l’offerta o la cessione e’ effettuata all’interno o in prossimita’ di scuole di ogni ordine o grado, comunita’ giovanili, caserme, carceri, ospedali, strutture per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti”.

Difatti, in tale pronuncia, alla luce di una giurisprudenza di legittimità consolidata formatasi in subiecta materia, si afferma – una volta fatto presente che, per la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 80, comma primo, lett. g), d.P.R.. 9 ottobre 1990, n. 309, è sufficiente che l’offerta o la cessione della sostanza stupefacente si sia verificata all’interno o in prossimità dei luoghi indicati dalla norma, non essendo necessario che essa sia effettuata nei confronti di specifiche categorie di soggetti, dovendosi escludere che essa possa riferirsi ad una condotta di mera detenzione – che il requisito della “prossimità“, ad uno dei luoghi indicati dalla norma in cui deve avvenire l’offerta o la cessione della sostanza stupefacente, attiene alla contiguità fisica e al posizionamento topografico dell’agente dedito allo spaccio in un luogo che consente l’immediato accesso alle droghe alle persone che lo frequentano, con particolar riguardo a quelle aree esterne rispetto alle strutture tipizzate (scuole, comunità giovanili, caserme ecc. ecc.) che devono essere ubicate nelle loro immediate vicinanze, configurandosi un rapporto di relazione immediata tra i luoghi indicati e le aree di prossimità.

Invece, non rileva, ai fini della configurabilità di siffatta aggravante, il fatto che l’offerta o la cessione della sostanza sia effettuata nei confronti di specifiche categorie di soggetti essendo sufficiente, in coerenza con la ratio dell’aggravante basata sul maggior rischio innescato dalla condotta del reo, che l’offerta o la cessione della sostanza si sia verificata all’interno o in prossimità dei luoghi indicati dalla norma.

Tale pronuncia, avendo fatto un buon governo dei principi di diritto elaborati in subiecta materia, deve essere quindi presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare la sussistenza di tale elemento accidentale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su questa tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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