Risarcimento danni per responsabilità medica: spetta al giudice chiarire se l’intervento medico sarebbe stato idoneo

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Nel caso di patologie pregresse, il giudice deve chiarire se l’intervento medico sarebbe stato idoneo a eliminarne le conseguenze oppure soltanto a ridurle. 

I fatti

Nella pronuncia oggetto di commento, i genitori, in quanto esercenti la potestà genitoriale sul figlio, avevano agito in giudizio contro l’Azienda Sanitaria del Molise per chiedere il risarcimento dei danni per la gravi patologie neurologiche patite dal loro figlio minore a causa dei comportamenti ritenuti negligenti e non tempestivi del personale sanitario.

Il Tribunale del primo grado, considerata la CTU e considerato che la patologia pregressa della madre aveva concorso a procurare il danno subito dal minore, aveva accolto la domanda attorea, riducendola nel quantum, e condannato la parte convenuta al risarcimento dei danni patrimoniali e non a favore degli attori, quali legali rappresentanti del minore.

La Corte d’Appello, poi, in accoglimento del ricorso principale degli attori, aveva ritenuto che, dal giorno in cui era emerso il dato del “rallentamento di crescita del feto”, non era stata prestata alla gestante sufficiente assistenza che “avrebbe evitato con probabilità vicina alla certezza” ovvero avrebbe ridotto l’incremento dei “danni intrauterini fetali e l’entità delle lesioni neurologiche irreversibili” del nascituro. La Corte, infatti, riteneva che tali danni si sarebbero potuti evitare, o quantomeno circoscrivere, se ci fosse stato un corretto operato da parte dei sanitari. Infatti, la situazione patologica pregressa di cui la madre era portatrice, non costituiva elemento determinante e fortuito tale da poter incidere sul grado di diligenza che i sanitari avrebbero dovuto tenere.

In considerazione di ciò, la Corte territoriale affermava che non era possibile applicare una riduzione proporzionale della responsabilità medica alla luce della pregressa malattia della madre, né era possibile ridurre il quantum del risarcimento gravante sulla struttura sanitaria.

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Le questioni affrontate dalla Corte

Non soddisfatta dalla decisione della corte territoriale, la compagnia assicuratrice proponeva ricorso in Cassazione sulla base di due motivi.

Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente principale denunziava il fatto che il contratto di ospedalità, ossia il contratto a prestazioni corrispettive che si instaura tra la struttura sanitaria e il paziente, non produceva i propri effetti protettivi anche nei confronti dei terzi, ossia i genitori del minore; perciò, al momento dell’atto di citazione, si era già compiuta la prescrizione quinquennale.  Tale motivo veniva dichiarato inammissibile, poiché la sentenza impugnata aveva deciso conformandosi all’orientamento della Corte Suprema (Cass. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 10741/2009; n. 2354/2010; n. 1675/2012; n. 10812/2019; n. 14615/2020).

In particolare, secondo il suddetto orientamento, alla luce del contratto che si instaura tra gestante e struttura sanitaria, lo stesso produrrà i suoi effetti anche nei confronti del padre del concepito. Quest’ultimo infatti, sarà legittimato, in caso di inadempimento, ad agire per la richiesta di risarcimento danni.

Con il secondo motivo di ricorso principale, invece, veniva denunziata la violazione o falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. (“Risarcimento del danno”), ritenendo che il giudice della Corte d’Appello, nonostante si fosse conformato alle argomentazioni della CTU “secondo cui l’insulto iposso-ischemico” subito dal bambino era da ricondurre a settimane prima della nascita, ma comunque era stato aggravato dalla mancata ospedalizzazione della paziente nella misura del 60%, non aveva delimitato in modo corrispondente il quantum debeatur.

La Corte d’Appello aveva ritenuto di non applicare la riduzione del quantum debeatur poiché avevano ritenuto che la tempestiva ospedalizzazione e anticipazione del parto della madre avrebbero, con probabilità vicina alla certezza, quantomeno ridotto, se non evitato, l’avanzamento dei danni che si sarebbero poi rivelai irreversibili a carico del bambino. Infatti, secondo i giudici di secondo grado, se gli operatori sanitari avessero optato per una pratica corretta, avrebbero potuto circoscrivere o neutralizzare i danni che ne sono, invece, emersi.

Ebbene, su questo punto, i giudici della Corte Suprema ritengono, come si legge nella sentenza, che ci sia stata contraddittorietà della decisione della Corte d’Appello, “tale da rendere incomprensibile la ratio decidendi”.
Infatti, secondo gli Ermellini, la neutralizzazione e la possibile riduzione degli esiti della patologia pregressa non possono essere assimilate, in quanto, essendo diverse le conseguenze giuridiche dei due presupposti, si cade in un’evidente contraddizione nel caso in cui i due vengano equiparati.

Infatti, nel caso in cui l’intervento sanitario avrebbe neutralizzato la patologia pregressa non sarebbe neanche sussistito un problema di concausa della lesione e conseguentemente la patologia pregressa sarebbe stata irrilevante ai fini della determinazione del danno risarcibile.

Nel caso in cui, invece, l’intervento sanitario avrebbe soltanto ridotto le conseguenze dannose della patologia pregressa della madre, vi sarebbe stata comunque una causalità giuridica tra i danni subiti dal feto e la patologia pregressa.

Gli Ermellini ritengono che sia corretto concludere per la irrilevanza della patologia pregressa di cui.
A tale ultimo proposito, infatti, la Corte di Cassazione richiama il proprio orientamento e ne sintetizza i seguenti principi di diritto:

  • Innanzitutto, lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione che è derivata dalla lesione medesima;
  • La concausa delle lesioni è giuridicamente irrilevante sul piano della causalità materiale;
  • La menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente con il maggior danno causato dall’illecito;
  • Saranno coesistenti le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ai medesimi organi; saranno, invece, concorrenti le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isoalte, e più gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi;
  • Le menomazioni coesistenti sono, di norma, irrilevanti ai fini della liquidazione;
  • Le menomazioni concorrenti vanno invece tenute in considerazione e devono essere valutate attraverso un triplice passaggio:
    1. in primo luogo, si deve valutare l’invalidità complessiva del soggetto, risultante dalla menomazione preesistente in aggiunta a quella causata dall’illecito, e convertirla in denaro;
    2. in secondo luogo, si deve valutare l’invalidità del soggetto preesistente all’illecito e convertirla in denaro;
    3. infine, si deve sottrarre dall’importo complessivo ottenuto dal primo passaggio, l’importo ottenuto dal secondo passaggio.
    Il risultato ottenuto costituirà l’importo da liquidare a titolo di menomazione concorrente.

Secondo gli Ermellini la pronuncia della Corte territoriale non si è ispirata ai suddetti principi e pertanto è da ritenersi priva di motivazione, poiché non è riuscita a chiarire se l’intervento medico sarebbe stato idoneo a neutralizzare o a ridurre le conseguenze della patologia pregressa e conseguentemente a far discendere le conseguenze in punto di risarcimento.

 

Sentenza collegata

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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