Corte di Cassazione sez. III 15/1/2007 n. 646

Redazione 15/01/07
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Svolgimento del processo
Con atto 3 novembre 1995 G.G. ha convenuto in giudizio, innanzi al giudice di pace di Salerno, la PRAIM Immobiliare s.a.s. in persona del socio accomandatario S.M., chiedendone la condanna alla restituzione della somma di L. 3 milioni.

Ha esposto l’attore – a fondamento della spiegata domanda – di avere conferito alla società convenuta mandato per la vendita di una villa di sua proprietà in Vietri sul mare e di avere, poi concluso, tramite l’opera di tale società, la locazione stagionale della stessa villa per l’estate 1994 per il prezzo di L. 30 milioni, di cui soli L. 26 milioni versategli dalla convenuta che aveva trattenuto la differenza a titolo di provvigione.

Costituitasi in giudizio la società convenuta ha resistito alla avversa pretesa, deducendone la infondatezza e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna di controparte al rimborso delle spese affrontate per la vendita della villa, pari a L. 3.800.000.

Svoltasi la istruttoria del caso l’adito giudice con sentenza 13 novembre 1998 ha accolto la domanda attrice e condannato la società convenuta al pagamento della somma di L. 3 milioni in favore del G. oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

Gravata tale pronunzia da S.M., quale socio accomandatario della soccombente PRAIM Immobiliare, il tribunale di Salerno con sentenza 20 novembre 2001 – 22 gennaio 2002 ha rigettato l’appello e condannato l’appellante al pagamento delle spese del grado.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia non notificata, ha proposto ricorso, con atto 28 gennaio 2003, S.M. nella sua qualità di socio accomandatario della PRAIM Immobiliare s.a.s., affidato a due motivi.

Resiste, con controricorso G.G..

Motivi della decisione
1. Ha accertato il giudice di secondo grado che dalle risultanze di causa risulta evidente che:

– l’incarico di mediazione è stato conferito dal G. alla PRAIM Immobiliare (e non allo S. in proprio) sia per la vendita, sia per la locazione dell’immobile di proprietà dello stesso G.;

– non essendo la PRAIM Immobiliare iscritta nell’apposito ruolo, ne deriva (ai sensi della L. n. 39 del 1989, art. 6, e art. 2231 c.c.) la nullità della prestazione effettuata da tale società con la conseguenza che questa ultima non ha alcun diritto nè alla provvigione, nè alle spese affrontate per l’espletamento dell’incarico;

– ne consegue che lo S. nella qualità di socio accomandatario è tenuto alla restituzione della somma di L. 3 milioni, trattenuta a titolo di provvigione per una prestazione non eseguibile da parte della società;

– non vi è stata alcuna accettazione della trattenuta operata dallo S. a opera del G. atteso che quest’ultimo non solo si è recato presso la CCIA per informarsi in ordine alla misura del compenso spettante alla società PRAIM, ma ha denunciato la PRAIM per l’abusivo svolgimento dell’attività di mediazione.

2. Il ricorrente censura la riassunta sentenza, da un lato, "con i motivi di appello, sopra riportati" nonchè "con tutte le precedenti difese svolte", dall’altro, con due, ulteriori motivi.

3. Nella prima parte, e in particolare, quanto al richiamo ai motivi di appello e alle difese precedentemente svolte, la censura è inammissibile.

In conformità ad una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice si evidenzia, infatti, che il requisito della specificità, completezza e riferibilità dei motivi del ricorso alla decisione impugnata non è rispettato quando il ricorso per cassazione è basato sul richiamo ai motivi di appello, nonchè alle deduzioni svolte nei precedenti gradi del giudizio (in termini, ad esempio, Cass. 1 ottobre 2002, n. 14075, specie in motivazione).

Tale procedimento, infatti, non risponde al concetto stesso di motivo di impugnazione, particolarmente con riferimento ad una impugnazione di ambito limitato, e che comporta la non chiara indicazione della critica che si intende muovere ad una parte ben identificabile del giudizio espresso in sentenza (Cass. 20 aprile 1998, n. 4013).

In altri termini, l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., n. 4, qualunque sia il tipo di errore per cui è proposto (in procedendo o in judicando), non può essere assolto con il rinvio agli atti del giudizio di appello.

L’atto di appello, in particolare, contiene e non può essere diversamente esclusivamente "censure" rivolte alla sentenza di primo grado, cioè i "motivi" alla luce dei quali il soccombente sollecita, da parte del giudice di appello, la "riforma", totale o parziale, della sentenza emessa dal primo giudice.

E’ di palmare evidenza, pertanto, che un tale atto di appello (alla pari di tutte le difese svolte successivamente o anche anteriormente) è privo di quei motivi specifici, imposti a pena di inammissibilità dall’art. 360 c.p.c., n. 4, che rendono censurabile – sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c. – la sentenza di secondo grado.

E’ certo, infatti, che allorchè è stato redatto l’atto di appello nella specie notificato l’8 maggio 1999 l’appellante ignorava la motivazione della sentenza di appello resa, nel caso concreto unicamente il 22 gennaio 2002, cioè a distanza di tre anni e, per l’effetto non poteva svolgere rilievi critici avverso la stessa (Cfr., tra le tantissime, Cass. 24 febbraio 2006, n. 4250; Cass. 18 maggio 2005, n. 10420).

4. Il ricorrente censura, ancora, la sentenza gravata (resa dal tribunale di Salerno in grado di appello) lamentando, nell’ordine:

– da un lato, "violazione e falsa applicazione dell’art. 1754 e 1755 c.c. in reazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e 5. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione", rilevando "il macroscopico vizio di motivazione in cui è incorso il tribunale di Salerno circa un punto decisivo della controversia sotto il profilo della insufficienza, perchè – come si rileva con palmare chiarezza dalla motivazione della sentenza impugnata – il tribunale di Salerno ha travisato i fatti di causa" primo motivo;

– dall’altro "violazione e falsa applicazione degli artt. 2452, 2700 e 2729 c.c. e degli artt. 84 – 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3 e 5. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione", atteso che ai sensi dell’art. 2452 c.c. per il liquidatore della società vige il divieto di nuove operazioni, che il nucleo di polizia tributaria ha accertato la assoluta inattività della società, senza che possa assumere rilevanza giuridica il contenuto di una lettera dell’avv. ******" che, come pacifico in causa, nell’interesse della PRAIM immobiliare e non dello S. in proprio aveva risposto alle contestazione, anteriormente al giudizio, dell’avv. G. secondo motivo.

5. I descritti motivi, per molteplici aspetti inammissibili, per altri manifestamente infondati, non possono trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

5.1. In merito alla denunziata "violazione e falsa applicazione degli artt. 1754 e 1755, nonchè degli artt. 2452, 2700 e 2729 c.c., nonchè degli artt. 84 – 116 c.p.c., sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, preme evidenziare, in limine, la manifesta inammissibilità della deduzione (sì come svolta nel primo come nel secondo motivo).

In conformità, in particolare, a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, da cui totalmente prescinde parte ricorrente e che nella specie deve ulteriormente ribadirsi – infatti – il ricorso per Cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata.

Il riferito principio comporta – in particolare -tra l’altro che è inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi tra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la sentenza impugnata (Cass. 15 febbraio 2003, n. 2312).

In altri termini, quando nel ricorso per Cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile, poichè non consente alla Corte di Cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass. 29 novembre 2005, n. 26048; Cass. 8 novembre 2005, n. 21659; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20145; Cass. 2 agosto 2005, n. 16132).

Pacifico quanto precede, non controverso che nella specie parte ricorrente, pur assumendo che i giudici di secondo grado sono incorsi nella "violazione e falsa applicazione" delle molteplici disposizioni, del codice civile e di quello di procedura civile sopra indicate. si astiene, totalmente, dall’indicare, come pure era suo puntuale onere, quali siano le affermazioni – in diritto – contenute nella sentenza gravata e le ragioni (cioè i motivi) per cui deve dissentirsi da esse, è palese la inammissibilità delle deduzioni in parola.

Con le stesse – infatti – parte ricorrente non denunzia violazione o falsa applicazione di disposizioni di legge, ma si duole dell’esito della lite, diverso da quello da lei auspicato, e dell’apprezzamento compiuto dai giudici del merito delle risultanze di causa ed è evidente che tali censure non rientrano nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3. 5.2. Il primo motivo di ricorso, ancora, deve essere dichiarato inammissibile anche nella parte in cui ha denunziato l’avvenuto travisamento, da parte della sentenza impugnata, dei fatti di causa.

Giusta la testuale previsione di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, le sentenze pronunziate in grado di appello possono essere impugnate per revocazione qualora la sentenza stessa sia "l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa".

"Vi è questo errore – in particolare – quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa".

Pacifico quanto sopra e non controverso che la denuncia di un travisamento di fatto quando attiene non alla motivazione della sentenza impugnata, ma ad un fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo non di ricorso per cassazione ma di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., importando essa un accertamento di merito non consentito al giudice di legittimità (cfr. Cass. 27 marzo 1999, n. 2932), è palese la inammissibilità – come anticipato – della censura in esame.

Nella specie, infatti, parte ricorrente denunziando che i giudici del merito avrebbero travisato i fatti, per non avere considerato che la PRAIM Immobiliare all’epoca dei fatti più non esisteva per essere stata messa in liquidazione, lamenta un vizio che – in quanto tale – non può costituire motivo di ricorso per Cassazione.

Il denunciato travisamento, in particolare, risolvendosi nell’inesatta percezione da parte del giudice, di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4 (tra le tantissime, Cass. 10 marzo 2006, n. 5251; Cass. 22 dicembre 2005, n. 28421; Cass. 7 marzo 2005, n. 4864).

4.3. Quanto alle censure sollevati dal ricorrente sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel primo come nel secondo motivo, si osserva – in termini opposti, rispetto a quanto presuppone la difesa della parte ricorrente e alla luce di quanto assolutamente pacifico, presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, che in questa sede non può che ulteriormente ribadirsi – che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per Cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione.

Detti vizi non possono, peraltro, consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (Cass. 21 aprile 2006, n. 9368; Cass. 20 aprile 2006, n. 9234; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 20 ottobre 2005, n. 20322).

L’art. 360 c.p.c., n. 5 – infatti – contrariamente a quanto suppone l’attuale ricorrente non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti.

Deriva da quanto precede, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte.

Certo quanto sopra si osserva che parte ricorrente lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, si limita – in buona sostanza – a sollecitare una diversa lettura, delle risultanze di causa preclusa in questa sede di legittimità. 4.4. Anche a prescindere da quanto precede si osserva – comunque – la manifesta infondatezza della censura.

Tutte le censure spiegate dal ricorrente sono incentrate, come evidenziato sopra, sulla circostanza, da un lato, che la società PRAIM era stata posta in liquidazione e, quindi non esisteva, all’epoca dei fatti per cui è causa, dall’altro, che "l’accertamento della Polizia Tributaria non può essere messo in dubbio …".

Nessuno dei detti rilievi coglie nel segno.

4.4.1. Come noto, l’atto formale di cancellazione della società del registro delle imprese ha solo funzione di pubblicità, ma non ne determina l’estinzione, ove non siano ancora esauriti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società stessa, a seguito della procedura di liquidazione (Cass. 2 marzo 2006, n. 4652).

Analogamente è assolutamente pacifico – in dottrina come in giurisprudenza – che lo scioglimento della società non ne comporta l’estinzione (Cass. 8 luglio 2004, n. 12553).

Certo quanto sopra è palese che è irrilevante e non pertinente, al fine del decidere, e di contrastare quanto accertato, in linea di fatto, dai giudici del merito, cioè che l’attività di mediazione, quanto alla locazione della villa di proprietà del controricorrente, è stata posta in essere dalla società PRAIM Immobiliare e non dallo S. in proprio, che detta società fosse stata posta in liquidazione in epoca anteriore allo svolgimento dell’attività de qua.

4.4.2. Quanto al secondo profilo e alla rilevanza degli accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza, si osserva che i giudici del merito – lungi dal contraddire detti accertamenti – hanno fondato anche su questi il proprio dictum.

Si precisa, infatti, a p. 7-8 della sentenza gravata "deve .. rilevarsi che dal verbale della Guardia di Finanza del 13 febbraio 1996 si evince che i verbalizzanti constatarono l’avvenuto espletamento della attività di mediazione da parte della PRAIM Immobiliare, proprio in relazione alla locazione della villa del G.".

"Tanto vero – prosegue la sentenza – che i suddetti verbalizzanti accertarono che la PRAIM era priva dei requisiti per l’esercizio dell’attività di mediazione, non essendo iscritto nell’apposito ruolo istituito dalla L. n. 38 del 1989, ed elevarono nei confronti di detta società contravvenzione per esercizio abusivo dell’attività di mediatore, ex art. 2 della medesima legge".

Non solo, peraltro, i giudici del merito sono giunti alla conclusione, in linea di fatto, ora contestata dal ricorrente sulla base proprio di quel documento che a parere dello stesso ricorrente non sarebbe stato adeguatamente tenuto presente, anzi smentito, dalla sentenza impugnata, ma hanno evidenziato come la circostanza che l’attività di mediazione, quanto alla locazione della villa di parte controricorrente fosse stata svolta dalla società PRAIM e non dallo S. in proprio risultava confermata da molteplici altri elementi, tra cui la stessa condotta tenuta, in occasione della verifica della Guardia di Finanza dallo S. (a norma dell’art. 116 c.p.c., cfr., Cass. 24 gennaio 2003, n. 1112; Cass. 19 dicembre 2001, n. 18020).

Certo che nulla oppone, in ricorso, parte ricorrente in ordine a tali elementi è evidente la manifesta infondatezza della censura, come anticipato.

5. Risultato infondato in ogni sua parte, il proposto ricorso deve rigettarsi, con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo e distratte in favore dell’avv. **************** che ha dichiarato di averle anticipate.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di Cassazione liquidate in Euro 700,00 di cui Euro 600,00 per onorari, oltre rimborso forfetario delle spese generali e accessori come per legge;

ordina la distrazione delle spese in favore dell’avv. ****************.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 16 novembre 2006.

Redazione