Quando è configurabile l’aggravante del metodo mafioso

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(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 416.bis.1, co. 1)

     Indice

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
  4. Conclusioni

1. Il fatto 

Il Tribunale di Palermo, pronunciando su una richiesta di riesame avverso una ordinanza del G.i.p. del Tribunale della stessa città che aveva a sua volta disposto, nei confronti di uno degli indagati, la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere per il delitto estorsione pluriaggravata – la accoglieva parzialmente, riqualificando il fatto come tentata (e non consumata) estorsione pluriaggravata, confermando, nel resto, l’ordinanza del G.i.p., fermo restando che la misura veniva confermata in relazione al delitto di cui agli artt. 56, 81, secondo comma, 110, 629, primo e secondo comma, quest’ultimo comma in relazione all’art. 628, terzo comma, n. 3), e 416-bis.1 cod. pen., nonché all’art. 71 del dlgs. 6 settembre 2011, n. 159.

In particolare, il delitto de quo – compiuto in concorso e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso – era consistito nel compiere atti idonei, segnatamente minacce, diretti in modo non equivoco a costringere delle persone a restituire un assegno bancario postdatato a garanzia di un prestito usurario, così procurandosi un ingiusto profitto con altri danno.

2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’indagato, deducendo i seguenti motivi: 1) erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, in relazione agli artt. 56, 81, secondo comma, 110, 629, primo e secondo comma, quest’ultimo comma in relazione all’art. 628, terzo comma, n. 3), e 416-bis.1 cod. pen., nonché all’art. 71 del d.lgs. n. 159 del 2011, con riguardo alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del delitto di tentata estorsione; 2) erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, in relazione agli artt. 56, 81, secondo comma, 110, 629, primo e secondo comma, e 610 cod. pen.; 3) erronea applicazione della legge penale e difetto di motivazione, in relazione all’art. 416-bis.1 cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza dell’aggravante prevista da quest’ultimo articolo.

3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione 

Il primo e il secondo motivo erano reputati manifestatamente infondati.

Si osservava a tal proposito in via preliminare come le Sezioni Unite abbiano da tempo chiarito che, «[i]n tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie» (Sez. U., n. 11 del 22/03/2000), rilevandosi al contempo che tale orientamento, condiviso dalla Cassazione nel caso di specie, è stato ribadito anche in pronunce più recenti (tra le altre: Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013; Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007).

Orbene, da ciò se ne faceva conseguire che «[I]’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 cod. proc. pen. e delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 stesso codice è rilevabile in cassazione soltanto se si traduce nella violazione di specifiche norme di legge od in mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo del provvedimento impugnato. (In motivazione, la S.C. ha chiarito che il controllo di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, onde sono inammissibili quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito)» (tra le altre: Sez. F, n. 47748 del 11/08/2014).

Ciò rammentato, gli Ermellini prendevano atto come il Tribunale di Palermo avesse fondato la ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico del ricorrente per il reato di tentata estorsione sulle risultanze di numerose intercettazioni telefoniche e ambientali, richiamando al contempo che, «[i]n materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite» (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013).

Ebbene, i giudici di piazza Cavour stimavano come tale approdo ermeneutico fosse stato osservato nella fattispecie in esame, avendo il giudice di merito apprezzato la valenza gravemente indiziante delle conversazioni captate in questo procedimento in modo (ritenuto) non manifestamente illogico né irragionevole.

Detto questo, sempre in riferimento al primo motivo, il Supremo Consesso rilevava come il diritto alla restituzione dell’assegno emesso a garanzia del prestito usurario non spettasse all’indagato, risultando come costui avesse chiesto alle persone offese, mediante minaccia, la restituzione dell’assegno al solo scopo di evitare che il beneficiario di tale prestito sporgesse denuncia nei confronti degli usurai.

Da ciò se ne faceva discendere, stante l’ingiustizia del profitto costituito dalla restituzione dell’assegno, in quanto profitto conseguito sine iure, con correlativo danno patrimoniale per le persone offese, il cui patrimonio veniva a esserne diminuito, la manifesta infondatezza, sia del secondo profilo del primo motivo, sia del secondo motivo, atteso che la preordinazione della coartazione a procurarsi un ingiusto profitto comporta l’integrazione del delitto di tentata estorsione e non di violenza privata (Sez. 6, n. 53429 del 05/11/2014).

Ciò posto, pure il terzo motivo era stimato manifestatamente infondato.

Si notava a tal riguardo che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la circostanza aggravante dell’utilizzo del cosiddetto “metodo mafioso“, prevista dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 152 del 1991 (ora dall’art. 416.bis.1, comma 1, cod. pen.), ha la funzione di reprimere il “metodo delinquenziale mafioso” ed è connessa non alla struttura e alla natura del delitto rispetto al quale la circostanza è contestata, quanto, piuttosto, alle modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso (Sez. 5, n. 22554 del 09/03/2018).


Sull’argomento leggi anche:


Pertanto, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, è necessario l’effettivo ricorso, nell’occasione delittuosa contestata, al “metodo mafioso“, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo a esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata (e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall’agente) (Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015; Sez. 6, n. 28017 del 26/05/2011; Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007), cioè, quella coartazione ben più penetrante energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti (Sez. 2, n. 2204 del 31/03/1998), tenuto conto altresì del fatto che l’aggravante è ritenuta configurabile anche in presenza dell’utilizzo di un messaggio intimidatorio “silente“, ossia privo di un’esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia (Sez. 3, n. 44298 del 18/06/2019; Sez. 2, n. 26002 del 24/05/2018; Sez. 2, n. 20187 del 03/02/2015; Sez. 5, n. 38964 del 21/06/2013), così come l’aggravante de qua è configurabile nel caso di condotte che presentano un nesso eziologico immediato rispetto all’azione criminosa in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine (non essendo pertanto integrata dalla sola connotazione mafiosa dell’azione o dalla mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti di tale organizzazione) (Sez. 1, n. 26399 del 28/02/2018).

Oltre a ciò, la giurisprudenza di legittimità ha altresì statuito che la circostanza aggravante del cosiddetto “metodo mafioso” è configurabile anche a carico di un soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto (Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013; Sez. 1, n. 4898 del 26/11/2008) e non necessita che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo (Sez. 2, n. 27548 del 17/05/2019; Sez. 2, n. 16053 del 25/03/2015).

Orbene, a fronte di tali approdi ermeneutici, gli Ermellini ritenevano come la motivazione addotta nel provvedimento impugnato fosse coerente e priva di illogicità, sottraendosi in tal guisa a censure prospettabili in sede di legittimità.

Detto questo, anche il quarto motivo era stimato manifestamente infondato.

Si evidenziava a tal proposito che, come correttamente affermato dal Tribunale di Palermo, per il reato di tentata estorsione aggravata dal “metodo mafioso“, opera la doppia presunzione relativa – di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere – prevista dall’art. 275, comma 3, terzo periodo, cod. proc. pen. posto che la Corte di Cassazione ha chiarito che la doppia presunzione prevista, per determinate fattispecie incriminatrici, dal combinato disposto gli artt. 275, comma 3, terzo periodo, e 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., deve intendersi riferita anche ai delitti tentati in caso di contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bís.1, comma 1, cod. pen.), atteso che il generico riferimento ai «delitti» in tal guisa aggravati, indipendentemente dallo specifico titolo di reato, è comprensivo di ogni fattispecie delittuosa, sia consumata che tentata (Sez. 2, n. 22096 del 03/07/2020; successivamente, nello stesso senso, Sez. 1, n. 38603 del 23/06/2021).

In particolare, nella prima di tali sentenze, relativa a una fattispecie di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, la Corte di legittimità ha precisato che si deve, invece, escludere l’operatività delle presunzioni ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen., per i delitti tentati in relazione alle ipotesi di reato indicate in modo specifico dal legislatore.

Ciò precisato, con riguardo alla menzionata doppia presunzione relativa nel caso di delitti aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1, comma 1, cod. pen., si osservava come la Corte di Cassazione abbia affermato i seguenti principi di diritto (condivisi nel caso di specie): in tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti di indagato per delitto aggravato dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 152 del 1991, la presunzione relativa di pericolosità sociale di cui all’art. 275, comma 3, terzo periodo, cod. proc. pen., può essere superata solo quando dagli elementi a disposizione del giudice emerga che l’associato abbia stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa fermo restando che, in assenza di tali elementi, il giudice della cautela non ha l’onere di argomentare in ordine alla sussistenza o permanenza delle esigenze cautelari ancorché sia decorso un notevole lasso di tempo tra i fatti contestati in via provvisoria all’indagato e l’adozione della misura cautelare (Sez. 5, n. 35847 del 11/06/2018; in senso analogo: Sez. 1, n. 23113 del 19/10/2018; Sez. 5, n. 35848 del 11/06/2018); in tema di misure cautelari, la presunzione relativa di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, operante – ai sensi del terzo comma dell’art. 275 cod. proc. pen. – per i delitti aggravati ex art. 7 del d.l. n. 152 del 1991, può essere superata soltanto quando, in relazione al caso concreto, siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, non essendo idonea, allo scopo, la mera allegazione del tempo trascorso e della durata della restrizione sofferta (Sez. 2, n. 6574 del 02/02/2016; Sez. 1, n. 29530 del 27/06/2013); la regola generale contenuta nell’art. 275, comma 3-bis, cod. proc. pen., secondo cui il giudice, nel disporre la custodia in carcere, deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo elettronico, non trova applicazione quando la custodia in carcere venga disposta per uno dei delitti per i quali opera la presunzione relativa di adeguatezza di tale misura, ai sensi del comma 3 del predetto art. 275 (Sez. 2, n. 3899 del 20/01/2016; Sez. 2, n. 4951 del 12/01/2016; Sez. 1, n. 19234 del 22/12/2015).

Ebbene, declinando tali principi di diritto in relazione al caso in questione, i giudici di legittimità ordinaria facevano presente come il Tribunale di Palermo avesse assolto, senza incorrere in illogicità, all’onere motivazionale gravante sul giudice della cautela nelle ipotesi in cui proceda per un reato aggravato ai sensi del comma 1 dell’art. 416-bis.1 cod. pen..

Alla stregua di quanto sin qui esposto, il ricorso era dichiarato inammissibile con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento e al pagamento, in favore della Cassa delle Ammende, della somma di euro tremila.

4. Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito quando è configurabile l’aggravante del metodo mafioso.

Difatti, in tale pronuncia, si afferma, sulla scorta di numerosi precedenti emessi dalla stessa Cassazione in subiecta materia, dopo essere fatto presente che la circostanza aggravante dell’utilizzo del cosiddetto “metodo mafioso“, prevista dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 152 del 1991 (ora dall’art. 416.bis.1, comma 1, cod. pen.), ha la funzione di reprimere il “metodo delinquenziale mafioso” ed è connessa non alla struttura e alla natura del delitto rispetto al quale la circostanza è contestata, quanto, piuttosto, alle modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso, che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, è necessario l’effettivo ricorso, nell’occasione delittuosa contestata, al “metodo mafioso“, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo a esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata (e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall’agente), essendo dunque richiesta quella coartazione ben più penetrante energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti, tenuto conto altresì del fatto che l’aggravante è ritenuta configurabile anche in presenza dell’utilizzo di un messaggio intimidatorio “silente“, ossia privo di un’esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia.

Ad ogni modo, l’aggravante in esame è altresì configurabile, sia nel caso di condotte che presentano un nesso eziologico immediato rispetto all’azione criminosa in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole perpetrazione del crimine (non essendo pertanto integrata dalla sola connotazione mafiosa dell’azione o dalla mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti di tale organizzazione), sia a carico di un soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto, fermo restando che non è richiesta la dimostrazione o la contestazione di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo.

Tale provvedimento, quindi, può essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare se sia configurabile siffatto elemento accidentale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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