Legittima l’apertura di una pizzeria nel condominio se non è vietato espressamente

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Per costante giurisprudenza (Cass. 138/2016; Cass. 8174/2012; Cass. 7633/2011), l’interpretazione del regolamento condominiale fornita dai giudici di merito, non è censurabile dinnanzi alla Corte di Cassazione, se non per violazione dei canoni ermeneutici dettati dal legislatore con gli artt. 1362 e seg.  c.c. o per vizi di motivazione.

Ciò posto, appare altrettanto pacifico che il regolamento condominiale di origine contrattuale, vale a dire quello predisposto dal costruttore o dall’originario unico proprietario, può stabilire limitazioni alla proprietà privata, anche con l’elencazione delle attività vietate all’interno dei singoli appartamenti, tuttavia, dette limitazioni e tali impedimenti devono risultare in maniera chiara e inequivocabile.

In altri termini, l’intenzione di comprimere le facoltà dei singoli condomini sulla loro proprietà privata, deve risultare da espressioni chiare, non suscettibili di dar luogo a incertezze.

Pertanto, il divieto di adibizione a pizzeria del locale situato al primo piano, non può ritenersi compreso nel divieto, posto dal regolamento di condominio, di utilizzo dei locali sotterranei e delle cantine ad uso diverso da quello abitativo.

Tanto ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 21307, pubblicata in data 20.10.2016, qui allegata.

Un condomino citava in giudizio altri partecipanti al condominio, al fine di sentirli condannare al rispristino dello stato dei luoghi, oltre al risarcimento del danno.

Lo stesso affermava di essere proprietario di un appartamento in condominio, confinante con quello dei convenuti, i quali, avevano inteso adibire il loro alloggio a pizzeria, per il tramite di una nuova scala di collegamento interna con il sottostante locale sito al piano terreno, anch’esso già utilizzato a pizzeria-ristorante, ciò in violazione del regolamento contrattuale e di una successiva delibera assembleare.

In primo grado la domanda veniva rigettata ma, a seguito dell’interposto appello, la sentenza veniva riformata, con la condanna dei condomini convenuti, al rispristino dello stato dei luoghi.

Per motivare l’anzidetta sentenza la Corte di Appello di Napoli, considerata la presenza di un regolamento condominiale, debitamente trascritto nei registri immobiliari, ma anche richiamato negli atti di acquisto, evidenziava come l’art. 5 del predetto regolamento, conteneva limitazioni all’utilizzo diverso da quello abitativo dei locali cantinati e terranei, ciò imponeva anche di ritenere implicitamente vietato un diverso utilizzo dei locali posti ai piani superiori.

Il giudizio, giunto dinnanzi alla II sezione civile della Suprema Corte, si concludeva tuttavia con un esito diametralmente opposto, atteso che la stessa accoglieva il ricorso e cassava la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli, che dovrà attenersi ai principi di seguito esposti.

Per motivare la predetta decisione la Corte di Cassazione, dopo aver ricordato come “costituisce orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui (cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. 11, 08/01/2016, n. 138) non è censurabile in Cassazione l’interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai giudici di merito salvo che per violazione dei canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (conf. Cassazione civile, sez. 11, 23/05/2012, n. 8174; Cassazione civile, sez. Il, 04/04/2011, n. 7633)”, specifica a tal proposito come “proprio in relazione all’interpretazione del regolamento condominiale di origine contrattuale, si è ribadito che (cfr. Cassazione civile, sez. II, 19/10/2012, n. 18052) ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato”.

Chiarito ciò, entrando nel merito della controversia, la stessa rileva come l’art. 5 del regolamento condominiale in questione, riferisce espressamente di limiti alla facoltà di utilizzo dei “locali terranei e dei cantinati”, senza nulla aggiungere in merito a possibili divieti per gli immobili posti su piani diversi.

Pertanto, in assenza di una chiara ed univoca volontà di negare l’utilizzo dei locali posti ai piani superiori ad attività diverse da quelle proprie delle civili abitazioni, non può essere condivisa l’interpretazione che della clausola regolamentare è stata offerta dalla Corte distrettuale, siccome in contrasto con i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità.

Tanto è vero che “anche di recente si è ribadito che (cfr. Cass. n. 19229/2014) il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare. Si è infatti ribadito che la compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze (cfr. Cass. un. 20237/09 non massimata, Cass. n. 16832/09 non massimata, Cass. n. 9564/97, Cass. n. 1560/95; CaSS. n. 11126/94; Cass. n. 23/04 e Cass, n. 10523/03)”.

Sostanzialmente, quindi, sono vietate interpretazioni di carattere estensivo delle norme regolamentari, pertanto, solo le limitazioni espressamente previste possono ritenersi vigenti, atteso che il silenzio su determinate questioni implica, più che l’intenzione di porre dei limiti, la necessità di salvaguardare le facoltà connesse al diritto di proprietà.

In conclusione, l’apertura di una pizzeria all’interno dello stabile in condominio, rientrando nelle peculiarità tipiche del diritto dei singoli proprietari, non può essere vietata in assenza di una esplicita, chiara e incontrovertibile clausola regolamentare di origine contrattuale.

Sentenza collegata

612109-1.pdf 294kB

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Avv. Accoti Paolo

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