Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 8 marzo – 20 aprile 2016, n. 7967

Redazione 20/04/16
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Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 8 marzo – 20 aprile 2016, n. 7967
Presidente ******* – Relatore *********

Svolgimento del processo

Con sentenza del 14.5.2007 il tribunale di Trieste rigettava la domanda con la quale  B. M. aveva chiesto la condanna dell’Università degli Studi di Trieste alla restituzione delle somme da lui versate a titolo di tassa di iscrizione per tre anni accademici ed il risarcimento dei danni, patrimoniali e non.
La domanda introdotta dall’attore era fondata sull’impossibilità di frequentare i locali universitari, essendo egli affetto da asma bronchiale cronica ed allergica, patologia che gli impediva di entrare in contatto con ambienti nei quali aveva spesso riscontrato una considerevole presenza di fuma, a causa della prassi degli studenti di fare diffusamente uso del tabacco, ignorando i divieti vigenti. Tale circostanza, inutilmente segnalata all’Ateneo, aveva costretto il ricorrente prima a rinunciare a frequentare le lezioni universitarie e, successivamente, ad interrompere il proprio corso di studi.
La sentenza di rigetto del tribunale, motivata in ragione del mancato raggiungimento della prova che, nel periodo indicato, all’interno dei locali il livello di inquinamento fosse realmente incompatibile con lo stato di salute dell’attore, veniva confermata dalla Corte territoriale con sentenza del 14 aprile 2010.
Quest’ultima, in particolare, rilevava non solo la mancanza di un idoneo riscontro probatorio in ordine alla effettiva consistenza e diffusione del lamentato fenomeno, ma anche l’assenza di dimostrazione del nesso di causalità tra l’inquinamento ambientale e l’asserita impossibilità di frequentare le lezioni e dì partecipare alle normali attività didattiche.
Avverso tale sentenza  B. M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. L’Università degli Studi di Trieste ha depositato controricorso. Il ricorrente ha poi depositato una memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 C.P.C.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente si duole dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.), sostenendo che, mentre dalle risultanze probatorie emerse nel corso del giudizio di primo grado era inconfutabilmente emerso che le patologie di cui era portatore erano causalmente collegate alla insalubrità degli ambienti universitari e che il fumo, presente all’interno dei locali, costituiva un ostacolo insormontabile alla frequentazione degli stessi, viceversa dall’esame della sentenza impugnata non sarebbe possibile comprendere se tali elementi siano stati oggetto dì un reale ed approfondito esame. In particolare, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto delle riproduzioni fotografiche dello stato dei luoghi, delle formali contestazioni opposte dal ricorrente all’Ateneo, delle dichiarazioni rese dai quattro testimoni escussi, della documentazione medica inerente lo stato di salute, dei risultati dell’espletata c.t.u. (che avevano confermato il peggioramento dello stato di salute del ricorrente nel periodo indicato).
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c., censurando specialmente il passaggio argomentativo utilizzato dalla Corte territoriale per spiegare che intanto la prospettazione introdotta dall’attore sarebbe stata fondata se solo fosse stata dedotta non già l’impossibilità di una generica fruizione dei locali, quanto piuttosto l’impossibilità di perseguire concretamente l’obiettivo, insito nell’iscrizione ad una facoltà, del superamento degli esami e dell’ottenimento della laurea, finalità che nel caso in esame non risultavano affatto compromesse dalla presenza del fattore lamentato dall’appellante (non avendo
quest’ultimo dimostrato l’inagibilità delle aule di lezione e della biblioteca, cioè di quei luoghi nei quali comunemente si svolgono le attività didattiche che l’amministrazione è tenuta a garantire). Secondo il ricorrente tale ricostruzione sarebbe del tutto errata, giacché finirebbe per condizionare la tutela della salute al rendimento universitario, imponendo al danneggiato di frequentare l’ateneo esclusivamente per il raggiungimento dell’obiettivo.
Del resto, tra i servizi che l’Amministrazione è tenuta a garantire vi sarebbe l’agibilità non delle sole aule e della biblioteca, ma anche di tutti gli altri luoghi comunemente frequentati dagli studenti (corridoi, servizi igienici ecc.). Con il terzo motivo il ricorrente si duole dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.), non avendo la Corte territoriale soffermato la propria attenzione sui risultati della c.t.u., semplicemente dichiarando l’irrilevanza di ogni questione afferente il contenuto dell’elaborato peritale e trascurando la domanda di rinnovazione avanzata dall’appellante.
I motivi, che in quanto connessi possono essere congiuntamente esaminati, sono tutti infondati. Va, in primo luogo, evidenziato che nella memoria ex art. 378 c.p.c. il ricorrente ha, tra l’altro, particolarmente insistito su un profilo sostanzialmente estraneo al thema decidendum prospettato con il ricorso introduttivo, laddove il riferimento all’inerzia dell’amministrazione, in relazione al dovere di attivarsi al fine di far rispettare il divieto di fumo (imposto all’epoca dei fatti dalla legge n. 584 del 1975), viene assunto quale concausa dei danni alla salute lamentati dal ricorrente.
Trattasi, infatti, di una prospettazione che, facendo leva sull’illiceità della condotta tenuta dall’amministrazione e sull’ingiustizia del danno subito dall’istante, tende a riportare la lesione lamentata su un piano prettamente aquiliano, affatto differente dall’ambito più propriamente contrattuale al quale apparteneva l’originaria `causa petendi’.
Non va trascurata la circostanza che la domanda fin dall’inizio introdotta dall’attore è volta ad ottenere, oltre
alla restituzione degli importi versati a titolo di tasse
universitarie per tre anni accademici, anche il risarcimento dei danni conseguenti all’impossibilità di frequentare il corso di studi universitari, venendo in rilievo, quindi, un danno che, se pure apprezzabile anche sotto il profilo delle conseguenze di tipo non patrimoniale, appare bere diverso dal danno alla salute inteso quale conseguenza della condotta omissiva ascritta all’Ateneo. Sicchè il danno di cui l’attore chiede il ristoro è costituito, secondo l’originaria prospettazione, semplicemente dall’impossibilità di fruire di una prestazione (dovuta dall’Ateneo in conseguenza dell’iscrizione ai corsi universitari) per fatto asseritamente imputabile al debitore e) dunque un danno di natura essenzialmente contrattuale (anche se, in parte, lamentato per alcune conseguenze di tipo non patrimoniale).
Ciò posto, va ulteriormente evidenziato che la Corte territoriale ha correttamente incentrato il proprio percorso argomentativo sulla riscontrata assenza del nesso di causalità materiale tra la condotta omissiva dell’Ateneo (ravvisabile nel mancato svolgimento delle attività di controllo riguardo al rispetto del divieto di fumo nei locali) e l’impossibilità, dedotta dal ricorrente, di frequentare i locali e partecipare alle attività didattiche e di studio, evidenziando che “l’attore non ha minimamente fornito la prova che la pretesa inagibilità dei locali abbia interessato le aule di lezione, la Biblioteca Generale e quelle di Dipartimento e di Istituto, quei luoghi cioè nei quali appunto si svolgono le attività didattiche, di ricerca e di studio che l’Amministrazione universitaria è tenuta a garantire”.
Tale fondamentale rilievo, che riveste un ruolo decisivo rispetto alle ulteriori argomentazioni svolte dalla Corte (circa il “risultato” finale che la prestazione dell’Ateneo mirerebbe a realizzare, cioè la possibilità di svolgere gli esami e di conseguire la laurea), non appare in alcun modo superato dalle argomentazioni svolte sul punto dal ricorrente.
Secondo la tesi sostenuta da quest’ultimo, infatti, aver ritenuto, da parte della Corte territoriale, non compromesso l’obiettivo primario cui la formazione universitaria è preordinata, equivarrebbe a porre un limite inaccettabile alla tutela del diritto alla salute, che finirebbe per essere subordinata ad una determinata condizione, ossia al rendimento universitaria.
In realtà, esaminando le argomentazioni complessivamente svolte dalla Corte di Appello, emerge chiaramente come quest’ultima non abbia affatto inteso proclamare la tutela dei diritto alla salute solo per il caso di mancata realizzazione di un risultato finale (cioè solo se il fatto lamentato abbia impedito al ricorrente di sostenere gli esami e di raggiungere la laurea), ma ha semplicemente rimarcato il difetto di prova che l’inquinamento ambientale abbia in effetti riguardato i locali nei quali si svolgono “le attività didattiche, di ricerca e di studio” che l’amministrazione è tenuta a garantire.
La circostanza, ulteriormente evidenziata dal ricorrente, secondo cui il rilievo non sarebbe sufficiente, dovendo la vigilanza essere estesa anche ad altri spazi la cui frequentazione si prospetta comunque necessaria secondo una logica di normalità (corridoi, servizi igienici ecc.), da un lato, mira chiaramente ad ottenere una rivalutazione del fatto preclusa in questa sede e, dall’altro, resta assorbita e superata dalla considerazione, prioritariamente svolta dalla Corte territoriale, secondo le quale la pretesa attorea venne correttamente disattesa dal Giudicante di prime cure, difettando in modo evidente un idoneo riscontro probatorio in ordine alla reale consistenza e diffusione del lamentato fenomeno di inquinamento ambientale.
Quanto alla doglienza riguardante l’omessa valutazione delle prove da parte della Corte di Appello, va premesso che, nel giudizio di cassazione, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia (nel regime precedente alla modifica introdotta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134), è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza (cfr. da ultimo Cass. n. 5402 del 2014). Il ricorrente ha del tutto trascurato di riprodurre fedelmente il contenuto delle prove a suo dire decisive ai fini della composizione della controversia, e tale omissione assume un particolare rilievo con riferimento allo specifico contenuto delle deposizioni rese dai testi che, secondo il ricorrente, avrebbero confermato la presenza di fumo all’interno della facoltà. Il contenuto di tali deposizioni, invero, non è stato affatto trascurato dalla Corte territoriale, la quale anzi ha avuto cura di precisare che “dalle deposizioni testimoniali introdotte dal  B. si ricava la mera indicazione che in talune aree interne della facoltà di giurisprudenza vi era una frequente violazione dei divieti di fumo colà vigenti, ma nulla può trarsi in merito all’effettivo spessore e concreta nocività della situazione ambientale da ciò derivata”.
Conseguentemente, avendo la Corte territoriale puntualmente preso in considerazione il materiale probatorie raccolto nel corso del giudizio di prime cure, trova applicazione il principio secondo cui “la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento” (cfr. ex plurimis Cass. n. 1414 del 2015). Sul punto, dunque, l’accertamento compiuto dalla Corte di Trieste circa la ritenuta insufficienza dei risultati della prova per testi a sostenere la pretesa azionata, è affidato ad una motivazione corretta e congrua, priva di errori logici e giuridici. L’omessa valutazione delle riproduzioni fotografiche (ulteriormente lamentata dal ricorrente) resta irrilevante, almeno nei limiti in cui la doglianza è stata formulata (nulla essendo stato dedotto con riferimento alla reale idoneità delle prove fotografiche a sovvertire il quadro probatorio sul quale la Corte ha formato il proprio convincimento), come pure irrilevante deve considerarsi l’omesso esame delle contestazioni indirizzate al Rettore e della documentazione medica inerente lo stato di salute (il cui contenuto non è stato nemmeno riprodotto dal ricorrente). Quanto, infine, alla invocata rinnovazione della c.t.u. medico-legale, ritenuta dal ricorrente inadeguata perché carente sul piano tecnico-scientifico, la contraria decisione
della Corte triestina è coerente con il percorso argomentativo da essa seguito che, reputando indimostrato il nesso di causalità tra l’inadempimento ed il danno, ha considerato del tutto superflua l’ammissione di un mezzo istruttorio diretto a verificare la concreta estensione del pregiudizio lamentato.
Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del ricorso per cassazione seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla spese di giudizio, in favore dell’Università degli Studi di Trieste, liquidate in € 3000,00 per compensi, oltre s.p.a.d.

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