La Cassazione ribadisce i requisiti necessari ai fini dell’ammissibilità dei motivi di appello

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Il caso

La Corte d’Appello di Brescia, con sentenza del 26.9.2013, dichiarava inammissibile il gravame proposto dall’amministratore unico di una s.r.l. avverso la decisione del Tribunale di Brescia la quale aveva respinto l’opposizione all’ordinanza ingiunzione emessa dalla direzione provinciale del lavoro con cui erano state accertate violazioni insanabili nei confronti di due lavoratori.

La Corte territoriale, a sostegno della inammissibilità del gravame, rilevava che il testo dell’art. 434 co. 1 c.p.c. – così come sostituito dal decreto L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012 ratione temporis applicabile alla fattispecie – impone l’indicazione sia delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice sia delle circostanze rilevanti da cui deriva la violazione delle normative rilevanti ai fini della decisione. In particolare, l’appellante si era limitato a ribadire quanto aveva già dedotto in primo grado attraverso un’argomentazione difensiva che era stata già esaminata dalla sentenza del Tribunale e rispetto alla quale nessuna censura era mossa nell’atto di appello.

La Corte aveva ritenuto parimenti inammissibile la doglianza circa la mancata applicazione della disciplina più favorevole introdotta dalla L. n. 183 del 2010 in quanto, in conformità con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio di retroattività della legge più favorevole non è applicabile alle sanzioni amministrative e pecuniarie.

Il datore di lavoro ricorreva, quindi, alla Corte di Cassazione censurando la sentenza d’appello sulla base di due motivi.

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I motivi di impugnazione

Con il primo motivo di ricorso il datore di lavoro denunciava la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 434 co. 1 c.p.c., l’omessa valutazione di circostanze e documenti decisivi ai fini della decisione, l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e la violazione del diritto di difesa del ricorrente ex art. 24 Cost., osservando che il tenore dell’atto di impugnazione era tale per cui dallo stesso dovesse desumersi che il ricorrente aveva compiutamente e specificatamente indicato le modifiche alla ricostruzione del fatto operata dal giudice di prime cure.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, veniva censurata la sentenza d’appello per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 434 co. 1 c.p.c., della L. n. 183 del 2010, e del D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, nella parte in cui il giudice di seconde cure aveva ritenuto inammissibile la doglianza della mancata applicazione della disciplina più favorevole violando il principio della retroattività favorevole in materia di sanzioni amministrative.

Sul punto:”Le Sezioni Unite si pronunciano sulla specificità dei motivi d’appello”

La decisione della Corte

Preliminarmente la Suprema Corte osserva che il ricorso è stato notificato alla Direzione Provinciale del Lavoro di Bergamo presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Brescia e che tale notifica è nulla, atteso che giurisprudenza consolidata ha affermato il principio per cui “in caso di notificazione del ricorso per cassazione affetta da nullità perché effettuata presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato anziché presso l’Avvocatura generale dello Stato, il giudice deve ordinare la rinnovazione della notificazione che – senza che sia necessario il rilascio di una nuova procura – ha l’effetto di sanare tale nullità impedendo la decadenza dall’impugnazione”.[1]
Tuttavia la Corte richiama il principio, più volte affermato e ispirato all’esigenza di conformazione degli istituti processuali alla garanzia della ragionevole durata del processo, in base al quale si esclude che debba procedersi alla rinnovazione della notificazione (o agli altri adempimenti all’art. 375 n. 2 c.p.c.), tutte le volte in cui il ricorso si appalesi, prima facie, inammissibile o manifestamente infondato, sia nelle ipotesi in cui si debba procedere alla integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario, sia nel caso in cui la notifica del ricorso sia nulla e potrebbe quindi farsi applicazione dell’art. 291 c.p.c.[2]
Poste queste premesse i giudici di legittimità  passano alla disamina dei motivi di ricorso ritenendo la prima censura inammissibile in quanto le proposizioni difensive erano state già avanzate negli stessi termini in primo grado e, per tale ragione, non erano reiterabili allo stesso modo nel giudizio di gravame .

Infatti, come affermato recentemente dalle SS.UU.[3], gli artt. 342 e 434 c.p.c. – nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012 – devono essere interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice pur non occorrendo l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
Relativamente alle questioni poste con il secondo motivo, invece, la Suprema Corte rileva che la sentenza impugnata aveva ben argomentato che in materia di sanzioni amministrative pecuniarie non si applica il principio di retroattività della normativa più favorevole  (previsto dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, soltanto per infrazioni valutarie e tributarie).

Secondo gli ermellini il riferimento alla possibilità di applicare, in ogni caso, la L. n. 183 del 2010, vigente al momento dell’emissione della sanzione, costituisce novum, a prescindere dalla considerazione che la normativa applicabile va individuata con riferimento al momento della commissione dei fatti contestati e non a quello dell’emissione dell’ordinanza ingiunzione.

A sostegno dei suddetti principi la Corte richiama la pronuncia della Corte Costituzionale n. 193 del 2016, secondo cui, esclusa, nel quadro delle garanzie l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata del principio di retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative, “la scelta legislativa dell’applicabilità della lex mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può poi ritenersi in sé irragionevole. La qualificazione degli illeciti amministrativi, espressiva della discrezionalità legislativa, si riflette sulla natura contingente e storicamente connotata dei relativi precetti, sicché risulta sistematicamente giustificata la pretesa di potenziare l’effetto preventivo e dissuasivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi. Il limitato riconoscimento della retroattività in mitius risponde a scelte discrezionali di politica legislativa, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati e sindacabili solo laddove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio”.

In forza delle considerazioni esposte la Suprema Corte, con la sentenza in epigrafe, ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Note

[1] Cfr. in questo senso Cass. civ. sez. II Ord., 17 ottobre 2014, n. 22079; Cass. SS.UU civ. 15 gennaio 2015, n. 608 le quali confermano un orientamento già affermato da Cass. SS.UU civ. 6 maggio 1998, n. 4573; Cass. civ. sez. III 27 aprile 2011, n. 9411; Cass. civ. sez. VI – 1 4 ottobre 2013, n. 22767.

[2] Cfr. Cass. civ. sez. lav. 13 dicembre 2018 n. 32331, Cass. civ. sez. lav. 23 marzo 2018 n. 7305; Cass. civ. sez. II 8 febbraio 2010, n. 2723; Cass. SS.UU. civ. 2010, 22 marzo n. 6826; Cass. civ. sez. III, 17 giugno 2013, n. 15106 (concernente una ipotesi di notificazione nulla) oltre che Cass. SS.UU. civ. 17 ottobre 2014, n. 22079.

[3] Cass. SS.UU. civ. 16 novembre 2017 n. 27199. V. anche Cass. civ. sez. VI-3, 30 maggio 2018 n. 13535, e, precedentemente, Cass. civ. sez. lav., 5 febbraio 2015 n. 2143, Cass. civ. sez. VI-5,14 settembre 2017 n. 21366.

Sentenza collegata

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Avv. Mazzei Martina

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