Corte di Cassazione Penale Sezioni unite 23/5/2006 n. 17781

Redazione 23/05/06
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Svolgimento del processo
1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, con sentenza 1 marzo 2004, applicava a D.O., sulla concorde richiesta delle parti, la pena di mesi tre di reclusione ed Euro 600,00 di multa per il reato continuato di illecita cessione a terzi di hashish pari a grammi 1,9, tenuto conto della contestata recidiva specifica infraquinquennale; con lo stesso provvedimento revocava la sospensione condizionale della pena concessa, prima dal Tribunale di Bergamo, con sentenza 27 luglio 2001 (in ordine al reato di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1), poi dal Tribunale di Brescia, con sentenza 11 marzo 2003 (relativamente al reato di resistenza a pubblico ufficiale).

2. I difensori di D.O. hanno proposto ricorso per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 168 c.p. e art. 444 c.p.p. ed hanno chiesto l’annullamento della sentenza nella parte in cui ha disposto la revoca delle sospensioni condizionali precedentemente concesse, deducendo che la revoca valica i limiti dell’accordo tra le parti e si fonda sull’erroneo presupposto che la sentenza di patteggiamento implichi l’accertamento della responsabilità dell’imputato; un principio contrastante con la consolidata giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione le quali hanno più volte statuito che la sentenza che applica la pena su richiesta non è titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, considerate le differenze formali, strutturali, genetiche e funzionali rispetto alla decisione di condanna.

3. Con ordinanza 13 maggio 2005, la 4^ Sezione di questa Corte, cui il ricorso è stato assegnato, ha rimesso il ricorso stesso alle Sezioni unite perchè riesaminino, anche alla luce della nuova disciplina introdotta dalla L. 12 giugno 2003, n. 134, la questione concernente la revoca della sospensione condizionale della pena, in forza dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, a seguito di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Il rapporto tra i profili negoziali dell’accordo delle parti sulla pena e i poteri del giudice nella valutazione di detto accordo sono posti a base della questione sollevata, così da introdurre una tematica che travalica la specifica questione, per incentrarsi sulla natura della sentenza che applica la pena su richiesta.

Sono così evidenziati i momenti più significanti dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale che mentre, per un verso, ha riconosciuto al giudice il sindacato sulla congruità della pena (sentenza n. 313 del 1990) e, dunque, un potere di controllo nel merito; per un altro verso, ha valorizzato il profilo negoziale dell’accordo, segnalando le peculiarità della sentenza di patteggiamento contrassegnata dall’assenza di un accertamento pieno e completo di responsabilità (sentenza n. 155 del 1996; nonchè sentenze n. 251 del 1991, n. 499 del 1995, n. 172 del 1998; ordinanza n. 399 del 1997); pur non mancando di evidenziare che nella sentenza che applica la pena su richiesta non sono assenti aspetti di una pronuncia di merito e statuente sulla pena; in un quadro in gran parte condizionato dalle proposizioni interpretative che si andavano profilando nella giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione.

In questa stessa prospettiva critica, l’ordinanza di rimessione prende in esame le pronunce delle Sezioni unite di questa Corte, delle cui pone in luce quello che può definirsi, secondo i tracciati interpretativi percorsi dalla 4^ Sezione, una sorta di sincretismo ricostruttivo nell’individuazione del punto di rilevanza ermeneutica (accordo delle parti o controllo giurisdizionale) da ritenere esponenziale.

Così il rapporto tra contenuto negoziale dell’accordo e poteri della giurisdizione è stato esaminato in base al criterio della natura discrezionale o vincolata delle determinazioni giudiziali, che vale a discriminare i casi in cui l’accordo non è modificabile da parte del giudice, dai casi in cui, essendo la determinazione giudiziale vincolata alla legge, il profilo negoziale deve necessariamente soccombere (Sez. un., 11 maggio 1993, **********).

Il contenuto volitivo dell’accordo, quale presupposto per accedere al procedimento, è stato ritenuto, altre volte, elemento condizionante al fine di verificare se le parti abbiano inteso vincolare o no il giudice a determinate conclusioni: si è così affermato che l’accordo sulla sospensione condizionale, a cui non sia subordinata la complessiva richiesta di applicazione della pena, consente di pronunciare la sentenza di patteggiamento senza concedere il richiesto beneficio (Sez. un., 11 maggio 1993, ******).

Entro i confini tracciati, da un lato, dai profili di negozialità e dall’altro lato, dall’esercizio dei poteri della giurisdizione si muovono, poi, altre sentenze delle Sezioni unite (in particolare, Sez. un., 8 maggio 1996, ******; Sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni Makerem, attenta a definire il controllo del giudice come "estrinseco", riservando un ruolo preminente all’accordo delle parti;

Sez. un., 28 maggio 1997, *******, che nega la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione sulla base del giudizio di comparazione tra circostanze, affermando che, in caso contrario, si utilizzerebbe solo una parte dell’accordo; ed ancora, Sez. un., 21 giugno 2000, ******, che aggiunge come l’accoglimento dell’accordo delle parti sulla pena, motivato anche con il riconoscimento di circostanze aggravanti ed attenuanti, non implica un accertamento sulla loro sussistenza, giacchè esse sono valutabili solo per la determinazione della pena).

Come conclusione provvisoria, tesa a giustificare le divergenti linee interpretative, si assegna una significazione decisiva sia ai profili processuali sia ai profili sostanziali dell’istituto, nell’ambito dei quali l’accordo assume il ruolo di fonte di legittimazione della pena patteggiata che, altrimenti, nonostante la statuizione contenuta nella sentenza costituzionale n. 313 del 1990, "sarebbe caratterizzata da un’incontrollabile irrazionalità distributiva".

Si aggiunge, poi, e, ancora una volta, con valenza davvero significante, che negli ultimi anni novanta è prevalso l’orientamento giurisprudenziale che fa dell’atto di disposizione negoziale, e non nella decisione del giudice, il presupposto per la soluzione del conflitto tra interessi contrapposti, dal momento che, si afferma, il giudice non può sovrapporre le sue valutazioni a quelle consacrate nell’accordo, dovendosi limitare ad un controllo di tipo negativo per evitare l’applicazione di pene incongrue.

Ma, relativamente a tale indirizzo ermeneutico, la Sezione rimettente si dimostra fortemente critica.

L’amplificazione del carattere negoziale e l’accentuazione della crisi della pena, che stanno a fondamento di tale indirizzo interpretativo, inducono a trascurare la natura prevalentemente processuale del patteggiamento e l’importanza del principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, che può dirsi rispettato solo se il ruolo dell’accordo delle parti è valutato esclusivamente in funzione della collaborazione ad una rapida definizione del giudizio, con conseguente riconoscimento di un penetrante controllo giudiziale sull’accordo e sulla congruità della pena.

Si spiega così il diverso e contrapposto indirizzo interpretativo, per il quale il patteggiamento risponde a finalità di semplificazione e di speditezza, coniugando le esigenze di celerità con quelle dell’accertamento attraverso il riconoscimento del profilo dispositivo dell’accordo e l’attribuzione al giudice di penetranti poteri di controllo.

In tal modo al giudice è consentito riempire l’accordo delle parti con contenuti obbligatori pretermessi o addirittura esclusi, ordinando la demolizione di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 7, u.c., per il reato di costruzione abusiva (Sez. un., 27 marzo 1992, Di *********), di definire la gravità della violazione, l’entità del danno e del pericolo per la circolazione ai fini dell’irrogazione della sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida (Sez. un., 27 maggio 1998, *****), di accertare la non rispondenza al vero dell’atto (Sez. un., 27 ottobre 1999, ********), di motivare sulla ricorrenza delle condizioni per il proscioglimento immediato ex art. 129 c.p.p. ove dagli atti risultino concreti elementi (Sez. un., 27 settembre 1995, ********), anche quando non emerga la prova positiva dell’innocenza (Sez. un., 25 ottobre 1995, *******), di dare una diversa qualificazione giuridica al fatto (Sez. un., 19 gennaio 2000, ****), di accertare l’intero fatto, anche in riferimento ad un illecito amministrativo connesso (Sez. un., 21 giugno 2000, *******), di rigettare l’accordo sulla pena allorchè ne derivi l’estinzione del reato per prescrizione sulla base di non certe valutazioni comparative o riconoscimenti di attenuanti, dovendo invece rilevare la causa estintiva ove le circostanze aggravanti appaiano immediatamente inesistenti o le attenuanti emergano in modo inoppugnabile (Sez. un., 25 novembre 1998, Messina).

Tutte le indicate decisioni ammettono, dunque, un potere di accertamento del giudice, seppure non completo e definibile in termini di "semipiena cognitio". in ordine alla questione specifica sono intervenute tre decisioni delle Sezioni unite (Sez. un., 8 maggio 1996, Di Leo; Sez, un., 26 febbraio 1997, Bahrouni; Sez. un., 22 novembre 2000, *******), che hanno negato che la sentenza di patteggiamento, in quanto priva della natura di sentenza di condanna, possa costituire titolo per la revoca della sospensione condizionale della pena.

A questa conclusione però, osserva l’ordinanza di rimessione, si è giunti prima delle novelle normative introdotte con la L. n. 134 del 2003 sul c.d. patteggiamento allargato, che ha rimodulato il rito alternativo con le previsioni dell’applicabilità della misura della confisca c.d. facoltativa e della possibilità di revisione per ogni sentenza di patteggiamento.

La precedente novella che ha attinto l’art. 653 c.p.p. in forza della L. n. 97 del 2001, attribuendo alla sentenza di patteggiamento l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, poteva ancora non essere ritenuta decisiva al fine di rivedere l’affermazione che sta alla base delle decisioni che negano alla sentenza di patteggiamento l’idoneità a costituire titolo per la revoca della sospensione.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 394 del 2002, ha a tal proposito riconosciuto la rilevanza dell’innovazione normativa, affermando che il patteggiamento, pur in presenza di autonomi e consistenti poteri del giudice, trova il suo fondamento nell’accordo delle parti; col rimarcare, più specificamente, che il consenso dell’imputato, dopo l’entrata in vigore della L. n. 97 del 2001, ha l’ulteriore significato di una rinuncia alla difesa nel successivo procedimento disciplinare, posto che l’efficacia di giudicato si estende a tutti gli elementi della fattispecie.

Con l’introduzione nel sistema del c.d. patteggiamento allargato sono state apportate alcune significative novità, quali la condanna al pagamento delle spese processuali, l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, l’esclusione dell’estinzione del reato, che hanno indotto parte della dottrina e della giurisprudenza di merito a rinnovare i dubbi sulla natura della sentenza di patteggiamento, riflettendo con motivate perplessità in merito alla conclusione incentrata sull’assenza in essa dei caratteri della statuizione di condanna.

Le pronunce della Corte costituzionale sul c.d. patteggiamento allargato, (sentenza n. 219 del 2004 ed ordinanze nn. 430 e 421 del 2004), non hanno approfondito tale profilo, e non offrono spunti particolari per articolare una risposta.

La Corte di cassazione ha affrontato tematicamente la questione una sola volta (Sez. 7^, 23 giugno 2004, **********) ed ha ritenuto che la mancata previsione di un’adeguata motivazione in punto di responsabilità della sentenza di patteggiamento non meritasse la devoluzione al sindacato di costituzionalità, pur essendo la sentenza soggetta a revisione ex art. 629 c.p.p..

Due decisioni della Corte Suprema (Sez. 1^, 8 novembre 2004, **********, Sez. 1^, 31 dicembre 2004 Sangermano), entrambe relative all’impossibilità di disporre la revoca della liberazione anticipata in seguito a sentenza di patteggiamento (v. anche Sez. 6^, 3 settembre 2004, *********), hanno recepito, senza motivazione sul punto, i tradizionali approdi interpretativi.

Un rinnovato approfondimento della questione s’impone – prosegue la Sezione – non potendosi accogliere la cd. teoria asimmetrica, che distingue tra i due tipi di sentenza, l’una del patteggiamento ordinario, l’altra del cd. patteggiamento allargato, per riconoscere natura di condanna solo a quest’ultima. A tale teoria si oppone l’impossibilità di procedere ad una differente valutazione di un rito unitario.

Nè si può attribuire un ruolo decisivo al fatto che nella norma sulla revisione il legislatore diversifichi con una disgiunzione le sentenze di condanna dalle sentenze di patteggiamento, quasi fosse consapevole della eterogeneità tra queste. La stessa disgiunzione è infatti utilizzata nel menzionare le sentenze di condanna ed il decreto penale di condanna, che indubbiamente partecipa della natura delle prime.

Ancora, la risposta al quesito sulla natura della sentenza di patteggiamento non può fondarsi esclusivamente sulla norma che non riconosce alla detta sentenza, sia essa emessa nel rito ordinario che in quello del c.d. patteggiamento allargato, effetti vincolanti nei giudizi civili ed amministrativi. L’assenza di effetti vincolanti è una caratteristica comune al decreto penale di condanna.

Si tratta soltanto di un effetto premiale, esteso alle sentenze di patteggiamento emesse in esito a dibattimento, e di tanto è prova la deroga fissata per il procedimento disciplinare.

Da qui la conclusione che contraddittorio ed accertamento di responsabilità non sono sinonimi.

Parimenti insufficiente è il tentativo di rispondere facendo leva unicamente sulla previsione normativa di estensione dei casi di applicazione della misura di sicurezza patrimoniale della confisca, perchè numerose leggi speciali hanno stabilito alcune eccezioni.

Di particolare significato è, invece, la perdurante equiparazione della sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna per alcuni effetti non disciplinati dalle norme, sicchè le differenze potrebbero essere qualificate come eccezioni ad uno schema unitario.

Una considerazione complessiva di tutti questi profili di disciplina, in uno con l’impostazione della sentenza n. 313 del 1990 della Corte costituzionale e con l’orientamento giurisprudenziale che valorizza il ruolo del giudice rispetto al carattere negoziale del rito, inducono ad un approfondimento della questione della natura della sentenza di patteggiamento, nonostante siano rimasti immutati i presupposti del consenso, le modalità dell’accordo, ed i parametri di controllo giudiziale del patto.

4. Con provvedimento del 20 luglio 2005 il Primo Presidente di questa Corte ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite "essendosi ravvisato un contrasto di giurisprudenza".

Motivi della decisione
1. L’ordinanza della 4^ Sezione penale, dopo aver ripercorso i tracciati interpretativi di questa Corte circa la natura della decisione che applica la pena su richiesta delle parti, ravvisa una sorta di antinomia latente tra le singole statuizioni giurisprudenziali e che pare emergere solo assegnando rilievo esponenziale ora al c.d. profilo negoziale (vale a dire, l’accordo tra le parti) ora al c.d. profilo giurisdizionale (vale a dire, i poteri di verifica dell’accordo ad opera del giudice), indicando come proprio dalla consapevolezza dell’esistenza di tale antinomia è possibile una scelta di più ampio contesto che consenta di pervenire ad un assetto ermeneutico tale da divenire coerente con lo ius novum introdotto dalla L. n. 134 del 2003;

2. Per il momento il Collegio ritiene necessario soprassedere dall’esame di simili approdi soprattutto considerando che il quesito al quale queste Sezioni unite sono chiamate a dare risposta riguarda esclusivamente – per di più, in presenza di una vicenda contrassegnata dall’applicazione di una pena nei limiti infrabiennali – l’operatività del regime della revoca della sospensione condizionale della pena alla stregua del precetto dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1.

Sotto tale profilo non possono queste Sezioni unite omettere di constatare che ben tre sentenze della Corte di cassazione nella sua composizione più ampia abbiano risolto il problema in senso negativo.

Cosicchè una rivisitazione dell’istituto che sia attenta a designare come punto fermo – almeno nella sua ineludibilità, ma non per questo inaccessibile a rilievi di ordine metodologico – la pregressa giurisprudenza, richiede che ad essa si pervenga soprattutto (se non esclusivamente) sulla base dei decisivi interventi normativi che hanno rimodellato il procedimento di cui all’art. 444 c.p.p. e segg..

3. Come si è già accennato, l’ordinanza di rimessione sembra richiedere, in effetti, un revirement interpretativo in ordine alla natura della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, anche alla luce del novum derivante dal regime del c.d.

"patteggiamento allargato" introdotto dalla L. 12 giugno 2003, n. 134.

Gli argomenti enucleati dal giudice a quo – pure utilizzando la ragionata silloge giurisprudenziale riportata in narrativa impongono a questa Corte una accurata disamina sulla proposizione dialettica accordo delle parti-poteri di controllo del giudice, alla luce della normativa antecedente alla "novella", per verificare poi l’incidenza dello ius novum nel sistema congegnato dalla L. n. 134 del 2003.

Peraltro, una giurisprudenza ultradecennale circa la natura della decisione che applica la pena su richiesta non esonera questa Corte – come si vedrà, anche alla stregua dello ius novum – da un approfondito esame in proposito. Semmai, il nodo problematico da sciogliere è l’individuazione dell’effettivo significato del precetto (olim) contenuto nell’art. 445, comma 1, ultima parte (ora nell’art. 445, comma 1 bis), in base al quale "***** diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una sentenza di condanna".

Il fatto stesso che il legislatore si esprima in termini di mera equiparazione, omettendo, quindi, di istituire una vera e propria identificazione, tra sentenza che applica la pena e sentenza di condanna rende necessario ricorrere ad un modello interpretativo che non trascuri le applicazioni giurisprudenziali che hanno coinvolto le conseguenze direttamente derivanti da una sentenza di condanna e, di volta in volta, ritenute riferibili anche alla sentenza che applica la pena su richiesta.

4. La prima decisione delle Sezioni unite che affronta uno degli snodi cruciali della tematica circa la natura della sentenza di patteggiamento, quella, cioè, relativa al preciso ambito del dovere di motivazione al quale il giudice non può sottrarsi allorchè adotti una pronuncia a norma dell’art. 444 c.p.p. e segg., muove dal presupposto che una decisione di questo tipo contiene un implicito accertamento di responsabilità; un accertamento che non va espressamente motivato così come l’affermazione di responsabilità non deve essere espressamente dichiarata; quel che è certo, però, è che una simile decisione, non potendo qualificarsi una sentenza di condanna in senso proprio, è solo equiparata ad una sentenza di condanna. Se si trascuri per un momento il contrasto interpretativo che le Sezioni unite erano state chiamate a comporre e ci si soffermi sul reale contenuto della statuizione, si può verificare come l’inversione della portata precettiva dell’art. 445 c.p.p., comma 1, ultima parte (ora, art. 445 c.p.p., comma 1 bis, ultima parte) è più apparente che effettiva. Lo comprova la precisazione, contenuta nella stessa sentenza, secondo cui l’ordine di demolizione delle opere edilizie abusive, previsto dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 9, comma 9, può essere impartito anche con la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, atteso che detto provvedimento giurisdizionale è equiparato ad una sentenza di condanna a tutti gli effetti diversi da quelli espressamente previsti dall’art. 445 c.p.p., comma 1, (Sez. un., 27 marzo 1992, Di *********).

Due proposizioni sembrano emergere con rassicurante perentorietà dalla decisione adesso ricordata: la prima è che la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti non è una decisione di condanna, tanto è vero che non sono ad essa applicabili disposizioni compatibili soltanto con una sentenza di condanna, seguendo lo schema delineato, in negativo, dall’art. 445 c.p.p.; la seconda è che a tutti gli altri effetti la sentenza è equiparata ad una sentenza di condanna.

Un’equiparazione che non parrebbe dare adito a eccezioni di sorta al di fuori di quelle espressamente indicate da tale precetto. Più in particolare, conformemente al principio secondo cui la sentenza di patteggiamento contiene un’implicita affermazione di responsabilità, non sembrerebbe residuare spazio alcuno a limiti non derivanti espressamente dalla legge: limiti, questi, in qualche misura, ontologici perchè coessenzialmente incompatibili con la nozione stessa di decisione di condanna e perciò tali da designare l’equiparazione come corrispondente ad una vera e propria contradictio in adiecto; l’incompatibilità, cioè, non consentirebbe ad altri effetti tipici della sentenza di condanna di operare anche in riferimento alla decisione che applica la pena. Il tutto pure considerando che le eccezioni stabilite dall’art. 445, comma 1, non sempre attengono ad ogni sentenza di condanna. Lo comprova il regime dell’efficacia extra penale della decisione, una efficacia da qualificare come simmetrica alla sentenza di condanna – ma, questa volta, secondo un canone apprezzabile solo sul piano normativo – soltanto se questa sia stata pronunciata a seguito di dibattimento.

Una norma che, per la parte non riguardante il patteggiamento "anomalo", quello, cioè, in cui la decisione viene adottata dopo la chiusura del dibattimento, sembrerebbe dettata solo in funzione di tracciare un netto discrimine rispetto alla parallela disciplina stabilita per gli effetti extra penali derivanti da una sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato.

Nonostante le rationes decidendi siano parzialmente diverse da quelle ricavabili dalla sentenza Di *********, le ulteriori decisioni delle Sezioni unite sembrano informate al postulato ermeneutico alla cui base è l’equiparazione della sentenza che applica la pena alla sentenza di condanna, con la precisazione però che gli effetti equiparabili sono soltanto quelli che non risultino incompatibili con l’assenza di una piena cognitio da parte del giudice del patteggiamento; ricollegando, dunque, ad un rapporto di non compatibilità l’applicazione delle conseguenze derivanti da una sentenza di condanna.

Ciò si è verificato, però, trascurando che talune di quelle escluse dall’art. 445 c.p.p., comma 1, sono conseguenze che non possono derivare se non da una sentenza di condanna. Cosicchè, salva la necessità di affidare all’interprete il compito di ricavare dalla legge (con una metodologia tipicamente analitica) ogni sorta di esclusione "implicita", è gioco forza concludere che la natura della decisione di cui si discute non può essere individuata richiamando quelle situazioni che presuppongono il pieno accertamento di responsabilità o che espresse disposizioni di legge escludono dalla equiparazione.

Quanto alle prime, è agevole ribattere che se la sentenza che applica la pena implica un pieno accertamento di responsabilità ne potrebbe discendere non un’equiparazione alla sentenza di condanna, ma una vera e propria identificazione, diversificandosi le due sentenze solo per la fenomenologia procedimentale che ne costituisce il presupposto e che va apprezzata secondo rigorosi modelli normativi.

Quanto alle seconde, se le "diverse disposizioni di legge" vanno individuate al di fuori dell’art. 445 c.p.p., comma 1, utilizzando uno schema in grado di escludere che taluni effetti delle sentenze di condanna possano trovare applicazione anche per la sentenza di patteggiamento, l’operazione ermeneutica assume profili di estrema difficoltà ricostruttiva proprio considerando il precetto di chiusura dell’art. 445, comma 1. 5. Non è un caso che, chiamate a decidere circa l’applicabilità del regime di cui all’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, le Sezioni unite (Sez. un., 8 maggio 1996, Di ***, la prima decisione, che risolve lo specifico contrasto giurisprudenziale ora riproposto), muovano dalla proposizione dilemmatica incentrata sul quesito se la sentenza di patteggiamento abbia o no natura di sentenza di condanna.

Le progressioni interpretative sono, sul punto, estremamente significanti.

La Corte delinea l’esistenza di un triplice indirizzo giurisprudenziale alla cui base è proprio il tentativo di individuazione della natura della sentenza che applica la pena su richiesta.

Secondo un primo orientamento, il giudice avrebbe dovuto revocare, ai sensi dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, il beneficio della sospensione precedentemente concesso, o perchè la sentenza di patteggiamento presuppone comunque un accertamento di responsabilità ed ha, dunque, natura di sentenza di condanna, conseguendone l’effetto penale della revoca del beneficio o perchè in ogni caso, pure a prescindere dall’accertamento di responsabilità, la revoca della sospensione si sostanzia in un effetto penale che consegue automaticamente alla sentenza di patteggiamento, equiparata alla sentenza di condanna e, quindi, produttiva di tutti gli effetti propri di una simile pronuncia, senza che tali effetti possano essere neutralizzati dalla base negoziale che costituisce il fondamento della decisione; stando ad un secondo orientamento, la sentenza di patteggiamento non può contenere la statuizione sulla revoca di diritto della sospensione precedentemente concessa, sia in applicazione del principio della immodificabilità dell’accordo delle parti ad opera del giudice (un principio in ordine al quale si avrà occasione più avanti di soffermarsi), sia perchè la detta sentenza non implica alcun accertamento positivo e costitutivo di responsabilità dell’imputato, dal momento che si fonda su un accertamento incompleto, che non comporta una piena verifica cognitiva del fatto; un terzo orientamento, nel tentare una mediazione tra le prime due linee interpretative, afferma la necessità che la revoca della sospensione condizionale si conformi alla particolare natura del rito premiale, con la conseguenza che si dovrebbero ritenere sospesi gli effetti della revoca disposta con la sentenza di patteggiamento sino al compimento dei termini di cui all’art. 445 c.p.p., comma 2, sino, cioè, alla scadenza dei termini per l’estinzione, a date condizioni, del reato per il quale era intervenuta la sentenza di patteggiamento.

In presenza di tali differenziate opzioni ermeneutiche, le Sezioni unite dovettero necessariamente incentrare ogni verifica su due profili, tra loro, peraltro, complementari; vale a dire, la natura della sentenza ed i presupposti di operatività della revoca della sospensione condizionale.

Sotto il secondo aspetto – si è affermato – la revoca di diritto della sospensione non può prescindere dall’accertamento di una nuova responsabilità penale, che fa venire meno la prognosi di ravvedimento ed implica un giudizio di immeritevolezza rispetto al quale la revoca della sospensione assume una funzione sanzionatoria.

Una funzione che può essere concretamente perseguita solo postulando un accertamento "completo" quanto alla commissione del reato cui è connaturata l’esigenza che la colpevolezza sia affermata in esito ad un giudizio designato da una piena cognitio. In altri termini, la revoca è coessenziale al venir in essere della fattispecie che ne costituisce il presupposto e che si identifica nella pronuncia di una sentenza di condanna all’esito di un accertamento, anche qui, "completo" della responsabilità; senza, peraltro, definire, in presenza di riti differenziati contrassegnati da modelli processuali alternativi, quando tale "completezza" venga effettivamente a realizzarsi.

Quanto al primo profilo si è rimarcato come un simile evento non possa realizzarsi in forza della sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. e seguenti che non presuppone un accertamento pieno ed incondizionato sui fatti e sulle prove, perchè essa ha a fondamento l’applicazione di una pena senza giudizio, dato che non v’è dichiarazione di colpevolezza e la sua struttura è connotata dal mero riferimento all’accordo tra le parti sul merito dell’imputazione.

La conseguenza è, perciò, necessitata: dalla sentenza di patteggiamento può derivare qualunque altro effetto penale che sia con essa compatibile; che cioè non implichi l’ineludibilità dell’accertamento pieno della responsabilità dell’imputato.

Il giudice deve, pertanto, con la sentenza di cui all’art. 445 c.p.p., ad esempio, applicare quei provvedimenti sanzionatori di carattere specifico previsti da leggi speciali, che, data la loro natura amministrativa ed atipica (tra questi, l’ordine di demolizione della costruzione senza concessione), non postulano un giudizio di responsabilità penale e seguono di diritto alla sentenza di patteggiamento in virtù dell’equiparazione, nei limiti di compatibilità, alla sentenza di condanna. L’effetto penale della revoca della sospensione condizionale precedentemente concessa è un effetto incompatibile con la sentenza che applica una pena concordata dalle parti, perchè essa non si fonda sull’accertamento pieno di responsabilità.

Anche a prescindere dalle argomentazioni critiche rivolte a tale sentenza dalla dottrina, un dato ermeneutico – che subito si segnala, perchè esso implica notevoli perplessità – pare per la prima volta emergere dalla decisione in esame; quello, cioè, secondo cui l’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna è proposizione normativa non definibile in termini di stretta interpretazione; nel senso che, pur avendo l’art. 445 c.p.p., comma 1, ultima parte, "equiparato", salve "diverse disposizioni di legge", la sentenza che applica la pena su richiesta ad una sentenza di condanna, tale equiparazione non è incondizionata dovendo confrontarsi con la compatibilità degli effetti della sentenza di patteggiamento con quelli propri della sentenza di condanna.

A ben vedere, però, l’argomento di fondo per pervenire all’effetto preclusivo è uno di quelli che, pur penetrando davvero in medias res, sembra in gran parte discostarsi dai principi affermati dalla sentenza Di *********.

Presupposto per la revoca di diritto della sospensione condizionale è l’accertamento della responsabilità che, facendo venir meno la prognosi di ravvedimento a suo tempo espressa, comporta un giudizio di immeritevolezza rispetto al quale la revoca della sospensione si pone come misura di tipo sanzionatorio. Ma tale giudizio richiede necessariamente un accertamento di responsabilità dotato di quelle caratteristiche di completezza conseguibili solo a mezzo di una sentenza che sia pronunciata a conclusione di un "giudizio, con piena cognitio del reato e della pena".

La decisione richiama – per la verità, ribaltandolo, con riverberi ermeneutici agevolmente intuibili – il regime della equiparazione, tanto da rendere eccezionale quella che l’art. 445 c.p.p., comma 1, definiva un assetto configurato normativamente come immancabile, salvo diverse disposizioni di legge. Ed è estremamente significativo riscontrare come la decisione in esame, lungi dall’evocare trattamenti incompatibili con una pronuncia di condanna non derivanti dal regime premiale delineato dall’art. 445 c.p.p., comma 1, faccia riferimento, per delimitare concettualmente l’equiparazione dalla identificazione, proprio all’assenza di "alcuni effetti tipici della sentenza di condanna, quali il pagamento delle spese processuali, l’applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza".

Ciò senza contare i profili teleologici che attengono, nello specifico, al precetto dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, che – come è stato osservato – sono speculari alla dinamica della sospensione condizionale della pena. Tanto che, così come la concessione del beneficio presuppone un giudizio di "meritevolezza" derivante da una prognosi di non recidivanza, la revoca della sospensione è, a sua volta, funzionale ad una prognosi di "non meritevolezza" destinata a demolire il giudizio precedentemente formulato.

Cosicchè è ancora all’elemento normativo che occorre riferirsi al fine di pervenire a quel giudizio di valore sopra rammentato.

L’equiparazione non può essere diversamente intesa se non considerando che all’esito della procedura speciale viene applicata una pena; con la conseguenza che – anche superando i profili definitori incentrati sulla natura della sentenza – diviene costituzionalmente necessitato il giudizio negativo insito nella decisione resa sull’accordo delle parti, non foss’altro alla stregua del precetto dell’art. 27 Cost., commi 2 e 3, secondo il modello già disegnato dalla sentenza costituzionale n. 313 del 1990. 6. Le medesime argomentazioni sono poste a base della immediatamente successiva decisione, pronunciata in forza della rimessione, significativamente vicina nel tempo, della medesima questione alle Sezioni unite che ribadiscono – per di più ampliandone la valenza interpretativa – i principi di diritto già espressi nella precedente decisione (Sez. un., 26 febbraio 1997, Bahrouni).

Proprio perchè – si afferma – la sentenza di patteggiamento non è preceduta da un accertamento pieno e completo sulla sussistenza del fatto reato e sulla riconducibilità dello stesso all’imputato, essa non può giustificare la revoca della sospensione condizionale che postula sempre, anche quando segue alla doverosa ricognizione di una decadenza dal beneficio ope legis, un accertamento completo in ordine alla colpevolezza. Una sentenza che può intervenire in uno stadio iniziale delle indagini preliminari, quando agli atti del fascicolo vi è poco più di una notizia di reato o anche solo la semplice notizia di reato; e che, quindi, si fonda solo su una "mera ipotesi", con un’eccentricità evidente rispetto alle ordinarie sentenze di condanna.

Il giudice – è vero – dispone di poteri di controllo sull’accordo delle parti, che non possono dirsi "notarili", ma gli è comunque precluso di indagare sulle determinazioni che hanno indotto l’imputato ad una siffatta scelta.

Il controllo giudiziale è – si afferma – meramente estrinseco, limitato alle risultanze disponibili e sempre condizionato dal contenuto dell’accordo. La richiesta dell’imputato, o il suo consenso alla richiesta di pena formulata dal pubblico ministero, non significano – anche qui – un riconoscimento, sia pure implicito, di responsabilità, perchè l’ammissione di non disporre, allo stato, di elementi utili per dimostrare l’insussistenza del reato non equivale ad un riconoscimento della colpevolezza, secondo un regime comprovato sia dall’assenza di ogni effetto giuridico della richiesta di pena non condivisa dall’altra parte o anche della congiunta richiesta poi non accolta dal giudice sia dalla doverosità della verifica giudiziale dell’eventuale sussistenza delle condizioni per un proscioglimento immediato, pur quando il giudice ritenga che l’accordo tra le parti possa essere accolto.

Nel vigente sistema processuale, incentrato sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, la dichiarazione confessoria non può mai sollevare il pubblico ministero dall’onere della prova;

nè, ancora, può affermarsi, data l’attribuzione in via esclusiva al giudice dei poteri di accertamento del reato, che la mancata contestazione del reato stesso da parte dell’imputato tenga luogo dell’accertamento della responsabilità.

L’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna rileva soltanto nell’ambito degli aspetti positivi dell’affinità, e quindi soltanto per l’applicazione della pena, dissolvendosi in riferimento all’altra componente essenziale della sentenza di condanna, che è l’accertamento della responsabilità.

Non a caso, infatti, l’art. 445 c.p.p., nell’indicare gli incentivi premiali, escludendone altri in deroga alla disciplina generale degli effetti penali della condanna, si riferisce soltanto a quelli che, correlati all’applicazione della pena, sarebbero rientrati nell’ambito dell’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, non potendo la norma prendere in esame effetti che mai sarebbero potuti derivare per l’assenza nella sentenza di patteggiamento della componente essenziale da cui promanano, e cioè l’accertamento della responsabilità.

La revoca della sospensione condizionale della pena non poteva essere compresa tra gli effetti penali esclusi, in funzione incentivante, in caso di patteggiamento, perchè essa è un effetto estraneo alla previsione della norma dell’art. 445 c.p.p., correlato non già all’applicazione della pena ma all’accertamento di responsabilità.

Le Sezioni unite, ricordato che l’art. 445 c.p.p., comma 1, con l’indicare gli incentivi premiali diretti a favorire l’accesso a quel tipo di procedimento, escludendo alcuni di essi, "si riferisce soltanto a quelli che, per essere correlati all’applicazione della pena e non già al riconoscimento di responsabilità dell’indagato, non potevano che conferire, a pieno titolo, nell’ambito operativo di quel rapporto di affinità che dalla stessa norma era stato riconosciuto tra il provvedimento conclusivo di quel procedimento speciale e la categoria della sentenza di condanna", ne fanno derivare che "una deroga alla disciplina generale concernente gli effetti di una pronuncia di condanna in tanto poteva essere razionalmente ideata e organicamente disposta in quanto quegli stessi effetti potessero avere una loro concreta possibilità di attuazione e, quindi, potessero trarre origine dal contenuto del provvedimento al quale si ricollegano".

La conclusione è, dunque, nel senso che l’art. 445 c.p.p., comma 1, non può che riferirsi ad effetti che sarebbero potuti derivare dalla sentenza di applicazione di pena; così, da un lato, enucleando il regime delle deroghe rispetto alla disciplina comune delle sentenze di condanna, dall’altro lato, inferendone che l’inserimento, quale norma di chiusura, del principio di equiparazione è da intendere "pur sempre nell’ambito di quel rapporto di equiparazione che in tanto era giustificato in quanto poggiava su una componente costante della pronuncia di condanna, e cioè l’applicazione di una sanzione penale".

L’assetto così congegnato ha avuto il merito di chiarire il valore significante del regime di equiparazione, se intimamente ricollegato alle identità piuttosto che alle diversità di contenuto fra sentenza di applicazione della pena e sentenza di condanna.

Con corrispondente riduzione di tali effetti, pur indicati in via esemplificativa, a quelli operanti nella fase esecutiva di una sentenza di condanna.

D’altro canto, appare forse esorbitante una eccessiva concettualizzazione della natura della pronuncia al fine di risolvere lo specifico quesito sottoposto all’esame delle Sezioni unite. Non va dimenticato che la regola stabilita dall’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, sta a designare una revoca caratterizzata da profili meramente formali perchè tale norma prevede la "revoca di diritto" qualora nei termini stabiliti il condannato (nel processo che si è concluso con l’applicazione del benefici) commetta un delitto per il quale venga inflitta una pena detentiva. Il che sta a significare che la pronuncia si sostanzia in una decisione di mero accertamento di un decadenza che si è verificata di diritto al momento stesso della formazione del giudicato della sentenza di condanna per il reato commesso nel termine di esperimento. Il tutto in sintonia con la costante giurisprudenza di questa Corte che annovera la revoca della sospensione condizionale della pena tra gli effetti penali della condanna (cfr. Sez. un., 20 aprile 1994, *****) intesi come quegli effetti, dei quali il codice penale non fornisce la nozione nè indica il criterio generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti come quelli discrezionali della pubblica amministrazione, ancorchè aventi nella condanna il necessario presupposto, per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorchè incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale; con la conseguenza che la revoca della sospensione condizionale della pena ha per presupposto necessario la pronuncia di una sentenza di condanna, non il mero accertamento di un fatto costituente reato.

Ne deriva allora che sia la decisione Di *** sia la decisione Bahrumi rischiano di enfatizzare a dismisura la lettera dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, vale a dire l’accertamento della responsabilità penale che si ritiene insito nell’espressione "commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena detentiva", così da trascurare che il nodo cruciale da affrontare non è tanto l’accertamento di responsabilità quanto il regime di equiparazione.

6. Le Sezioni unite (Sez. un., 22 novembre 2000, *******) sono intervenute, ancora una volta, sulla medesima questione, specificamente nella prospettiva di una presunta contraddizione tra l’affermazione della non revocabilità della sospensione precedentemente concessa in caso di applicazione di pena patteggiata e l’affermazione della non concedibilità della sospensione in caso di successiva condanna una volta che lo stesso soggetto sia già stato destinatario della sospensione di una pena applicata su richiesta, sempre che, ovviamente, siano superati i limiti di pena previsti dall’art. 163 per la concessione della sospensione condizionale.

Si ribadisce che la denunciata contraddizione non appare esistente, pur potendo discutersi (ed è la prima proposizione problematica riferibile alla specifica materia) se la sentenza di patteggiamento sia o non sia una sentenza che accerta e afferma la responsabilità.

La natura della sentenza di patteggiamento non incide, infatti, in alcun modo sul regime dell’impossibilità di reiterazione del beneficio della sospensione, avendo tale impossibilità il suo fondamento non nell’accertamento della responsabilità ma nell’applicazione della pena, e quindi proprio nella pena.

La diversa prospettiva ermeneutica, che potrebbe divenire davvero dirimente, non va peraltro fraintesa, perchè essa viene a profilarsi solo successivamente all’effettiva enucleazione delle rationes decidendi alla base della statuizione.

Ricordato che l’impossibilità di ottenere la sospensione condizionale in conseguenza di una o più condanne precedenti costituisce un tipico effetto penale della condanna, inteso come conseguenza negativa derivante de iure, le Sezioni unite precisano che la previsione contenuta nell’art. 445 c.p.p., secondo cui in caso di estinzione del reato si estingue ogni effetto penale, ivi compreso l’impedimento alla concessione di una successiva sospensione se è stata applicata con la sentenza di patteggiamento una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva – ripete il contenuto dell’art. 178 c.p. in tema di riabilitazione, laddove prescrive che la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale, salvo che la legge disponga altrimenti.

E la legge dispone altrimenti proprio in tema di sospensione condizionale della pena, nel senso che, se con la sentenza di patteggiamento è stata applicata una pena detentiva, di questa pena deve tenersi conto ai fini di una successiva sospensione, anche nel caso di estinzione del reato, così come si verifica in caso di riabilitazione.

Si ha così che l’effetto penale, per patteggiamento a pena detentiva, dell’impedimento alla concessione della sospensione in caso di successiva condanna non è attinto dall’eventuale estinzione del reato ed a maggior ragione non può essere paralizzato prima dell’estinzione.

Dal momento poi che la sentenza di patteggiamento è equiparata dalla legge alle sentenze di condanna, essa comporta la revoca della sospensione condizionale nel caso regolato dall’art. 168 c.p., comma 1, n. 2, ossia quando è riportata un’altra condanna per un delitto anteriormente commesso, con irrogazione di una pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, supera i limiti previsti dall’art. 163 c.p..

In questo caso, infatti, presupposto della revoca non è – come nell’ipotesi di cui all’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, – l’accertamento e l’affermazione di responsabilità, ma il mero superamento, per cumulo delle pene, del limite imposto dall’art. 163 c.p..

La sospensione condizionale non muta natura e regime allorchè sia concessa con la sentenza di patteggiamento, tanto che potrà e dovrà essere revocata quando, come nel caso contemplato dall’art. 168 c.p., comma 1, n. 2, non è in rilievo la natura della sentenza di patteggiamento, ma esclusivamente la misura, la quantità, della pena inflitta.

Anche il contenuto della sentenza ******* rivela una certa approssimazione nel definire gli effetti derivanti dalla equiparazione rispetto a quelli derivanti dall’identificazione;

ciò che più importa, seguendo un modello ermeneutico attento a valorizzare più le affinità che le differenze.

9. La conferma di una certa vischiosità interpretativa che contrassegna le soluzioni ermeneutiche delle Sezioni unite di questa Corte è riscontrabile solo alla luce di quella giurisprudenza che, proprio dalla natura della decisione che applica la pena su richiesta, ricava conclusioni, ancora una volta, in merito alla interpretazione del precetto dell’art. 445 c.p.p., comma 1, ultima parte.

Chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale circa l’applicabilità, a seguito di sentenza di patteggiamento, di sanzioni amministrative accessorie, quale la sospensione della patente di guida, le Sezioni unite, dopo aver ricordato che il parametro per l’accertamento da cui consegue l’applicazione e la determinazione della misura della sanzione, in concreto non possono essere diversi da quelli previsti in generale per l’autorità amministrativa, hanno precisato che, poichè la formula "accertamento del reato" adottata dalla legge per l’applicazione di sanzioni amministrative accessorie in conseguenza di un reato deve intendersi nel senso che è istituito un collegamento tra l’effetto automatico dell’applicazione della sanzione accessoria ed un esito del procedimento penale "che presuppone un fatto al quale accede la sanzione amministrativa", ne hanno tratto la conclusione che un simile accertamento non è escluso nella procedura dell’applicazione di pena su richiesta solo considerando che il giudice è tenuto a controllare la legalità dell’accordo tra le parti, con l’apprezzamento nella verifica di corrispondenza del fatto alla fattispecie, degli aspetti che "la norma speciale tiene in considerazione ai fini dell’applicazione della sanzione amministrativa" (Sez. un., 27 maggio 1998, *****).

Al di là del richiamo alla tipologia di accertamento, non è difficile riscontrare come l’effettiva ratio decidendi che è a fondamento di tale pronuncia risulti accentrata proprio sull’equiparazione alla sentenza di condanna della sentenza che applica la pena. Secondo un canone, del resto, perseguito pure dalla statuizione stando alla quale anche nel procedimento di applicazione della pena su richiesta, in caso di connessione tra reato e violazione non costituente reato, il giudice competente a conoscere del reato è competente a decidere sulla violazione non costituente reato e ad applicare la sanzione per essa stabilita; in tale procedimento, infatti, il giudice accerta l’intero fatto, pur nei limiti della sua cognizione allo stato degli atti (Sez. un., 21 giugno 2000, *******).

Pare evidente che le statuizioni della sentenza Di Benedetto quanto all’interpretazione da assegnare all’art. 445 c.p.p., comma 1, ultima parte, risultino decisamente sfumate da tali decisioni, a cui fondamento sembra inserirsi l’endiadi sentenza di condanna-sentenza equiparabile ad una sentenza di condanna, non tanto in relazione alla natura della decisione quanto con riguardo alla tipologia di effetti compatibili con la semipiena cognitio che contrassegna la sentenza di patteggiamento.

10. Entro la medesima prospettiva viene superato anche l’ostacolo derivante dall’assenza di un contenuto di accertamento proprio della sentenza che applica la pena rispetto alla dichiarazione di falsità di documenti ex art. 537 c.p.p..

Questa Corte aveva pressochè costantemente statuito che con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti il giudice è tenuto a dichiarare la falsità di atti o documenti accertata nel corso del giudizio (Sez. 5^, 22 aprile 1998, ******;

Sez. 5^, 9 marzo 1993, Di Russo; Sez. 6^, 4 luglio 1992, Cinque; Sez. 6^, 4 luglio 1992, *******; Sez. 6^, 4 luglio 1992, *********), trattandosi di sentenza equiparata ad una sentenza di condanna; e ciò indipendentemente dalle pattuizioni delle parti (Sez. 5^, 26 aprile 1999, *********; Sez. 5^, 13 febbraio 1996, Strali) e dal riconoscimento della penale responsabilità dell’imputato (Sez. 5^, 23 giugno 1998, Di Sarno; Sez. 5^, 19 marzo 1992, *******).

Un simile orientamento interpretativo costituiva, dunque, l’espressione di un vero e proprio diritto vivente, nonostante i problemi di compatibilità con la giurisprudenza delle Sezioni unite penali sopra rammentata, secondo cui la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p. non è una vera e propria sentenza di condanna.

In presenza di un virtuale contrasto giurisprudenziale e di profonde perplessità da parte della dottrina, attenta a rimarcare come il patteggiamento rappresenti comunque un giudizio allo stato degli atti, un modello del tutto incompatibile con la decisione di cui all’art. 537 c.p.p. che postula una pronuncia – sia di condanna sia di proscioglimento – che accerti la falsità del documento, le Sezioni unite hanno enunciato il principio di diritto in base al quale con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, che è decisione equiparata ad una sentenza di condanna, il giudice è tenuto a dichiarare, ai sensi dell’art. 537 c.p.p., comma 1, l’accertata falsità di atti o di documenti, precisando che la dichiarazione di falsità prescinde dall’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, essendo fondata esclusivamente sull’accertamento – che si rende possibile anche nel giudizio speciale di patteggiamento, pur nei limiti di una cognizione "allo stato degli atti" – della non rispondenza al vero dell’atto o del documento (Sez. un., 27 ottobre 1999, ********).

La giurisprudenza di questa Corte fa, dunque, ritenere incontrastata la possibilità di dichiarare la falsità di documenti anche in conseguenza di una sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti, se e semprechè al summatim conoscere che designa una simile procedura faccia da riscontro l’avvenuto accertamento della falsità che il giudice è – come per ogni altra statuizione – tenuto a motivare, così da consentire il sindacato sulle sue statuizioni accessorie.

La decisione non consente alternative. Per un verso, infatti, la legge non prevede strumenti che tendano a risolvere le (solo apparenti) antinomie derivanti dalla statuizione del giudice investito della cognizione del reato (in una logica assolutamente antitetica a quella corrispondente all’accertamento della responsabilità, che presuppone comunque, in tema di falso, proprio l’accertamento della non rispondenza al vero dell’atto o del documento); per un altro verso, la soppressione dell’incidente di falso ha relegato i compiti di accertamento della falsità ad un ruolo meramente incidentale (cfr. art. 241 c.p.p.) al di fuori dell’orbita dell’art. 537 c.p.p..

Ma il richiamo all’assoluta compatibilità tra una sentenza che non pronuncia la condanna dell’imputato e l’accertamento di non rispondenza al vero dell’atto o del documento appare davvero dirimente; per di più, in un regime che consente l’applicazione della norma adesso ricordata anche nel caso di proscioglimento.

La decisione sembra contenere, però, un ulteriore significativo argomento: quello, cioè, relativo al potere attribuito al giudice, nell’ambito della procedura di cui all’art. 444 c.p.p. e seguenti di accertare i fatti e di valutare il merito – sia pure, almeno così sembra di comprendere, non per la via del mero accertamento incidentale – senza che ciò comporti la necessaria finalizzazione all’affermazione di colpevolezza dell’imputato e alla pronuncia di condanna (in tali termini, Sez. un., 27 ottobre 1999, ********).

10. Una difformità di indirizzi interpretativi si è registrata in merito alla questione della sottoponibilità a revisione delle sentenze di patteggiamento, ad ulteriore conferma di come l’eccentricità dell’istituto abbia generato non pochi problemi alla ricerca di una difficile compatibilità con i principi di fondo dell’ordinamento processuale.

Alla luce delle acquisizioni in punto di ontologica diversità tra la sentenza di patteggiamento e la sentenza di condanna, per l’assenza nella prima di un accertamento del reato e di un giudizio di colpevolezza, oltre che della giurisprudenza costituzionale che le ha espressamente negato la natura di sentenza di condanna, le Sezioni unite (Sez. un., 25 marzo 1998, **********) hanno escluso che la sentenza con la quale viene applicata una pena su richiesta possa essere assoggettata a revisione, sul presupposto che sono soggette a revisione solo le pronunce di condanna con accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e delle prove.

E’ apparso allora ragionevole negare la revisione delle sentenze di patteggiamento rispetto alle quali è strutturalmente impossibile.

In assenza di un conflitto di prove non può darsi luogo ad un raffronto tra un nuovo significativo materiale probatorio e l’inesistente acquisizione probatoria che ha preceduto l’adozione della sentenza di patteggiamento, pronunciata, per espressa previsione di legge, sulla base degli atti, che appunto non sono prove. Una volta che l’imputato rinuncia al diritto alla prova in cambio di un vantaggioso trattamento penale, non è possibile che sia posto in condizione di sottrarsi ai rischi della sua scelta con un indebito trattamento di favore rispetto al pubblico ministero che, formato l’accordo sulla pena, non ha più possibilità di articolare la prova per contrastare l’iniziativa di revisione.

Sarebbe poi fortemente contraddittorio che il sistema consentisse un giudizio, con la revisione della sentenza, dopo avere con l’accordo delle parti impedito il giudizio.

L’utilizzazione dell’endiadi sentenza equiparabile-sentenza non equiparabile a una sentenza di condanna – e sotto tale profilo la ratio decidendi si rivela solo in parte analoga a quella a base della decisione in tema di revoca della sospensione condizionale della pena ex art. 178 c.p., comma 1, – viene a collocarsi in una posizione di diretta antinomia con la norma complementare che prevede la revisione. Quel che è opportuno ricordare è che in tale caso il criterio della "incompatibilità ontologica", latente in numerose decisioni delle Sezioni unite che non hanno ravvisato nella disposizione dell’art. 445 c.p.p., comma 1, una norma di stretta interpretazione – viene utilizzato, questa volta in malam partem, inibendo l’accesso al mezzo straordinario di impugnazione per non potersi definire la sentenza che applica la pena su richiesta una decisione di condanna.

Per la verità, dalle statuizioni delle Sezioni unite emerge soprattutto la preoccupazione di rendere compatibile il regime della revisione con una sentenza fondata sul summatim conoscere che caratterizza la procedura designandola di aspetti assolutamente peculiari, considerata l’assenza di una piena cognitio condizionante ogni possibilità di qualificare la sentenza ex art. 444 c.p.p. e seguenti come una sentenza di condanna. Sarebbe stata, forse, molto più agevole una lettura della norma sulla base delle coordinate costituzionali che sono a base del giudizio di revisione per pervenire ad una soluzione di diverso tipo, peraltro corrispondente all’interpretazione seguita dalla giurisprudenza allora prevalente.

Ciò anche considerando che il modello procedimentale risulta in gran parte ridimensionato ai fini sopra indicati solo riflettendo sulla possibilità di accedere alla revisione nei confronti del decreto penale divenuto esecutivo. Tanto da inferirne che solo apparentemente è il modello procedimentale a precludere il ricorso alla revisione e ad individuare l’effettiva ratio decidendi a fondamento della linea seguita dalle Sezioni unite e che può sintetizzarsi nella ravvisata esistenza di una costruzione legislativa di un regime di equiparazione "a determinati fini", così assegnando una ridondante valenza ermeneutica al modello ontologico pur in presenza del chiaro regime di equiparazione. Del resto, la demolizione di quel che si è definito sistema di "incompatibilità ontologica" (presupposto per la equiparazione circoscritta "a determinati fini") sarà destinata a rivelarsi la risultante di scelte normative – assunte, per di più, nonostante il chiaro precetto dell’art. 445 c.p.p., comma 1 – come è dimostrato dall’introduzione della disciplina della revisione anche con riferimento alla sentenza che applica la pena su richiesta, in forza della L. n. 134 del 2003, art. 3.

E’ evidente, allora, come la sentenza delle Sezioni unite in tema di revisione assuma valenza interpretativa ancor più significante rispetto alla decisioni della Corte di cassazione nella sua più ampia composizione sulla problematica ora all’esame della Corte.

Le conseguenze afflittive (prima fra tutte l’applicazione della pena) sono sottratte al mezzo straordinario di impugnazione, nonostante l’attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza alla necessità di plasmare l’istituto della revisione alla stregua delle peculiarità del rito, contrassegnato da una verifica di procedibilità legata esclusivamente al precetto dell’art. 129 dello stesso codice.

Quel che, peraltro, occorre qui rimarcare è che in tema di revisione le Sezioni unite hanno esplicitato il rifiuto del principio di equiparazione, per giunta direttamente ricollegandolo al profilo negoziale, quasi che il corredo di incentivi premiali conseguenti alla ‘rinuncia a contestare l’accusa" implichi la forzata rimozione all’accesso ad ogni strumento impugnatorio in grado di restituite la verità dei fatti nella sua concreta effettività. Una soluzione di davvero poco agevole comprensione e che si rivela doppiamente contrastante con i principi costituzionale sopra ricordati; per un verso, perchè il regime convenzionale non può, nell’ottica della Corte, costituire il presupposto per una decisione "in ipotesi", ontologicamente incompatibile con il mezzo straordinario di impugnazione; per un altro verso, perchè è l’assetto negoziale a supplire – salvo i limiti derivanti dal controllo da parte del giudice della cognizione – a verifiche postume rigorosamente procedimentalizzate in grado di dissolvere il patto e di ricondurre il giudicato alla realtà probatoria accertata nel postgiudicato.

12. Passando ad esaminare ora lo ius novum, va subito rammentato che le prime vere e proprie innovazioni del quadro normativo riguardanti l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta si devono alla L. 16 dicembre 1999, n. 479. E si tratta di interpolazioni prescrittive di non trascurabile rilievo; pur dovendosi convenire che struttura e funzione del patteggiamento restino, nel loro nucleo essenziale, apparentemente indifferenziati rispetto alla precedente disciplina.

Nonostante le "novellazioni" derivino direttamente da statuizioni demolitorie ultranovennali della Corte costituzionale (più in particolare dalle sentenze 313 del 1990 e 443 del 1990), è significativo rimarcare come le varianti apportate al testo originario, che hanno rimodellato il precetto dell’art. 444 c.p.p., comma 3, con l’introduzione della previsione espressa del giudizio sulla "congruità della pena" e della condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile assumamo valenza molto più significante rispetto a quanto la corrente interpretazione dell’istituto lasci intravedere. E ciò, non tanto per il contenuto del detto rimodellamento, quanto perchè esso viene in essere in presenza di quel – più volte evidenziato – sincretismo interpretativo che aveva contrassegnato, negli anni successivi al 1990, l’individuazione della misura e dei limiti del controllo del giudice sull’assetto predisposto dalle parti; così, quasi da ricondurre il punto di rilevanza ermeneutica – con intuibili riverberi anche sulla natura della sentenza di applicazione della pena – al contenuto delle affermazioni di principio incentrate sul "primato" del controllo giurisdizionale rispetto alla regolamentazione negoziale che costituisce il presupposto del procedimento. Una canonizzazione legislativa – soprattutto quella riguardante la congruità della pena – che, per lo stesso contesto in cui veniva ad assumere valenza esponenziale, rappresentava, proprio per il momento in cui era stata introdotta, un dato ineludibile per il legislatore futuro; un punto fermo in grado di condizionare ogni ulteriore rimodulazione dell’istituto. Senza voler qui anticipare i complessi profili problematici cui darà vita la "novella" del 2003, il "ritorno al passato" alla base della L. n. 479 del 1999 esprime una scelta assolutamente significante, rispetto ad una giurisprudenza costituzionale ed ordinaria oscillante sulla prevalenza del metodo interpretativo, assegnandola – quale condizione per la stessa validità dell’accordo – ora all’assetto negoziale ora al momento giurisdizionale.

Il giudizio di congruità, divenuto da criterio eccezionale operante solo in forza di un accertamento di responsabilità secondo lo schema delineato dall’art. 448 c.p.p., diviene così lo specimen, legislativamente predisposto, di ogni controllo del giudice, secondo un schema costituzionalmente obbligato.

Si deve, inoltre, alla L. n. 479 del 1999, attraverso l’interpolazione di alcune disposizioni del titolo 2^ del libro 6^, in grado di imporre la definizione consensuale del procedimento seguendo un disegno analogo a quello previsto per il giudizio abbreviato, allo scopo di evitare tardivi mutamenti di rotta in limine iudici, l’accentuazione dei profili in grado di accomunare maggiormente il regime dei riti di risoluzione anticipata. In più, le disposizioni, marcatamente deflattive cui si ispira l’intervento del legislatore, hanno suggerito la contestuale predisposizione di un meccanismo di recupero postumo dell’applicazione della pena proprio nella fase introduttiva del giudizio dibattimentale per l’imputato che sia intenzionato a rinnovare la richiesta di patteggiamento, anche diversamente articolata, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. La peraltro alquanto epidermica, rimodellazione del rito non ha prodotto gli effetti sperati; tanto – sia detto per inciso – da far dubitare che il congegno così predisposto sia in grado di attuare quella ragionevole durata del processo alla base delle varianti adesso rammentate.

13. Come è noto, il testo originario dell’art. 445 c.p.p., comma 2, prevedeva che la sentenza di applicazione della pena, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Un precetto interpretato ora come istitutivo di un premio-incentivo per la scelta di un modello deflattivo ora come conseguenza "naturale" di tale tipo di sentenza considerato che la decisione non contiene un’affermazione di responsabilità; pure se nell’ipotesi prevista dall’art. 448 diviene difficile giustificare la non identificazione di una simile pronuncia, adottata all’esito del dibattimento, con una sentenza di condanna. Sennonchè, il modello prescelto dal legislatore sembrerebbe propendere per la ratio premiale, come pare dimostrato dalla prescrizione secondo cui quando la sentenza è pronunciata nel giudizio di impugnazione, il giudice decide sull’azione civile a norma dell’art. 578 c.p.p..

D’altro canto, il regime previsto dall’art. 651 c.p.p. ha riferimento alla sola sentenza pronunciata in esito a dibattimento (o a giudizio abbreviato, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il giudizio abbreviato); seguendo un modello che, peraltro, va valutato in chiave di esclusivo diritto positivo, da non ricollegare necessariamente alla definizione del procedimento in contraddittorio. Lo comprova la circostanza che il codice di procedura penale del 1930 prevedeva l’efficacia del decreto penale di condanna anche nei giudizi civili o amministrativi per le restituzioni o il risarcimento del danno. Ne discende, dunque, che – così come per il decreto penale (art. 460, comma 5) – la scelta del legislatore prescinde da dati sistematici (o, addirittura, da profili ontologici) per predisporre, invece, una disciplina-incentivo (come sembra desumersi dall’art. 651, da interpretare, sul punto, in stretta correlazione sia con l’art. 445 c.p.p., sia con l’art. 460).

A confermare univocamente le considerazioni che precedono diviene davvero pertinente il richiamo alla L. 27 marzo 2001, n. 97, che ha modificato il regime dei rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo disciplinare – per quel che qui direttamente interessa – sotto un duplice ordine di profili. A parte l’equiparazione della sentenza di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento a quella pronunciata in esito a giudizio abbreviato o di non luogo a procedere, nell’art. 653 c.p.p. è stato inserito un comma 1 bis che sancisce l’efficacia di giudicato delle sentenze penali irrevocabili di condanna nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato l’abbia commesso. A sua volta, la L. n. 97 del 2001, art. 2, aveva inserito nell’art. 445 c.p.p., secondo periodo, comma 1, riguardante gli effetti extra penali della sentenza di patteggiamento, le parole "Salvo quanto previsto dall’art. 653" (v., ora l’art. 445 c.p.p., comma 1 bis).

Da ciò è dato rilevare, dunque, che – almeno ai fini disciplinari – il combinato disposto dei precetti ora ricordate lascia ampi spazi di riflessione sul tema della natura della sentenza di patteggiamento anche ai fini del quesito ora al vaglio della Corte.

Si vuol dire, cioè, che l’efficacia extra moenia della sentenza che applica la pena su richiesta (sia pure circoscritta all’ambito della sola responsabilità disciplinare) travalica lo stesso ambito dell’efficacia extra penale della sentenza penale, tradizionalmente limitata (v. artt. 3, 21, 27 e 28 c.p.p. del 1930) alla sentenza pronunciata in esito a dibattimento; con in più seguendo lo schema corrispondente all’efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio di danno derivante da reato.

Il contenuto di "accertamento" ricavabile dal precetto dell’art. 653, comma 1 bis, appositamente richiamato dall’art. 445, comma 1 bis, non potrebbe mai designare una decisione in ipotesi di responsabilità, rivelando invece l’intento del legislatore di sottrarre dalla disciplina derogatoria (ma secondo canoni che eccedono lo stesso ordinario assetto degli effetti extra penali della sentenza di condanna, che avrebbe giustificato l’avverarsi dell’effetto extra penale della sola sentenza "pronunciata dopo la chiusura del dibattimento") gli effetti della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti. Con ciò confermando la stretta interpretazione del precetto dell’ultimo periodo dell’ora ricordato art. 445 c.p.p., comma 1 bis ed il contenuto di accertamento che contrassegna anche la decisione che applica la pena su richiesta.

Il valore innovativo della disposizione – che rappresenta, quali che possano essere state le finalità perseguite dal legislatore, il vero punto di passaggio verso una effettiva rimodulazione del patteggiamento – non pare in alcun modo scalfito dalla sentenza costituzionale n. 394 del 2002, che ha dichiarato l’illegittimità della L. n. 97 del 2001, art. 10, comma 1, nella parte in cui prevede che gli artt. 1 e 2 della stessa legge si riferiscono anche alle sentenze di applicazione di pena su richiesta pronunciate anteriormente alla sua entrata in vigore.

Tale decisione, infatti, nel suo riferirsi al solo regime intertemporale, già resta designata da limiti intrinseci alla sua stessa valenza demolitoria; ma è la ratio decidendi che ne costituisce la base argomentativa a rivelare come la Corte non abbia mancato di cogliere il valore addirittura dirimente della innovazione; una caratteristica che, certo, avrebbe – a regime – determinato, come è dato inferire dall’assetto complessivo della statuizione, conclusioni di diverso tipo.

La Corte, infatti, pur insistendo sulla "componente negoziale" tipica del patteggiamento, ha dichiarato illegittima la detta disposizione per avere escluso il "beneficio" anche successivamente alla sentenza di patteggiamento, tanto da modificare in peius "effetti salienti dell’accordo suggellato" dalla sentenza di applicazione di pena su richiesta; così seguendo un modello che assegna valenza esponenziale al profilo dell’accordo tra pubblico ministero e imputato sul merito dell’imputazione. L’imputato, cioè, è posto di fronte ad un’alternativa che investe principalmente il suo diritto di difesa:

concordare la pena ed uscire rapidamente dal processo ovvero esercitare la facoltà di contestare l’accusa. Cosicchè, in forza della normativa denunciata, viene attribuito al consenso prestato l’ulteriore significato "di una rinuncia alla difesa anche nel successivo procedimento disciplinare".

Una decisione, dunque, che pur accentuando ancora una volta il profilo negoziale, sembra lasciare integra – anzi, pare rafforzare la percezione di un mutamento di fondo del regime della sentenza che applica la pena su richiesta – ogni riflessione sulla tipologia di accertamento giudiziale e sugli elementi, di merito, cui si riferisce l’art. 653, comma 1 bis, e sulle modalità attraverso le quali è possibile al summatim cognoscere che circoscrive i poteri di controllo del giudice del patteggiamento, una efficacia extra moenia così penetrante. Senza contare la natura esclusivamente "premiale" – quindi non intrinseca alla tipologia del rito – da riconnettere all’assenza di efficacia della sentenza che applica la pena nei giudizi civili e negli altri giudizi amministrativi.

14. Come è noto, in forza della L. 11 giugno 2003, n. 134, l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti ha decisamente cambiato pelle. Lo schema negoziale rimasto apparentemente illeso, sembra però, in certo senso, bilanciato dall’elevazione della pena massima per accedere al procedimento nella misura di anni cinque di reclusione soli o congiunti con pena pecuniaria.

Dall’esame dell’assetto normativo una prima considerazione appare davvero pertinente: se si vuole mantenere – come sembra necessario – una perfetta simmetria fra patteggiamento minor e patteggiamento maior, è necessario inferirne che è a quest’ultimo che occorre riferirsi come lo specimen del patteggiamento, pure perchè le novazioni più significanti concernono entrambi gli istituti (si pensi al nuovo regime della confisca e della revisione); cosicchè non pare che il sistema degli incentivi apprestati per il solo patteggiamento infrabiennale (si allude al regime delle sanzioni sostitutive, all’esenzione dal pagamento delle spese processuali, all’inapplicabilità delle pene accessorie e delle misure di sicurezza personali, all’estinzione del reato) valgano a delineare un sistema in cui, prevalendo le differenze sulle affinità, ci si trova in presenza di fenomeni profondamente differenziati; al contrario, sono proprio le affinità che designano i due istituti, non soltanto per il comune schema negoziale che ne è alla base, ma per l’applicazione della riduzione di pena, per l’irrilevanza della costituzione di parte civile salvo il pagamento delle spese di costituzione e difesa della parte civile, per la non menzione della sentenza nel certificato del casellario giudiziale, per l’inefficacia della sentenza nei giudizi civili e amministrativi diversi dai giudizi disciplinari, per l’azionabilità della revisione e per il regime più rigoroso riservato alla confisca.

15. Fatte queste prime precisazioni, va – ancora una volta – ricordato come il trasferimento dall’art. 448 all’art. 444, comma 2, del criterio di congruità della misura della pena rappresenta un elemento che, per quanto direttamente scaturente dalle statuizioni della sentenza costituzionale n. 313 del 1990, viene ad acquistare una valenza davvero designante proprio se preordinata a collegarsi all’elevazione della pena condizionante l’accesso al procedimento in esame.

L’apparente omogeneità del "nuovo" patteggiamento sembrerebbe restare subito compromessa dalla previsione di talune esclusioni oggettive e soggettive perchè possa essere instaurata la procedura;

il tutto se e semprechè la pena applicata superi i due anni di reclusione.

L’elevazione del tetto di pena per l’introduzione del rito previsto dall’art. 444 c.p.p. e seguenti non sembrerebbe, infatti – come è stato rilevato in dottrina – assumere una designazione meramente quantitativa se posta in relazione con l’art. 111 Cost., comma 4, solo osservando che l’elusione del principio del contraddittorio nella formazione della prova rischia di ribaltare il rapporto regola- eccezione per una parte da definire addirittura prevalente delle regiudicande penali. Una constatazione che, peraltro, non inficia in modo decisivo la tenuta costituzionale dell’istituto nel suo complesso. Non a caso, infatti, la Corte costituzionale, chiamata a decidere della legittimità, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., dell’art. 444 c.p.p. ha dichiarato non fondata la relativa questione, precisando come la sottrazione al giudizio ordinario della cognizione di diversi reati di notevole gravità e la paventata riduzione del sistema penale e processuale "a un luogo di negoziazione che svilisce la funzione giurisdizionale", non integra l’elusione del canone della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, trasformando in principio generale l’eccezione prevista dall’art. 111 Cost., comma 5.

Ha osservato la Corte che il sistema protettivo predisposto dal legislatore nel delineare la disciplina del nuovo patteggiamento, mediante la predisposizione di preclusioni oggettive e soggettive in relazione alla gravità dei reati ed ai casi di pericolosità qualificata dell’imputato, oltre che in considerazione della non operatività di importanti effetti premiali, consentono di ritenere che la scelta di dilatare l’area di incidenza dell’istituto rappresenta la risultante della discrezionalità del legislatore, certo non esercitata in modo irragionevole (Corte costituzionale, sentenza n. 134 del 2003).

16. Dalla lettura del complessivo sistema normativo risultante dalla L. n. 134 del 2003 ne emerge comunque un assetto unitario, contrassegnato da talune varianti non decisive per inferirne una sorta di asimmetria del rito, solo considerando la prevalenza delle identità piuttosto che delle divergenze, secondo un modello entro il quale il concomitante profilo teleologico costituisce la conferma (pure al di là della significativa sistemazione topografica, non a caso caratterizzata da un’accentuata unitarietà) dell’esigenza di una unitaria qualificazione assiologica della procedura speciale dell’applicazione di pena su richiesta.

Le varianti, in ogni caso, non incidendo nè sulla struttura nè sulla funzione della pena patteggiata, non paiono dotate di valore così esponenziale da comportare una lectio strettamente condizionata alla misura dei "benefici" apprestati dal legislatore.

Del resto, pur dovendosi assegnare all’innalzamento della pena "patteggiabile" una valenza non esclusivamente quantitativa se rapportata alla normativa complementare che costituisce parte di predominante rilevanza ermeneutica del novum, la struttura negoziale ed i modelli di controllo sono identici sia per l’editio minor (olim, la sola disciplinata) sia per l’editio maior.

Nè l’elevazione della pena patteggiabile può determinare decisivi squilibri rispetto al patteggiamento delineato ante riforma salvo a cadere in suggestioni interpretative, come tali sprovviste di effettiva forza ermeneutica, utilizzando criteri di verifica basati esclusivamente sulla misura della pena; anche se, proprio a tale elevazione – che pure non è in grado di rendere disomogenee le due editiones – non può corrispondere una qualche presa di distanza da linee interpretative che assegnano all’applicazione della pena un contenuto negoziale prevalente rispetto alla funzione giurisdizionale in cui si concretizza l’opera di controllo sulla "legalità" (intesa l’espressione in senso ampio) dell’accordo pure alla stregua del precetto dell’art. 27 Cost., comma 3, al quale l’art. 444 fa ora – sia pure implicito – richiamo.

17. Come si è accennato, il patteggiamento consta di un regime premiale comune ad entrambi gli istituti e di un regime premiale conseguente al solo patteggiamento da cui derivi l’applicazione di una pena non superiore a due anni di reclusione soli o congiunti con pena pecuniaria.

Quanto al primo, gli snodi cruciali sono rappresentati dalla riduzione di un terzo della pena indicata dalle parti, dall’irrilevanza della costituzione di parte civile salvo il pagamento delle spese sostenute dalla parte civile stessa, dall’inefficacia della sentenza nei giudizi civili o amministrativi, con esclusione del giudizio disciplinare, a norma dell’art. 653 c.p.p., comma 1 bis.

Ferma, quindi, l’unitarietà dell’istituto e l’incidenza delle "novelle" del 1999 e del 2001, non può, in primo luogo, sfuggire come l’innalzamento della pena patteggiabile ad anni cinque di reclusione (con in più, le preclusioni della possibilità di accesso al rito cui si è or ora accennato) imponga una verifica dell’effettiva portata precettiva dello ius novum, proprio muovendo dal modello di equiparazione ora trasferito nel precetto dell’art. 445 c.p.p., comma 1 bis.

L’aspetto qualitativo sembra, infatti, precedere, secondo l’opzione simmetrica cui queste Sezioni unite ritengono di uniformarsi – in un panorama entro il quale valore complementare assumono, da un lato, la dissoluzione degli approdi giurisprudenziali in tema di accesso alla revisione e, dall’altro lato, il nuovo regime della confisca, peraltro già introdotto da talune leggi speciali – il profilo concernente il tetto di pena per accedere alla procedura.

Ma, per restare ad un tema del tutto intrinseco alla disciplina dell’applicazione di pena su richiesta, assume subito rilievo dirimente la prosecuzione dell’assetto normativo rimodellato già nel 1999, laddove ci si riferisce alla pena "irrogata"; un’espressione che, tecnicamente intesa, lungi dall’esprimere un mero dato nominalistico, sembra coordinarsi strettamente al regime di equiparazione ed ai modelli complementari che rendono la sentenza di applicazione della pena una sentenza di condanna, salvo il regime derogatorio di cui all’art. 445 c.p.p., comma 1 bis.

Può dirsi così che mentre la pena "applicata" esprime il contrassegno della specialità del rito, la pena "irrogata" designa la risultante del principio di equiparazione reso palese – nell’ineludibile unitarietà dell’istituto – dall’applicazione, nell’editio maior, di un regime che non può che conseguire da una sentenza di condanna, e che si concentra nella condanna alle spese del procedimento e nell’applicazione delle misure di sicurezza.

Il quadro che ne discende, anche in forza dell’elevazione della pena che legittima l’accesso al rito, induce, dunque, ad assegnare valore esclusivamente normativo al principio di equiparazione ed impone di ritenere la stretta interpretazione delle varianti che compongono il regime derogatorio.

18. Nel nuovo sistema decisamente più consistenti sono gli incentivi che rendono accattivante il ricorso all’editio minor, considerata l’applicabilità delle sanzioni sostitutive (secondo i ritocchi apportati dalla L. n. 134 del 2003, art. 4), l’esenzione dal pagamento delle spese processuali, l’inapplicabilità delle pene accessorie e delle misure di sicurezza con eccezione della confisca nei casi previsti dall’art. 240 c.p., l’estinzione del reato se nel termine di cinque anni, quando la condanna concerne un delitto ovvero di due anni quando la condanna concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. Conseguendone l’estinzione di ogni effetto penale e, se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l’applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di una sospensione condizionale della pena.

Ne consegue che l’editio maior comporta l’obbligo del pagamento delle spese processuali, l’applicazione delle pene accessorie (interdizione dai pubblici uffici, interdizione da una professione o da un’arte, interdizione legale, interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione, la decadenza dalla potestà dei genitori e la sospensione dall’esercizio di essa, la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, la sospensione dall’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese, la pubblicazione della sentenza di condanna, secondo i modelli rispettivamente indicati dagli artt. 28, 30, 32, 32 bis, 32 ter, 34, 35, 35 bis, 36, c.p. oltre ad alcune ipotesi extravaganes) e delle misure di sicurezza, compresa la confisca nei casi previsti dall’art. 240 c.p..

19. Come si è già fatto cenno, tra le prescrizioni in peius derivanti dalla "novellazione" (altri effetti dello stesso tipo saranno presi in esame analizzando il complessivo assetto normativo derivante dalle innovazioni introdotte dalla L. n. 134 del 2003) è l’eliminazione di ogni limite all’applicazione della confisca (un effetto comune alla editio minor ed all’editio maior) circoscritta, nel sistema originario del c.p.p. 1988 alle ipotesi indicate nell’art. 240 c.p.p., comma 2.

Cosicchè al verificarsi del presupposto per la confisca obbligatoria o di quella facoltativa il giudice è tenuto ad applicarla, a prescindere dall’intervenuto accordo delle parti sul punto; così uniformandosi la disciplina dell’ablazione della res a quella stabilita per il giudizio ordinario e per gli altri giudizi speciali.

La soppressione dell’effetto premiale sancito dalla normativa abrogata in tema di misure di sicurezza non può giustificarsi altrimenti che in funzione di una più penetrante assimilazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, tale comunque da imporre il regime di equiparazione in termini di stretta interpretazione, solo considerando che il prodotto il profitto e il prezzo del reato sul piano dell’accertamento sono assoggettati, per la ontologica derivazione dal fatto commesso, ad una decisione dalla quale è, con una qualche difficoltà, possibile intravedere una verifica corrispondente a quella di una sentenza in ipotesi di responsabilità. Il tutto, peraltro, in presenza di un diritto vivente decisamente contrario ad un’interpretazione "estensiva" dell’art. 445 ante riforma e di significativi approdi normativi raggiunti – anche in materia di confisca disposta a seguito di sentenza di applicazione della pena su richiesta – da leggi speciali.

20. Come si è già detto, le Sezioni unite di questa Corte, sul presupposto della ontologica diversità della sentenza che applica la pena su richiesta rispetto alla sentenza di condanna, per l’assenza nella prima di un accertamento del reato e di un giudizio di colpevolezza, hanno escluso che la pronuncia emessa a norma dell’art. 444 c.p.p. e seguenti sia assoggettabile al giudizio di revisione, sul presupposto che sono soggette a tale mezzo di impugnazione solo le sentenze di condanna con accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e delle prove (Sez. un., 25 marzo 1998, **********).

Proprio alla stregua di tale pronuncia, la L. 12 giugno 2003, n. 134, ha interpolato l’art. 629 c.p.p., comma 1, assoggettando a revisione anche le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Se l’inserimento nel "pacchetto" riformulatorio dell’istituto del patteggiamento pare la risultante della elevazione della pena che può essere oggetto di accordo e delle conseguenze derivanti dall’utilizzazione del modello che si è denominato editio maior, il fatto, però, che il mezzo straordinario di impugnazione abbia coinvolto l’intero istituto – una soluzione da ritenere necessitata non solo per intuibili ragioni sistematiche, ma anche per mantenere un’intrinseca razionalità all’istituto stesso – ha riproposto le problematiche circa la natura della sentenza che applica la pena soprattutto considerando l’incidenza sul postgiudicato della revisione.

Ed a tale stregua non può che concludersi nel senso che il ricorso a tale mezzo straordinario di impugnazione – il cui effettivo perimetro di operatività non ha ancora trovato un rassicurante assestamento – rappresenta il sintomo più chiaro della necessità di un ritorno al regime della equiparazione in termini di assoluto rigore ermeneutico.

Una tale conclusione, peraltro, non implica un processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia, ma sta univocamente a significare che il regime di equiparazione, ora codificato alla stregua della normativa complementare più volte menzionata, non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse.

Già i primi apporti ermeneutici di questa Corte Suprema sembrano sottrarsi dalla qualificazione della decisione che applica la pena come sentenza di condanna, con conseguenti riverberi quanto alla motivazione, dovendosi ritenere sul punto ancora pienamente operanti gli approdi interpretativi della sentenza Di *********.

E’ chiaro che proprio l’accesso alla revisione costituisce, per i casi previsti dall’art. 630 c.p.p. e per meccanismi operanti soprattutto in sede di ammissibilità dall’art. 634 dello stesso codice, uno dei profili che potrebbero indurre ad una soluzione debordante dai precedenti risultati interpretativi di queste Sezioni unite.

In proposito, una recente decisione, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 629 c.p.p. (forse, peraltro erroneamente chiamato in causa alla stregua del petitum perseguito dal ricorrente) eccepita sul presupposto che la sentenza che applica la pena su richiesta, in forza della novella normativa che consente la revisione, va qualificata come vera e propria sentenza di condanna, alla cui base deve, dunque sussistere un pieno accertamento di responsabilità.

La Corte ha considerato una forzatura l’interpretazione proposta evidenziando un dato letterale esplicitato dalla disposizione dell’art. 629 c.p.p., ritenendolo decisivo.

Tale precetto disgiunge, in riferimento alla revisione, le sentenze di condanna dalle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p., comma 2, perchè le menziona raccordate dalla particella "o", mostrando di avere ben presente che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non è una decisione "di condanna", ma è soltanto ad essa equiparata. L’equiparazione alle sentenze di condanna giustifica l’assoggettamento alla revisione e non fa della sentenza di patteggiamento una sentenza di condanna in senso proprio.

Anche qui l’affermazione che la sentenza di patteggiamento non afferma la responsabilità in ragione della struttura negoziale del rito, nel quale l’imputato esonera l’accusa dalla prova dei fatti addebitati nell’imputazione assume valore dirimente, con la conseguenza che la motivazione è sufficientemente formata con l’indicazione delle valutazioni sulla sussistenza del consenso delle parti, sull’insussistenza delle condizioni in presenza delle quali deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p., sulla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell’applicazione e comparazione delle circostanze, e sulla congruità della pena (Sez. 7^, 4 marzo 2004, *****).

Una soluzione, quella ora ricordata, che sembra però trascurare le effettive caratteristiche distintive della sentenza di patteggiamento rispetto alla sentenza di condanna alla quale la prima è, pur sempre (soltanto) equiparata. Cosicchè il dato letterale, vale a dire, l’uso della disgiunzione "o" nella giustapposizione delle sentenze di condanna alle sentenze di patteggiamento all’interno della previsione dell’art. 629 c.p.p., è assolutamente irrilevante sia perchè la stessa particella disgiuntiva era utilizzata per legare la sentenze di condanna al decreto penale che è anch’esso provvedimento di condanna sia perchè il legislatore del 2003, inserendo le più volte richiamate innovazioni, tra le quali la revisione, sembra assegnare proprio a tale mezzo di impugnazione una rilevanza davvero esponenziale.

Così ancorando il disposto dell’art. 445 c.p.p., comma 1 bis alla sua effettiva valenza precettiva sia perchè l’interpolazione dell’art. 629 c.p.p. viene a configurarsi come una sorta di interpretazione autentica del previgente art. 445 c.p.p., comma 1, ultimo periodo, alla stregua delle conclusioni delle Sezioni unite circa l’inapplicabilità al patteggiamento dell’istituto della revisione sia perchè l’accesso a tale mezzo di impugnazione, rappresentando una vicenda costituzionalmente obbligata, si giustifica solo alla stregua delle prese di posizione di questa Corte. Resta, peraltro, aperta la problematica – in ordine alla quale il Collegio non è stato chiamato a pronunciarsi – circa i criteri di adattamento della revisione ad un regime che, almeno in sede cognitoria, mantiene quale regola di giudizio, ai fini del proscioglimento, la disposizione dell’art. 129 c.p.p..

21. Le considerazioni che precedono conducono conseguentemente a ritenere che il regime di equiparazione, ricondotto al suo rilievo letterale, oltre che alle esigenze teleologiche perseguite dal legislatore, che ne costituiscono il necessario momento complementare, impediscano a queste Sezioni unite, per tornare al quesito interpretativo sottoposto al vaglio della Corte, di proseguire nella linea ermeneutica delineata dalle tre più volte richiamate decisioni, stando alle quali la revoca di diritto della sospensione condizionale della pena, nell’ipotesi in cui il condannato commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena detentiva, non opera nel caso in cui al condannato stesso sia stata irrogata una pena in forza di una sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p., e seguenti.

Ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 3, va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: "la sentenza emessa all’esito della procedura di cui agli artt. 444 c.p.p. e segg. poichè è, ai sensi dell’art. 445, comma 1 bis, equiparata, salvo diverse disposizioni di legge a una pronuncia di condanna costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168 c.p., comma 1, n. 1, della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa". 22. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 29 novembre 2005.

Redazione