Corte di Cassazione Penale sez. VI 28/9/2009 n. 38119; Pres. De Roberto G.

Redazione 28/09/09
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IN FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 20 giugno 2005 n. 2419 il Tribunale di Brescia dichiarava (omissis) colpevole del reato previsto dall’art. 81 c.p., comma 2, art. 61 c.p., n. 9, e art. 329 c.p., commesso in (omissis), perchè nella sua qualità di agente municipale, comandava di servizio il giorno (omissis) per effettuare un posto di controllo in via (omissis), dichiarava esplicitamente che non l’avrebbe fatto e abbandonava il servizio senza giustificato motivo; inoltre, comandata di servizio il giorno (omissis) per effettuare due sopralluoghi presso attività artigiane del luogo, rifiutava di adempiervi e si allontanava dall’ufficio senza giustificato motivo; e la condannava, con le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante contestata, alla pena di due mesi e quindici giorni di reclusione, sostituita con la corrispondente sanzione pecuniaria di Euro 2.850,00 di multa.

Avverso la sentenza proponeva appello il difensore dell’imputata, chiedendone l’assoluzione, e, in subordine, l’eliminazione dell’aggravante, già presente come elemento costitutivo del reato, e la riduzione della pena.

Con sentenza del 12 marzo 2007 n. 486 la Corte d’appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza impugnata, escludeva la contestata aggravante dell’art. 61 c.p., n. 9, confermando nel resto.

Avverso la sentenza di appello la (omissis) ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:

1. contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)) in ordine alla palese reticenza delle testimonianze dei colleghi dell’imputata e alla ricostruzione dell’episodio e alla parte avutavi dalla reazione irosa del Comandante, e alla valutazione del certificato medico, confermato da quello del medico fiscale e dai successivi controlli medico – legali, che hanno confermato la diagnosi di agorafobia e la conseguente incapacità di svolgere determinati tipi di lavoro;

2. erronea applicazione dell’art. 329 c.p., (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) perchè non ogni rapporto fra l’agente della Forza Pubblica e l’Autorità competente può essere ricondotto alla tutela della norma, ma solo quelli in cui l’agente è richiesto di esercitare i poteri caratterizzanti, di coercizione diretta di persone e cose ai fini della tutela dell’azione e della sicurezza pubblica, che nella specie mancavano perchè gli ordini impartiti riguardavano un controllo della circolazione stradale e un sopralluogo su attività commerciali, in relazione ai quali il ricorso ai poteri d’imperio e di coercizione erano solo potenziali, con conseguente insussistenza del presupposto che qualifica il rapporto gerarchico oggetto della tutela normativa.

L’impugnazione è infondata.

La sentenza impugnata riepiloga i termini della vicenda sottoposta alla cognizione del Giudice d’appello partendo dall’esposto di (omissis), già comandante della Polizia Municipale di (omissis), il quale – dopo aver segnalato gli screzi verificatisi fra lui e la vigile (omissis) che non intendeva svolgere esercizi esterni e aspirava a cambiare ufficio, e la propria richiesta all’Amministrazione comunale di cambiare funzioni assegnate alla (omissis) o di procedesse disciplinarmente nei confronti della stessa – aveva riferito che quest’ultima l'(omissis), richiesta di eseguire un controllo stradale insieme con la sua collega (omissis) si era rifiutata e se n’era andata dall’ufficio sbattendo la porta, sicchè il servizio era stato svolto dall’altra Vigile e dal Comandante.

Successivamente – aveva aggiunto il Comandante – il (omissis) la (omissis) richiesta di eseguire un controllo su attività artigianali, si era rifiutata, affermando che non avrebbe eseguito ordini che qualificava come cazzate. Solo più tardi aveva presentato certificati medici relativi alla patologia detta agorafobia, di cui la stessa era sofferente.

Di seguito la sentenza impugnata passa in rassegna la versione dei fatti opposta dall’imputata, la quale, in ordine al primo episodio, ha solo obiettato di aver chiesto unicamente il permesso di andare in bagno, dopo che il Comandante l’aveva aggredita in termini molto pesane; poi si era attardata per consentire a una signora di pagare una "contravvenzione" e, avendo visto che nel frattempo il Comandante allontanarsi in bicicletta, si era recata dal Sindaco che l’aveva autorizzata a compiere altre operazioni.

Il Giudice d’appello ha tracciato, inoltre, un bilancio delle prove acquisite e, in particolare, delle deposizioni testimoniali assunte, osservando come dai testi siano venute notizie vaghe ed evasive – con reticenza ritenuta attribuibile piuttosto al rapporto attuale di colleganza con la (omissis) che all’influenza del (omissis) che non era più al suo posto, del quale nessuno dei testimoni aveva messo in discussione correttezza e credibilità – con conferma da parte di due di loro (omissis) ed (omissis), di aver sentito in epoca imprecisata, dire dalla (omissis) che avrebbe eseguito un ordine dopo essere andata in bagno e da uno di loro ((omissis)) che successivamente, essendosi il Comandante allontanato, si doveva recarsi dal sindaco.

Le conclusioni, sui si è pervenuti in sede di merito, della veridicità della versione accusatoria, appare logicamente conseguente all’analisi critica svolta, a seguito della quale emerge che la giustificazione offerta dall’imputata in ordine al primo episodio appare in realtà inconsistente, in quanto la stessa, lungi dall’eseguire l’ordine, aveva tergiversato finchè era data dal sindaco a farselo revocare.

E lo stesso può dirsi della giustificazione del secondo episodio in quanto il certificato dell’agorafobia è giunto successivamente e il disturbi certificato non aveva in precedenza determinato problemi sull’esecuzione dei servizi esterni da parte dell’imputata.

Di conseguenza il vizio di motivazione dedotto col primo motivo d’impugnazione appare infondato.

Lo stesso deve dirsi del secondo motivo.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale in materia sono da considerare soggetti attivi del reato di cui all’art. 329 c.p., da un lato, i militari, dall’altro lato, gli agenti della forza pubblica, comprendendo in tale categoria gli agenti di pubblica sicurezza, i carabinieri, le guardie di finanza, i vigili del fuoco, gli agenti di custodia e le persone ad essi equiparate, nonchè tutti quegli organismi pubblici non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta sulle persone e sulle cose ai fini dell’ordine e della sicurezza pubblica (Sez. 6^, 5 dicembre 1986, ********).

L’inserimento degli appartenenti alla polizia municipale nella categoria degli agenti della forza pubblica (meglio, nella categoria degli agenti di polizia giudiziaria) è stato affermato dalla giurisprudenza, sia pure a fini diversi dall’applicazione dell’art. 329 c.p..

Secondo tale linea interpretativa il vigile urbano ha la qualità di agente di polizia giudiziaria a norma della L. 7 marzo 1986, n. 65, art. 5, che attribuisce simile qualità al personale che svolge servizio di polizia municipale nell’ambito del territorio dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni esercita anche funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria il responsabile del servizio o del corpo degli addetti al coordinamento ed al controllo (Sez. 1^, 30 ottobre 1992, ***********).

Pertanto il c.d. rifiuto di obbedienza di cui all’art. 329 c.p., ha come destinatari, i militari e gli agenti della forza pubblica (una nozione, quest’ultima, che non coincide con quella di agenti della polizia giudiziaria, perchè la qualità di agente della forza pubblica impone che il soggetto sia investito di un potere di coercizione diretta su persone o cose ai fini di tutela dell’ordine o della sicurezza pubblica; coerentemente, dunque, anche alla luce dei profili teleologici a base della norma in esame, assume rilievo esponenziale il potere coercitivo così da escludere la sussistenza del reato tutte le volte che la condotta omissiva riguardi l’espletamento di un’attività meramente amministrativa (arg. da Sez. 6^; 19 giugno 2000, *****).

La qualità soggettiva di agente della forza pubblica assume, allora, ai fini della qualificazione del fatto nell’ambito dell’ipotesi di reato in esame, una duplice significazione; da un lato sta a designare una soggettività più ampia rispetto a quella propria dell’agente di polizia giudiziaria; dall’altro lato, acquistando rilevanza esclusiva il profilo funzionale, richiede che – sempre avendo di mira gli scopi perseguiti dall’art. 329 c.p. – quale condizione ineludibile che l’atto oggetto del rifiuto di obbedienza si incentri sul mancato esercizio di poteri coercitivi (Cass., Sez. 6^, 13 ottobre 2005 n. 5393, ric. *****).

Con l’ulteriore specificazione che l’art. 329 c.p., per quel che attiene l’elemento materiale del reato, considera come fatto punibile il rifiuto di obbedienza agli ordini emanati dalle competenti autorità e quindi si riferisce, quanto agli agenti della forza pubblica non militarizzata, sia dagli orini impartiti da autorità civili non sovraordinate (es: i giudici ex art. 220 c.p.p.) sia ai superiori gerarchi ai quali il relativo potere è riconosciuto dai singoli ordinamenti interni (Cass., Sez. 6^, 5 dicembre 1986 n. 4259, ric. *******).

Tra poteri coercitivi, intesi come caratterizzati dal legittimo uso della forza in funzione del conseguimento di finalità di natura pubblica precisamente determinate, rientrano quelli connessi con i settori della pubblica amministrazione riservati per legge alla competenza dei vigili urbani e inerenti alla funzione istituzionale loro propria, e, in particolare, quelli relativi alla disciplina della circolazione stradale ed al controllo della regolarità degli esercizi commerciali.

Pertanto si rende colpevole del reato di cui all’art. 329 c.p., il vigile urbano che si rifiuta di obbedire agli ordini impartitigli dal superiore gerarchico, comandante del corpo di appartenenza, di instaurare un posto di controllo della circolazione stradale e di eseguire sopralluoghi per la verifica di regolarità presso centri di attività artigianale.

La decisione impugnata si è correttamente uniformata ai principi suesposti ed è perciò immune dalla violazione di legge dedotta col secondo motivo di ricorso.

Pertanto il ricorso dev’essere rigettato.

Segue per legge la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione