Corte di Cassazione Penale sez. VI 26/6/2009 n. 26594; Pres. Lattanzi G.

Redazione 26/06/09
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FATTO E DIRITTO

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza 31/1/2006, confermava quella in dati 24/3/2004 del locale Tribunale – sezione di Susa -, che aveva assolto P.M. dal delitto di cui all’art. 572 c.p., commi 1 e 2, perchè il fatto non sussiste.

L’accusa specifica mossa all’imputato è di avere, dalla metà dell’anno (omissis) in poi, nella sua qualità di direttore generale della "Azimut spa" di (omissis), maltrattato la dipendente Pa.Da., sottoposta alla sua autorità per l’esercizio della professione, nei cui confronti aveva assunto sistematici comportamenti ostili, umilianti, ridicolizzanti e lesivi della dignità personale, tanto da procurarle lesioni gravi e gravissime, soprattutto a livello psichico.

Il Giudice distrettuale riteneva che il caso in esame non era inquadratale nella fattispecie legale di cui all’art. 572 c.p., difettando, sul piano ontologico, gli estremi dell’affidamento, inteso come "stretta relazione personale continuativa, caratterizzata da sistematicità, tra datore di lavoro e lavoratore", e mancando la prova dell’attribuibilità soggettiva delle condotte ipotizzate all’imputato e comunque della "preordinazione" di costui ad una scelta vessatoria, attuata direttamente o a mezzo dei propri collaboratori, in danno della Pa..

Sottolineava che ben diversa era la realtà emersa dall’espletata istruttoria dibattimentale e dalla sentenza pronunciata dal Giudice del lavoro in data 28/1/2003: non un atteggiamento di ostile e abituale prevaricazione ai danni della Pa. sotto la regia del P., ma una situazione di conflittualità nell’ambiente di lavoro, nel cui contesto andavano letti e interpretati i singoli episodi oggetto di contestazione.

Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore ******** presso la Corte territoriale, deducendo la violazione della legge penale, con riferimento all’art. 572 c.p., e il vizio di motivazione: non si era adeguatamente valorizzata la relazione intersoggettiva che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, caratterizzata dal potere direttivo e disciplinare del primo nei confronti del secondo, dato questo idoneo, in presenza degli altri elementi tipici, a configurare il delitto di maltrattamenti; non si era dato rilievo alla conclusioni rassegnate dai consulenti tecnici del P.M. circa il rapporto di causalità tra la situazione lavorativa vissuta dalla Pa. e le patologie sulla medesima riscontrate; si era ritenuta immotivatamente inattendibile la testimonianza della persona offesa; si era incorsi in errore nel delineare l’elemento soggettivo del reato.

Il ricorso non è fondato e va rigettato.

La sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e riposa su un apparato argomentativo che, ancorato a precise emergenze processuali, dà conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene. I Giudici di merito, all’esito di un’analisi approfondita e critica della prova testimoniale acquisita, evidenziano che la Pa. aveva certamente vissuto, nell’ambiente lavorativo in cui era inserita, una situazione di forte conflittualità, che aveva determinato contrasti con altri colleghi di lavoro, con dirigenti dell’azienda e solo marginalmente o indirettamente col direttore generale P..

Al di là di ogni considerazione circa la riferibilità soggettiva all’imputato degli episodi oggetto di contestazione e la ravvisabilità dell’elemento soggettivo del reato ipotizzato, il dato acquisito è che la Pa. era stata destinataria, nel clima esasperato delle tensioni verificatesi nel citato contesto lavorativo, di ripetute censure ad opera dei suoi superiori, percepite da lei come penalizzanti per la propria professionalità e mortificanti della sua dignità di persona.

Tale situazione può essere, in astratto, ricondotta nel cd. mobbing, la cui nozione evoca appunto una condotta che si protrae nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del lavoratore.

Nel nostro codice penale, però, nonostante una Delibera del Consiglio d’Europa del 2000, che vincolava tutti gli Stati membri a dotarsi di una normativa corrispondente, non vi è traccia di una specifica figura incriminatrice per contrastare tale pratica persecutoria definita mobbing. Sulla base del diritto positivo e dei dati fattuali acquisiti, pertanto, la via penale non appare praticabile. E’ certamente percorribile, invece, come sembra essere accaduto nel caso concreto, la strada del procedimento civile, costituendo il mobbing titolo per il risarcimento del danno patito dal lavoratore in conseguenza di condotte e atteggiamenti persecutori del datore di lavoro. La responsabilità datoriale ha natura contrattuale ex art. 2087 c.c., norma questa in stretto collegamento con quelle costituzionali poste a difesa del diritto alla saluto (art. 32) e del rispetto della sicurezza, della libertà e della dignità umana nell’esplicazione dell’iniziativa economica (art. 41). Il legittimo esercizio del potere imprenditoriale, infatti, deve trovare un limite invalicabile nell’inviolabilità di tali diritti e nella imprescindibile esigenza di impedire comunque l’insorgenza o l’aggravamento di situazioni patologiche pregiudizievoli per la salute del lavoratore, assicurando allo stesso serenità e rispetto nella dinamica del rapporto lavorativo, anche di fronte a situazioni che impongano l’eventuale esercizio nei suoi confronti del potere direttivo o addirittura di quello disciplinare.

Il mobbing è solo vagamente assimilabile alla previsione di cui all’art. 572 c.p., ma di questa non condivide tout court, quasi per automatismo, tutti gli elementi tipici.

Rileva la Corte che, nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare (capo 4^, titolo 11^ del libro 2^ del codice penale), sono ricomprese anche fattispecie la cui portata supera i confini della famiglia, comunque essa venga intesa, legittima o di fatto.

Ed invero, sia l’art. 571 c.p. che l’art. 572 c.p., indicano come soggetto passivo delle rispettivi; previsioni anche la "persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata…per l’esercizio di una professione o di un’arte". La formula linguistica utilizzata postula il chiaro riferimento a rapporti implicanti una subordinazione, sia essa giuridica o di mero fatto, la quale – da un lato – può indurre il soggetto attivo a tenere una condotta abitualmente prevaricatrice verso il soggetto passivo e – dall’altro – rende difficile a quest’ultimo di sottrarvisi, con conseguenti avvilimento ed umiliazione della sua personalità.

Proprio incidendo sulle nozioni di "subordinazione ad autorità" e di "affidamento", può farsi rientrare nella corrispondente situazione, come parte della dottrina e della, giurisprudenza ritiene, anche il rapporto che lega il lavoratore al datore di lavoro.

L’affermazione merita, però, una precisazione.

Osserva, invero, la Corte che tale rapporto, avuto riguardo alla ratio delle richiamate norme e, in particolare, a quella di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzato da "familiarità", nel senso che, pur non inquadrandosi nel contesto tipico della "famiglia", deve comportare relazioni abituali e intense, consuetudini di vita tra i soggetti, la soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), la fiducia riposta dal soggetto passivo nel soggetto attivo, destinatario quest’ultimo di obblighi di assistenza verso il primo, perchè parte più debole. E’ soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della funzione del medesimo rapporto attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, esemplificativamente, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista.

L’inserimento dei maltrattamenti tra i delitti contro l’assistenza familiare è in linea col ruolo che la stessa Costituzione assegna alla "famiglia", quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi componenti, e nella stessa ottica vanno letti e interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura para-familiare.

Tale connotazione deve escludersi nel caso in esame, considerato che la Pa. eri inserita in una realtà aziendale complessa (la Azimut spa aveva centinaia di dipendenti), la cui articolata organizzazione (v’erano i cd. "quadri intermedi") non implicava una stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, sì da determinare una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare, e inevitabilmente marginalizzava i rapporti intersoggettivi, nel senso che non ne esaltavi quell’aspetto personalistico connesso alla "supremazia-soggezione" tra soggetti operanti su piani diversi. Conseguentemente non è apprezzabile, in una simile realtà, la riduzione del soggetto più debole in una condizione esistenziale dolorosa e intollerabile a causa della sopraffazione sistematica di cui sarebbe rimasto vittima.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Redazione